• Non ci sono risultati.

Metamorfosi del potere e svalutazione del sapere umanistico: un’analisi sociologica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Metamorfosi del potere e svalutazione del sapere umanistico: un’analisi sociologica"

Copied!
165
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE


Corso di Laurea Magistrale in Sociologia e Politiche

Sociali

TESI DI LAUREA IN SOCIOLOGIA E STORIA E TEORIA

SOCIOLOGICA

“METAMORFOSI DEL POTERE E SVALUTAZIONE DEL

SAPERE UMANISTICO: UN’ANALISI SOCIOLOGICA”

Relatore: Andrea Borghini

Laureando: Michele Resciniti

(2)

INTRODUZIONE... 2

CAPITOLO 1... 7

1.1 IL POTERE E L’ORIGINE DELLO STATO ... 7

1.2 POTERE E GLOBALIZZAZIONE ... 25

1.3 IL POTERE DEMOCRATICO: ELITISMO, NEO-ELITISMO ED ANTI-ELITISMO ... 31

CAPITOLO II ... 43

2.1 BREVE STORIA DEI DELITTI E DELLE PENE: FOUCAULT TRA L’ANCIEN REGIME E LE SOCIETÀ DISCIPLINARI ... 43

2.2 IL PANOPTICON COME MODELLO DI SOCIETÀ DISCIPLINARE... 53

2.3 FOUCAULT E DELEUZE: DALLA SOVRANITÀ ALLA SICUREZZA ... 59

2.4 LA DIMENSIONE SIMBOLICA DEL POTERE: SOGGETTO ED OGGETTO IN PIERRE BOURDIEU ... 62

2.5 BOURDIEU E LA COMUNICAZIONE ... 74

2.6 BOURDIEU E LA GLOBALIZZAZIONE ... 78

CAPITOLO III ... 83

3.1 LA MISSION POLITICA DI MARTHA NUSSBAUM: EDUCAZIONE E LIBERTÀ ... 83

3.2 IL PENSIERO CRITICO: IL NESSO TRA PENSIERO E AZIONE ... 99

3.3 CITTADINI DEL MONDO... 119

3.4 GLOBALIZZAZIONE E IMMAGINAZIONE ... 129

3.5 IL VALORE DELLA LETTERATURA E LA SUA CRISI... 139

3.6 UNA LETTURA CRITICA DELLA FILOSOFIA DI MARTHA NUSSBAUM ... 148

(3)

INTRODUZIONE

Le dinamiche di potere sono probabilmente tra le tematiche più discusse, non solo dalle scienze politiche, ma da tutti gli ambiti di quelle che possiamo definire “materie umanistiche”. La presenza costante di violenza, schiavitù, sottomissione e dominio in ogni epoca storica ed in ogni civiltà rende necessario per l’uomo porsi domande riguardanti le dinamiche in cui è inserito. Risulta inoltre impossibile ignorare la presenza di costanti legami verticali, difficili da indagare e definire.

Il proposito di questa tesi è quello di prendere in esame, all’interno di una prospettiva storica, i mutamenti che i meccanismi di dominio hanno subìto nel corso degli anni e le teorie che si sono impegnate a metterli in discussione, a valutarne la natura e gli sviluppi. Per farlo, è stato necessario procedere in ordine cronologico, al fine di mostrare come il potere ha avuto una sorta di evoluzione, strettamente corrispondente all’incedere dell’economia, influenzando anche le riflessioni etico-morali della filosofia.

Il primo capitolo del presente elaborato è stato concepito per essere una sorta di riassunto delle teorie sull’origine dello stato sviluppatesi in Europa da Hobbes in avanti. Ci si è dedicati, quindi, al concetto di Leviatano, e alla portata corporea che assume, all’interno dell’opera del filosofo tedesco, il discorso sulla natura. Nel corso di tale operazione si sono proposte le più moderne teorie di Giorgio Agamben, il quale, principalmente grazie alla stesura di “Homo Sacer”, riporta in auge termini di derivazione aristotelica quali zoe e bios. Grazie alla filosofia dell’illustre pensatore italiano, le opere di Hobbes sembrano riprendere vigore ed assumere nuovi significati alla luce dei processi di globalizzazione e dei movimenti umani. Assolutamente prezioso è stato inoltre il contributo apportato alla sociologia da Max Weber riguardo alla giustificazione del potere: la legittimazione e l’uso della forza, infatti, se unito e correlato a quanto esposto dagli autori considerati precedentemente, non può che condurci ad una spiegazione valida riguardante l’origine

(4)

dei totalitarismi caratteristici del Novecento europeo. In tale prospettiva potremmo esaminare la nascita e lo sviluppo del concetto di “Stato Nazione”, fino ad arrivare alla sua massima estremizzazione e resa nella brutalità della forma delle dittature.

In seguito, è stata affrontata la disputa tra elitisti ed anti-elitisti americani che ha caratterizzato la scienza politica degli anni Cinquanta del Novecento. La produzione teorica inerente alle nuove forme democratiche post-belliche è ingente e sembra evidente che qualcosa sia mutato irrimediabilmente nei modi di concepire la politica, i governi e, più in generale, il potere.

Si è visto come una metodologia non esaminata con sufficiente rigore porterà il dibattito sopracitato ad esaurirsi in tempi relativamente brevi. Gli input derivati da quest’ultimo, in ogni caso, rimangono di fondamentale importanza: in esso potremmo identificare la scintilla che ha portato all’esplodere di filosofie ben più critiche riguardo ai meccanismi di potere rispetto a quelle illustrate finora.

Il capitolo si è concluso con un breve riferimento a Herbert Marcuse ed al suo “Uomo ad una dimensione”, in cui, scavalcando l’anti-elitismo, il potere viene definito come qualcosa di subdolo ed invisibile, le cui macchinazioni si fanno impercettibili e riconducono inevitabilmente ogni movimento a loro contrario all’interno della struttura dominante. Le affermazioni di Marcuse ci hanno condotto a due autori i quali, dall’analisi della sottigliezza e pervasività dei meccanismi di dominio, hanno svolto un lavoro a dir poco brillante e innovativo: Foucault e Bourdieu. Il secondo capitolo è interamente dedicato a due studiosi come Foucault e Bourdieu.

In particolare, all’interno degli scritti di Michel Foucault, è possibile apprezzare l’attenzione rivolta alla ricostruzione storica e al metodo di lavoro utilizzato. Il diritto penale dell’Ancient Regime risulterà fondamentale per la sua teoria politica. Se nel primo capitolo, difatti, la nostra analisi si è concentrata sull’origine degli apparati statali e la

(5)

loro giustificazione e legittimazione, Foucault si basa sul mutamento dello svolgersi del processo penale: dalla nascita e dall’utilizzo dei castighi all’interno di diversi sistemi sociali egli fa discendere una teoria politica complessa e profonda. L’attenzione alla quotidianità e alla corporeità sono forse i tratti peculiari del filosofo e, da qui, derivano le sue intuizioni più geniali. Parlando di disciplina egli si avvicina alla concezione di un potere invisibile e dilagante, già ritrovata in Marcuse, ponendo l’accento su come tale potere si nutra dei nostri gesti e come venga riprodotto da ognuno di noi costantemente. L’individuo nella sua complessità ed interezza è colui che genera, forma e rafforza le strutture di dominio. Il potere non è più qualcosa di oscuro ed incomprensibile, che scende dall’alto e “schiaccia” gli individui, ma è semplicemente racchiuso ed espresso in ogni nostro movimento contribuendo a conferirgli nuova forza.

Sulla stessa linea si colloca Pierre Bourdieu. Però egli, forse data la sua formazione non prettamente filosofica ed uno sguardo più rivolto all’ambito sociologico-antropologico, si concentra sull’ambiente. Certamente, a questo autore si riconosce la ricongiunzione della frattura cartesiana che aveva diviso l’universo in oggettivo e soggettivo. Rifondendo questi due piani, Bourdieu, scruta la possibilità di andare molto oltre le teorie delle scienze sociali prodotte fino a quel momento. Egli ridona attualità al discorso marxista evidenziando la limitatezza del materialismo storico e della sua comprensione dei movimenti delle comunità sociali unicamente in un’ottica economica. Grazie all’accostamento della dimensione simbolica a quella materiale, lo studioso francese riesce a cogliere la stretta interdipendenza esistente fra individuo, luogo geografico, percezione, realtà materiale, possibilità d’intervento e relazioni sociali. In Pierre Bourdieu, ognuno di questi elementi va a rinvigorire le strutture di potere ritenute necessarie, intese come unica possibilità del reale apprezzabile: in forza del proprio peso specifico, i dominanti mutano e plasmano i desideri e i bisogni dei dominati, i quali

(6)

rincorrono significati utili alla riproduzione del sopruso. Lo studioso allora ritaglia un ruolo importante per l’intellettuale che abita in una società tragicamente determinata e si fa promotore di cambiamento sociale, si propone come guida di movimenti antagonisti e tenta continuamente di trovare alternative e vie d’uscita da quei meccanismi che costringono il soggetto ad un’oppressione costante.

Alla morte del sociologo francese la sua eredità intellettuale ha già prodotto frutti notevoli: gli studiosi che si scagliano contro un sistema sempre più utilitarista e diseguale sono ormai numerosi.

Martha Nussbaum è, tra questi, una delle autrici che negli ultimi anni ha riscosso più successo. Ella si concentra su una critica del sistema educativo occidentale, individuando nei mutamenti che lo hanno interessato le principali cause della deriva sociale in atto. Anche la Nussbaum si caratterizza per un forte apprezzamento delle ricostruzioni storiche: la sua produzione teorica rappresenta un percorso che va dalla filosofia antica degli scritti di Aristotele, Platone, Socrate e degli stoici in generale, fino ai giorni nostri, non mancando mai di riportare dati, esempi e dimostrazioni. Per la pensatrice sarà possibile liberarsi dal gioco di meccanismi di potere opprimenti unicamente grazie al recupero di una formazione di tipo classico, da lei nominata “cultura umanistica”. Una particolare attenzione va qui riservata alla democrazia, intesa come forma di governo ideale, ma che è pur sempre necessario salvaguardare. L’autrice percepisce il pericolo di un inarrestabile declino che ha già cominciato ad interessare tale forma politica. Il pensiero critico, l’arte e la letteratura hanno ceduto il passo a percorsi formativi meno creativi e basati su una lunga serie di dati da imparare mnemonicamente in vista di un sapere utile e produttivo nell’immediato. Così, la formazione provvede a fornire una prima stratificazione sociale basata sull’accesso alle informazioni e sull’utilità di concedere a tutti lo stesso grado di accessibilità: ci troviamo di fronte ad una scuola

(7)

ingiusta che forma una larga maggioranza di individui fornendo loro unicamente gli elementi essenziali per svolgere mansioni di tipo operativo. Al contempo, una sempre più ristretta parte della popolazione dovrà essere ultra-specializzata ed occupare posizioni privilegiate e, quindi, riservate. Tutto ciò andrebbe in un’ottica di massimizzazione dei profitti di derivazione utilitaristica. In ogni caso l’autrice afferma con forza come tale prospettiva porti con sé seri danni anche da un punto di vista delle tecniche che vorrebbe tutelare: l’impoverimento creativo, infatti, coincide con la scarsità d’inventiva persino nel campo dell’innovazione scientifica, rendendo il progresso nient’altro che una sterile riproduzione di sé stesso.

È necessario recuperare più prontamente possibile quei percorsi di formazione che, incentrati sulla cultura umanistica, possono fungere da garanti per la formazione di cittadini attivi, autonomi, capaci di prendere decisioni difficili, di scegliere criticamente e di garantire, in tal modo, un futuro vero al proprio paese ed alla democrazia in quanto tale.

Per quanto la proposta di Martha Nussbaum sia affascinante, si proverà a muovere alcune critiche al modello formativo filosofico da essa proposto. In particolare, si tenterà di rivedere le posizioni della filosofa sulla base di quanto sostenuto nei capitoli precedenti, soprattutto, da Foucault e Bourdieu.

(8)

CAPITOLO

1

1.1 IL POTERE E L’ORIGINE DELLO STATO

Etimologicamente, la parola potere deriva dal verbo latino posse, la cui forma antiquata sta per pot-se, contratto da potis-esse, essere potente.

Secondo la maggior parte dei linguisti, la radice indoeuropea di riferimento sarebbe PA- che esprime il concetto di proteggere, nutrire, custodire, dominare, avere autorità. E’ la stessa radice di “padre”. Sanscrito pitr, greco patèr, latino pater, russo pat’, tedesco vater, inglese father. In italiano è anche la stessa radice di “pasto” e di “pastore”, esprimendo l’idea della guida. Secondo Franco Rendich la consonante “p” in indoeuropeo esprimeva l’idea di purificazione. Il padre era il purificatore per antonomasia e fu chiamato “pitṛ” colui che esercitava la purificazione; il figlio, suo vicario, nel compiere la funzione di purificazione, fu detto putra, il protettore di ciò che è puro. La zona orientale del cielo ove sorge il sole, fonte di luce “purificatrice”, fu detta “puras”. Il sacerdote, cui spettava il compito di purificare, fu chiamato “potr”1.

Si nota che anche oggi l’epiteto di “padre” si dà ai sacerdoti. Per potis, però, Franco Rendich propone la radice indoeuropea pat (che riconosce affine a PA-) in cui distingue le componenti [at] “muoversi in ogni dove”, [p] “allo scopo di purificare”: “avere potere”, “governare”.

Secondo Rendich il suono “as” esprimerebbe l’idea di “avvio” [a] di “relazioni con” [s]; “essere”, “esistere”, poiché la consonante [s] in indoeuropeo avrebbe espresso l’idea di “unione”, “legame”, “prossimità”. E’ un concetto molto forte, perché, se è così, indica

1Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, Roma, 2010, p. 221.

(9)

che “si è” in quanto “si è in relazione”. E’ anche interessante il significato che l’autore conferisce alla funzione della radice verbale [as], essere, con il preciso senso di “copula”: «[…] Come tale il verbo “essere”, svolge il ruolo di ‘mediatore tra soggetto e predicato’; opera l’atto che, unendo, genera una nuova entità’; […]»2.

Secondo l’Enciclopedia Treccani, invece, potere significa direzione di unione.

Potere come “proprietà”, in base alla quale si è in grado di compiere o meno qualcosa, con la preposizione [di] avere il potere di cambiare una situazione.

Come si intuisce, provare a definire il concetto di potere, da dove esso si origini e quali siano i sui meccanismi fondanti, non è un lavoro semplice.

Ciò che in questo lavoro interessa è prendere in esame le strutture che determinano l’essenza del potere politico, dal momento che è quest’ultimo a regolare la vita dei cittadini: saremmo certamente d’accordo nel sostenere che il potere politico influisce sulla quotidianità e condiziona le scelte di tutti coloro che fanno parte a un determinato gruppo sociale. Questa tematica è stata fonte di innumerevoli dibattiti. Dall’antichità del mondo greco, si pensi ad esempio agli scritti dei padri della filosofia quali Platone ed Aristotele, fino ai giorni nostri, ancora tormenta le più vivaci menti che operano in campo filosofico, sociologico e della scienza politica in generale. Pertanto, la profondità, la complessità e la particolarità della dinamica del potere, ci suggeriscono di analizzare innanzitutto come questa si sia evoluta nel corso (più o meno naturale) del tempo e in che modo si sia differenziata tre le più importanti discipline odierne.

La parola potere, infatti, può essere intesa in tanti modi diversi, a seconda ovviamente della “struttura” esistente di cui parliamo. In diritto, ad esempio, il termine potere (o capacità) designa una situazione giuridica soggettiva attiva consistente nella possibilità

(10)

attribuita ad un soggetto di produrre determinati effetti giuridici, ossia di costituire, modificare o estinguere un rapporto, attraverso un atto giuridico3. In linea generale,

quindi, questa definizione si rifà alla capacità, facoltà, ovvero all'autorità, di agire, esercitata per fini personali o collettivi.

A differenza delle altre scienze sociali, infatti, qui il termine potere ha un significato preciso ma, al contempo, ristretto. Almeno per la nostra causa.

In politica, ad esempio, il potere pubblico è definito da Raymond Aron come: «la consegna ad uno o ad alcuni della capacità (riconosciuta legittima) di stabilire regole per tutti, di imporre a tutti il rispetto di queste regole o in conclusione di prendere decisioni obbligatorie, in fatto o in diritto, per tutti»4.

Da un punto di vista tecnico-organizzativo è possibile definire il potere come l'autorità e l’autonomia decisionale, esercitata in aderenza a norme e regolamenti, da un organo direttivo, nell'ambito delle proprie competenze e responsabilità lavorative-gestionali. Il potere è stato tuttavia a volte assimilato ed identificato con la vita stessa. Emerson, nel suo celebre saggio sul potere disse che “La vita è una ricerca del potere; e questo è un elemento di cui il mondo è talmente saturo – non c'è crepa o fenditura in cui non si trovi – che nessuna onesta ricerca è senza ricompense”5.

Sulla base di ciò Nietzsche sviluppò la sua celebre teoria riguardante la volontà di potenza6.

3 Guarino G., Potere giuridico e diritto soggettivo in Rassegna di diritto pubblico, 1949,

p. 238 e segg.

4 Cfr. Aron R., Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965 (trad. it. Teoria dei

regimi politici, Edizioni di Comunità, Milano 1973, p.239).

5 Emerson R.W., Condotta di vita, Rubbettino, 2008, p. 3. 6 Cfr. Nietzsche, 2006.

(11)

In ogni caso il dibattito che ruota attorno a questa tematica si è da sempre fondato su un quesito fondamentale riguardante la natura del potere stesso. Ci si è chiesti per molto tempo se esso fosse un qualcosa di ascrivibile alla categoria della materialità o se piuttosto avesse a che fare con le dinamiche relazionali. La seconda teoria oggi è sicuramente la più accettata.

Esso indicherebbe pertanto una relazione fra individui, in taluni casi diretta e in altri mediata da organizzazioni e istituzioni; il potere è inoltre connesso alla libertà, nel senso che, essendo incorporata nel potere un’ineliminabile componente coercitiva, il suo esercizio comporta sempre una riduzione della libertà altrui.

Tutto questo riconduce inevitabilmente a definire il potere come la capacità di ottenere obbedienza. Secondo la classica definizione sociologica di Max Weber: “Il potere è la possibilità che un individuo, agendo nell'ambito di una relazione sociale, faccia valere la propria volontà anche di fronte a un'opposizione”7. Come vedremo, il tentativo più

compiuto di elaborare una teoria sociologica del potere si deve proprio all’opera di Weber, il quale distingue fra il concetto di Macht, il potere in senso proprio (ossia «la possibilità di far valere, entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà»), ed il concetto di Herrschaft, traducibile come “dominio” (ossia «la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un certo contenuto»)8. All’interno della teoria weberiana dunque i due termini Macht e Herrschaft

indicano rispettivamente la forza e il consenso. La forza viene qui definita come la capacità di far valere, anche in presenza di una ferrea opposizione, la propria volontà; il consenso si caratterizzerebbe invece come l'abilità di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di individui, volontariamente intenzionati ad indirizzare le proprie

7 Weber M., Sociologia del potere, Milano, 2014, p. 11. 8 Ibid.

(12)

azioni secondo le traiettorie designate dal potere. La seconda definizione è di carattere più antropologico e si avvicina al concetto di autorità.

Questa distinzione era già stata anticipata da Machiavelli con la metafora riguardante i leoni e le volpi; i primi userebbero la sola forza per ottenere il potere (e alla lunga verrebbero sconfitti), i secondi il consenso (la persuasione)9. Heinrich Popitz, invece,

vede il primo tipo di potere come imposto brutalmente dall'alto, mentre il secondo si originerebbe dal basso tramite il rispetto ed il riconoscimento della superiorità10. Già

Sant’Agostino all’interno del De Civitate Dei poneva il problema della legittimità. Nel dialogo tra Alessandro ed il pirata si affermava che non vi fosse alcuna differenza tra il potere che un re esercita su una nazione ed il potere di un capitano pirata che governa un piccolo bastimento. Si tratta di una semplice differenza di grado, ed allora “che cosa sono i regni se non bande di ladroni?”11.

Torniamo alla definizione del concetto di potere. Essendo codesto un meccanismo relazionale, coinvolge almeno due soggetti, per cui un’azione dotata di caratteristiche specifiche deriva necessariamente da contatto fra tali entità.

Perché si possa parlare di potere è necessario anche che il comportamento di un individuo venga determinato da quello di un altro: un’“azione potestativa”, ciò che influenza e determina una risposta in un soggetto altro, il quale indirizzerà la sua agentività12 secondo coordinate ben precise e conformi all'intenzionalità di colui che esercita il dominio. Da

9 Cfr. Machiavelli N., 2008. 10 Cfr. Popitz H., 2015. 11 Cfr. Agostino, 2001.

12 Nella teoria sociocognitiva, l’agentività umana opera all’interno di una struttura

causale interdipendente che coinvolge una causazione reciproca triadica. L’agentività (agency) è la facoltà di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di esercitare un potere causale.

(13)

questa breve descrizione emerge piuttosto chiaramente quanto sia fondamentale considerare la dimensione triadica del potere. Esso risulta infatti costituito da almeno due entità che si rapportano tra loro, e da una sfera di espressione all’interno della quale prendono forma le conseguenze del suo esercizio.13 Se quindi ci troviamo a che fare con

soggetti dotati di volontà ed intenzionalità e abbiamo come risultato dell’espressione del rapporto fra questi un’azione ben determinata, non si potrà prescindere dal considerare la sfera dell’effettività e dell’efficacia delle dinamiche del potere. Possiamo dunque distinguere un potere attuale da uno potenziale. Il primo, realmente esercitato, è rappresentato da un’“azione potestativa” che a sua volta determina effettivamente un’“azione di conformità”, sia essa cosciente o meno; il secondo, invece, sarebbe conseguenza della capacità di un determinato individuo (o gruppo di individui) di rendere le proprie risorse effettivi strumenti idonei alla modifica e all’indirizzo, secondo traiettorie specifiche dei comportamenti di altri.14

Lo scarto esistente tra ciò che abbiamo definito come potere attuale e potere potenziale non è questione di poco conto. La coercizione, l’utilizzo della forza e la sopraffazione fisica non sempre sono sufficienti o implicano necessariamente l’assoggettamento di un individuo ad un altro ed è per questo essenziale considerare la dimensione primordiale di tale dinamica e fare chiarezza sul processo che determina la legittimazione della relazione di potere.

Giorgio Agamben ritiene fondamentale, a tal proposito, considerare il concetto di esclusione, ritenendo che una norma non possa essere in nessun caso applicata al caos e che, di conseguenza, sia pressoché impossibile esercitare una qualche forma di dominio su una situazione di completo disordine; “questo (il caos) dev'essere prima incluso

13 Cfr. Stoppino, 2001. 14 Ibid.

(14)

nell'ordinamento attraverso la creazione di una zona di indifferenza fra esterno ed interno, caos e situazione normale: lo stato di eccezione”.15 Questo complesso postulato racchiude

in sé una moltitudine di riferimenti derivanti dai più svariati autori che di seguito tenteremo di analizzare in maniera sicuramente incompleta e sintetica, nella speranza di fornire quantomeno una generica panoramica riguardante il funzionamento di quel processo che trasmuta il potere, rendendolo da potenziale ad attuale.

L’autore utilizza termini quali norma, ordinamento e Stato; tenteremo di ricontestualizzare le sue parole all’interno di quella relazione triadica la cui descrizione apre questo primo capitolo.

Ciò che salta immediatamente all’occhio leggendo le parole di Agamben è una netta differenziazione fra esterno ed interno, fra un qualcosa definito “eccezione” che si contrappone ad una normalità data. Per comprendere al meglio che cosa esattamente si intenda con “dentro e fuori” è essenziale tornare indietro di parecchie centinaia di anni e più precisamente rifarsi ad una concettualizzazione derivante dalla filosofia politica propria dell’antica Grecia16.

Zoe e bios; la zoe è la vita pura e semplice, ovvero ciò che ha che fare con la capacità di respirare e muoversi. Questa si contrappone alle bios, una caratteristica esclusivamente umana e legata alle competenze e capacità politico-sociali proprie di un’unica specie animale, quella umana.

Questa dicotomia differenzia con efficacia e precisione ciò che fa parte dello Stato: da un lato ciò che è di dominio politico e, dall’altro, ciò che ha a che fare con il potere che è ad egli estraneo. Emerge quindi una prima importante caratteristica della legittimazione del potere tramite la sua trasformazione in norma e, quindi, in politica; esso si definisce nella

15 Agamben G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, p.23. 16 Cfr. Aristotele, (a cura di) Laurenti R., 2007.

(15)

contrapposizione alla natura e, tramite essa, dà forma ad un sistema la cui peculiarità essenziale è l’esclusione di ciò con cui relazionarsi è pressoché impossibile. Lo Stato esclude dal suo dominio la zoe, data l’impossibilità di rapportarsi con la brutale primordialità della “vita nuda”17 e, tracciando un confine chiaro tra ciò che fa parte della

politica e ciò che invece è ad essa esterno, legittima la propria esistenza e garantisce efficacia alla norma.

Agamben procede nella trattazione affermando che in questo modo il potere dà forma ad una metodologia di relazione con l’irrelato18 e, tramite un processo di esclusione, la politica accoglie in sé lo stato di natura conferendogli le caratteristiche di eccezionalità. Tutto ciò è di fondamentale importanza in un’analisi delle forme della politica, in quanto è essenziale considerare che la costituzione di gruppi sociali organizzati, e quindi più in generale la civiltà, non può prescindere dall’inclusione dell'emergenzialità nella norma. In ultimo, chi detiene il potere diviene pertanto il soggetto al quale è concessa la possibilità di muoversi liberamente fra eccezione e norma; chi esercita il comando si colloca al di fuori della norma, così come chi perde le caratteristiche di cittadino, ed i diritti derivanti da queste ultime, torna a far parte del regno della zoe.

Fin qui la legittimazione del potere assumerebbe le caratteristiche di un meccanismo di inclusione ed esclusione dal quale si origina la norma. Può essere utile a tal proposito fare riferimento all’immaginario di derivazione hobbesiana ed al cosiddetto Leviatano. La filosofia di Hobbes19 è del tutto simile alla più moderna teoria politica di Agamben.

L’origine dello Stato deriverebbe, infatti, dall’esistenza di una naturalità primordiale, impossibile da includere nella società civile, ma con cui la politica è allo stesso tempo

17 Cfr. Agamben, 1995.

18 Privo di connessione o relazione. 19 Cfr. Hobbes, 2011.

(16)

costretta a relazionarsi. Il sovrano, colui che impersona il potere, è per Hobbes formato dall’insieme dei corpi dei propri sudditi; ma egli non si è tuttavia impossessato di questi corpi, gli sono piuttosto stati ceduti. Questa finissima differenza è importante: lo Stato secondo il filosofo affonda le proprie radici nella rinuncia consapevole da parte degli uomini alla propria zoe, essi la cedono al sovrano il quale accumula e detiene, ammassando figurativamente i corpi dei propri sudditi, lo stato di natura a cui essi hanno rinunciato. Nello specifico per l’autore ciò a cui rinunciano i sudditi sono una serie di diritti che vengono ora riconosciuti come esclusivo monopolio di chi detiene il potere, uno su tutti il diritto ad utilizzare la violenza.

La prospettiva di Locke20, celebre antagonista di Hobbes, viene ribaltata: l’origine del

potere, l’accettazione e la sua legittimazione, troverebbero giustificazione, più che in un contratto stipulato fra le parti, nella costante presenza dello stato di natura all’interno della società civile e nella possibilità dell’uomo di tornare animale in un contesto di emergenzialità ed eccezionalità.

Pertanto, al sovrano è riconosciuta la possibilità di legiferare sullo stato di eccezione, sulla natura, e anche sulla possibilità di togliere la vita, in quanto capo dell’intera struttura di potere ed eccezione vivente ad essa.

Tutto ciò è assimilabile inoltre alle teorie struttural-funzionaliste di matrice americana originatesi all’incirca a metà del Novecento. In particolare, Talcott Parsons21 afferma che

un sistema politico trova di per sé espressione nella capacità di garantire l’adempimento ad una serie di obblighi derivanti dalla struttura dell’organizzazione sociale, le cui fondamenta risiedono nella collettività22. In questo senso la politica si caratterizzerebbe

20 Cfr. Locke, 1998.

21 Cfr. Parsons, 1986, 1996. 22 Cfr. Parsons, 1986, 1996.

(17)

come il raggiungimento di fini comuni ed il potere non sarebbe nient’altro che una proprietà necessaria del sistema. L’approccio dell’autore statunitense coordina e sintetizza rispettivamente gli stimoli derivanti dalle teorizzazioni di Weber e Durkheim23;

infatti, l’unità elementare oggetto di studio della sociologia è qui individuata nell’atto o azione singola. Tale azione si sviluppa all’interno di una situazione di partenza su cui l’individuo non ha controllo, ma ritrova la possibilità di fornirsi di differenti mezzi utili ad agire su di essa. L’attore sociale indirizza la sua azione servendosi di determinati mezzi in base ad un sistema di valori specifico che, Parsons afferma, dà origine alla norma24.

Potremmo tuttavia ribaltare la questione affermando che la norma definisce il sistema di valori ed influenza la scelta dei mezzi tramite cui si conduce l’azione, limitando così lo spettro delle libertà individuali. L’apparato normativo diverrebbe di conseguenza il ponte che collega il soggetto alla struttura sociale, andando a delimitare lo spettro di azioni possibili.

È facile notare il parallelismo esistente fra quanto qui è esposto e la filosofia politica di matrice hobbesiana: la civiltà non sarebbe altro che un continuo movimento dialettico fra inclusione ed esclusione. Per Hobbes gli individui svolgono una serie di ruoli specifici che contribuiscono a dare origine al sistema sociale, ognuno dei quali, entrando in relazione tra loro attraverso l’esercizio del proprio ruolo, contribuiscono alla sussistenza e alla riproduzione costante della totalità del meccanismo, che è a sua volta costituito da sotto-unità derivanti dalla cooperazione di ruoli differenti ma a loro volta complementari: le istituzioni25.

23 Cfr. Giglioli (a cura di), 1984.

24 Cfr. Parsons, 1986. 25 Cfr. Parsons, 1996.

(18)

I vari sottosistemi che compongono e declinano il sistema sociale sono dediti ad una funzione specifica concernente l’adattamento all’ambiente, la continua ridefinizione dei propri obiettivi, l’integrazione e la relazione tra le parti, l’autoconservazione, a seconda che si consideri l’apparato economico, la dimensione politica, e ciò che dà forma al sistema giuridico, religioso ed istituzioni meno formali, quali la famiglia ad esempio. Il sistema sociale si originerebbe da individui che liberamente scelgono di impersonare determinati ruoli.

Anche se l’immaginario parsoniano è più simile ad una serie di ingranaggi che, combaciando esattamente fra loro, garantiscono il funzionamento e la riproducibilità dell’organismo statale, il processo di creazione e legittimazione di quest’ultimo non appare differente dalla genesi del corpo del sovrano descritta nel Leviatano. Sebbene l’autore statunitense, figlio della sua epoca, tralasci la brutalità spettacolare propria di Hobbes e descriva la civiltà occidentale come una grande macchina dotata di efficienza e funzionalità, divisa in unità specifiche e perfettamente complementari l’una all’altra, si ritiene che i presupposti alla base della strutturazione dei questo complesso sistema siano da ricercarsi in quella che potremmo definire come “filosofia dell’amputazione”26,

propria del filosofo seicentesco e ben rielaborata da Agamben27.

Ogni singola individualità limita liberamente e consapevolmente lo spettro delle proprie azioni in funzione di un organismo più grande (sia esso un mostro formato da una miriade di corpi cuciti o una moderna macchina data dall’unione di piccoli e precisi ingranaggi, fa poca differenza, ed è forse uno scarto imputabile piuttosto al periodo storico relativo alla produzione filosofico-sociologica degli autori), il quale si relaziona e modifica l’ambiente circostante, intoccabile per l’uomo, inteso come soggettività isolata.

26 Metafora personale. 27 Cfr. Agamben, 1995.

(19)

Per fornire maggiore consistenza al processo di legittimazione, tramite cessione e delimitazione di confini, è bene prendere in considerazione le teorizzazioni del metodo scientifico delle scienze sociali formulate da Max Weber28.

Per quest’ultimo, l’esercizio del potere appare indissolubilmente collegato al monopolio della violenza. I meccanismi che hanno portato alla legittimazione di tale monopolio hanno percorso tre strade:

• La prima, identificata col nome di “legittimità tradizionale”, giace sulle credenze di carattere quotidiano e sulla sacralità della tradizione da sempre valida (es. il potere derivante dalla divinità, caratteristica dell’Ancien Régime).

• La seconda è la “legittimità carismatica”, le cui origini erano da ricercarsi nella dedizione al carattere sacro, alla forza eroica o al valore esemplare di una persona. La missione del leader qui coinvolge e struttura il governo. È questo il caso di Cesare e Napoleone, ma in maniera ancora più esemplare, di Hitler, Mussolini, Lenin e Stalin. Questo tipo di potere andrebbe inevitabilmente incontro alla disillusione nel momento del fallimento della missione o della morte del leader. In alcuni casi, tuttavia, il potere carismatico può essere soggetto a processi di istituzionalizzazione; è il caso dell'Impero romano nato da Cesare e dell'Unione Sovietica nata da Lenin.

• Terza ed ultima via, identificata dall’autore come “legittimità legale-razionale”, poggia sulla credenza nella legalità degli ordinamenti statuiti (come ad esempio la Costituzione di uno stato democratico), e sul diritto al comando di coloro che sono chiamati dal popolo a governare. Questa terza via darebbe origine ad una legittimità di tipo moderno, democratico ed impersonale.

(20)

Quest’ultimo punto riconduce ad un altro concetto fondamentale della teoria di Weber: il sistema di valori. I governanti eserciterebbero una serie di pratiche, legittimamente violente, in opposizione ad altrettante pratiche non dotate di legittimità e, tutto questo, in favore all’interesse della popolazione governata che, consapevolmente, autorizza ed accetta tale distinzione tra legittimo ed illegittimo, sulla base quindi di un sistema di valori precedentemente concordato. Tale meccanismo andrebbe, secondo l’autore, ad infrangersi nel momento in cui le aspettative dei cittadini vengano tradite dall’azione di chi esercita il potere. Il confine etico tra ciò che è permesso e ciò che non lo è diverrebbe in questo modo nebuloso e poco chiaro. Lo stesso risultato si otterrebbe anche nell’evenienza in cui, soggetti non facenti parte della classe dirigente, fossero intenzionati a modificare il loro status e ad entrare a far parte di quest’ultima.

Apparentemente quindi l’autore individua nell’atto violento un mezzo specifico e necessario per il mantenimento delle strutture di potere. Tuttavia, il contributo di maggior interesse riguardo a questo tema forse viene espresso nel momento in cui egli individua le funzioni politiche della violenza. Weber29 afferma infatti che la neutralizzazione degli

avversari politici, il guadagno di consensi tramite la spettacolarizzazione, la chiara definizione dei confini ed una più solida coesione, non sono altro che effetti causali derivanti direttamente dall’utilizzo della forza da parte del governo centrale. Quello che ci interessa è collegare le teorizzazioni, piuttosto datate dell’autore ma attualissime secondo chi scrive, all’interno del contesto politico-sociale odierno, per evidenziare come il funzionamento dei moderni cosiddetti “stati-nazione” sia ancora profondamente legato ad alcuni degli elementi soprariportati, seppur, in riferimento ad altri punti, il sistema

(21)

odierno ha subìto profondi mutamenti conseguenti alle traiettorie della geopolitica globale.

Il concetto di Nazione si origina dall’idea di un genio etnico il quale, seguendo Weber ma non solo30, si presenta di derivazione culturale e come il prodotto di lunghi anni di

conflitti che definiscono e plasmano un determinato confine.

Tornando al tema precedente, all’interno della Nazione, vive un determinato gruppo coeso di individui che si riconoscono e condividono determinati valori. Premesso che, per lo scienziato tedesco, la realtà oggettiva è assimilabile al caos, secondo cui la conoscenza non può che basarsi su una preventiva selezione di ciò che è bene tenere in considerazione e ciò che invece è concesso tralasciare, un tale restringimento di prospettive sarebbe la diretta conseguenza dell’assunzione proprio di quel determinato sistema di valori. La convinzione, perciò, che inesorabilmente il contatto con la realtà non possa che essere culturalmente mediato, Weber pone conseguentemente un quesito riguardo l’oggettività della scienza. Apparentemente ogni fenomeno si presta ad essere analizzato da pressoché infiniti punti di vista, e ad altrettante infinite interpretazioni, derivanti dalla scala di valori scelta e dalle variabili considerate in relazione ad essa. Egli, così, ritrova nel metodo la soluzione al problema dell’oggettività, affermando che ogni evento è, sì, certamente determinato da una serie di concause, ma è altrettanto vero che è possibile evidenziarne unilateralmente una, specifica e determinata, per quanto essa non si trovi mai allo stato puro nell’analisi della realtà. Questa specifica caratteristica del fenomeno viene definita “tipo ideale” e, se accettata, non può che portare a peculiari conclusioni e dare in questo modo validità scientifica alla ricerca.

(22)

La metodologia di Max Weber ci porta facilmente ad affermare che, sebbene esistano una miriade di variabili possibilmente esaminabili all’interno di quei processi che conducono all’affermazione del potere ed alla formazione di uno Stato, la cessione di parte di sé operata dai cittadini a favore del sovrano o governo, è elemento essenziale e, in qualche modo, “tipo ideale” nella genesi dei processi di subordinazione.

L’aver associato precedentemente Parsons ed Hobbes non è un caso. Le loro filosofie politiche si fondano sicuramente su valori e presupposti culturali differenti, ma condividono tuttavia il “tipo ideale”. Weber in aggiunta oppone il potere alla potenza, facendo leva su come la differenza fra i due sia da ricercarsi prevalentemente nella possibilità di determinare un’azione di conformità in presenza o assenza di forti opposizioni da reprimere.

Ciò che sembra essere per lui rilevante, dal punto di vista delle scienze sociali, è una forma di potere in cui quel processo di cessione e delimitazione è già avvenuto e non viene considerato. I tre tipi di poteri puri, identificati dall’autore, si differenziano sulla base delle motivazioni che garantiscono al singolo o ad uno specifico gruppo sociale di governare, ma tralasciano le motivazioni che stanno alla base della necessità costante e dell’esistenza a prescindere del potere.

Insomma, si è ritenuto preventivamente necessario fare riferimento alla filosofia politica di Agamben ed Hobbes, in quanto sarebbe stato difficile procedere all'analisi delle forme che lo Stato assume e dei suoi meccanismi di controllo, senza considerare la necessità che ne ha posto l’esistenza in essere. Nel descrivere il potere legale e nell’identificarlo come fondamento dello Stato capitalista, Max Weber afferma che la razionalità e l’efficienza emergono come le caratteristiche fondamentali di questo tipo puro. Ad esso è infatti

(23)

associata la burocrazia31, che per essere efficiente, necessita di funzionari, più che di

uomini. Cioè di soggetti che non si pongono alcun tipo di domanda ed operano svolgendo il loro unico compito nel migliore dei modi possibili.

Di conseguenza, anche il sociologo tedesco definisce come essenziale la rinuncia ad alcuni tratti distintivi dell’essere umano, al fine di favorire l’affermazione e la legittimazione di un potere necessario al funzionamento sociale ed alla sussistenza dello Stato. Lo stesso meccanismo è chiaramente individuabile in entrambi gli altri tipi puri individuati dall’autore: se infatti il potere tradizionale eleva il sovrano ad una posizione privilegiata rispetto ai suoi sudditi, grazie ad una dimensione sacra a lui ascritta; il potere carismatico è altrettanto caratterizzato da elementi quali l’eroismo, lo straordinario, l’elevazione a mito e, conseguentemente, la stessa eccezione. Si tratta comunque di un dominio di pochi, e sconosciuto o inaccessibile ad altri (di maggior numero) costretti a obbedire.

Si rende a tal punto necessario un approfondimento riguardante la questione dell’emergenzialità e dello stato di eccezione, fondamentale alla genesi ed alla sussistenza del potere.

Walter Benjamin32 già nel ‘95 affermava che lo stato di emergenza fosse in realtà ormai

divenuto la dimensione caratteristica della normalità nelle moderne organizzazioni statali. Il terrore andrebbe così a ricoprire un ruolo costituente ed essenziale al funzionamento delle organizzazioni stesse. L’esercizio della violenza non si ridurrebbe più ad eventi punitivi (e pertanto eccezionali), tramite cui l’apparato statale garantisce a sé il mantenimento del potere, ma diverrebbe la tecnica di esercizio primaria di quest’ultimo.

31 Si veda Weber M., Sociologia del potere, “Il potere burocratico”, Milano, 2014, p.31. 32 Cfr. Dei F., 2005.

(24)

Ora il discorso si evolve dall’essere prettamente politico, all’essere bio-politico, ovvero: • si è detto che il funzionamento statale e la sussistenza dei meccanismi di potere

ad esso correlati dipendono in buona sostanza dalla disponibilità di corpi si sacrificano in nome della riproducibilità dello Stato;

• questa messa a disposizione porta con sé, inoltre, il necessario presupposto dell’accettare di concedere all’apparato governativo la totale gestione di una parte del sé, in modo che su questo monopolio esso possa fondare e legittimare il proprio potere;

• si è poi affermato come l’esercizio delle capacità eccezionali sia il metodo tramite cui lo Stato sottopone alla propria disciplina chi è ad esso contrario.

Sommando queste tre asserzioni, risulta centrale il ruolo svolto dalla relazione fra corpo, potere e coercizione, ed il tema merita un approfondimento.

Stoppino33 definisce la genesi del potere politico, tramite violenza, come un

auto-inganno, cioè una credenza ideologica errata per cui si ha la percezione di non poter in alcun modo modificare lo stato delle cose. Così si sottostarebbe conseguentemente ad un’autorità che, brutalmente, detiene, fortifica e riproduce il proprio potere. Chi scrive è convinto della correttezza dell’analisi proposta dall’autore in relazione agli stati totalitari, ma ritiene tuttavia che l’affermazione degli stati-nazione dell’epoca moderna si fondi su presupposti pressoché identici. L’unica differenza è da ricercarsi nelle modalità di attuazione di quei processi di riproducibilità del potere.

A livello democratico i moderni apparati statali garantiscono teoricamente beni e servizi alla propria cittadinanza, andando ad operare fin dall’inizio una netta distinzione fra chi

(25)

ha il diritto di accesso ad essi e chi invece non ne è titolare. Il solo indicare “i cittadini”, come coloro verso i quali l’interesse dello Stato è rivolto, significa affermare indirettamente che vi sono soggetti a cui questo interesse non è rivolto, in quanto non facenti parte alla citata categoria. Tramite l’esclusione di tali individualità, l’apparato governativo giustifica la propria esistenza e rende riproducibile il proprio potere facendo riferimento ad una serie di soggetti disciplinati, che non fuoriescono dai confini da esso delimitati. La detenzione del potere tipico dello Stato totalitario, che utilizza come mezzo proprio un tipo di violenza fisica e del tutto esplicita, non è più necessaria. I luoghi in cui le democrazie legiferano sono popolati da soggettività che, pur vivendo al suo interno, popolano i confini esterni del suo ordinamento politico. Non serve esercitare violenza fisica nei confronti di questi outsider, in quanto essi sono soggetti sottomessi ad una strutturalità del potere in modo schiacciante, perché li esclude in maniera diversificata dall’accesso a diversi diritti e servizi. La garanzia della riproducibilità del potere nello stato-nazione moderno si fonda allora sul rischio della perdita di un privilegio che consente di far parte a un determinato apparato politico, a una certa qualità della vita. La punizione per il deviante non è più un atto di forza che il detentore del potere esercita su un soggetto, ma si concretizza come la chiusura a determinate possibilità e alla limitazione della capacità agente di più persone. La pena, quindi, scompare in favore alla possibilità di accesso o meno ad un determinato standard vitale e in favore di una politica della bios, che va materialmente ad incidere sulle possibilità e le aspettative di vita dell’individuo. La differenza tra l’autorità dello Stato ed uno Stato autoritario si cela nelle differenti tipologie di violenza che essi esercitano su quei soggetti che non accettano la legittimità del potere. Nel primo caso, individuiamo una tendenza all’attuazione di processi politici che conducono ad una violenza di tipo simbolico e strutturale e, nel secondo, una chiara propensione all’oppressione fisica.

(26)

1.2 POTERE E GLOBALIZZAZIONE

Il concetto di Stato nazionale classico è messo in crisi dall’avvento della globalizzazione. Le radici identitarie di esso, infatti, vengono ora messe in discussione da una continua mescolanza culturale, frutto appunto della globalizzazione, che rende opachi i confini di quel gruppo di individui, un tempo coesi, e a cui il potere rivolgeva la sua attenzione ricevendo garanzie di legittimità. Ciò che viene meno all’interno di questo discorso è la certezza identitaria; il sentimento di appartenenza non funge più da sicuro appiglio saldamente collegato ad un sistema culturale-valoriale di riferimento, in quanto, l’immenso complesso di valori e tradizioni, è continuamente investito da una miriade di input poco chiari ed estremamente diversi fra loro. Non è più sostanza solida e stabile, ma mutevole ed incerta. All’interno di un tale contesto, la strutturalità dello Stato-nazione non può che cedere perché minata alla base.

Infrangere irrimediabilmente i confini di quel gruppo che esercitava il potere e venendo meno la necessaria chiusura, il modello dello Stato nazionale vacilla ed è costretto a fronteggiare il pericolo derivante da una propria possibile e quanto mai probabile estinzione.

Le moderne politiche economiche tendono ad un’incontrollata circolazione delle merci e una deliberata mobilizzazione delle differenze culturali34. All’interno del villaggio

globale infatti l’omologazione al trend dominante appare come un dato di fatto. Per quanto, però, culture e sistemi valoriali distanti migliaia di chilometri possano superficialmente mescolarsi ed influenzarsi a vicenda, prendendo a volte il sopravvento l’uno sull’altro, il substrato su cui si muove questa incontrollata circolazione di informazioni rimane quello delle identità nazionali affermatesi nel corso del Novecento.

(27)

Secondo quanto affermato in precedenza, si nota come questo processo di globalizzazione metta profondamente in crisi il concetto di Stato nazionale classico.

Appadurai, in “Fear of Small Numbers”, suggerisce che le strutture di potere risalenti all’epoca precedente alla globalizzazione tentino in qualche modo di continuare ad esistere e mantenere la loro posizione privilegiata facendo leva sulla primordialità dei sentimenti di appartenenza. L’autore sostiene che in risposta ad una tale incertezza dilagante, il modello dello stato nazionale proponga un’estremizzazione del concetto di identità culturale che appare come naturalmente dato e non più come socialmente costruito. Un tale ribaltamento di prospettive è funzionale alla ridefinizione di confini specifici all’interno dei quali esercitare il potere in un contesto in cui il concetto di confine sembra dissolversi irrimediabilmente. Da tale processo politico emergono tuttavia problematiche piuttosto serie: se infatti la costruzione culturale è elevata a fenomeno naturale in vista di un possibile mantenimento dell’organico del potere, quanto mai improbabile visto l’inarrestabile mutamento da cui è investito il panorama socio-politico globale, si verrà costretti ad affrontare l’emergenza necessaria di profonde discrepanze fra modello proposto a livello teorico concettuale e realtà sociale. Ed esattamente ora si innestano le teorizzazioni di Weber sugli effetti della violenza politica.

Appadurai sostiene che gli Stati nazionali esercitino il proprio residuo monopolio della violenza per plasmare la realtà secondo le traiettorie identitarie, ad essi indispensabili, in vista del mantenimento del potere. All’interno di tale prospettiva le istituzioni agirebbero brutalmente sulla struttura sociale, tentando di dare forzatamente forma ad un genio etnico, culturalmente veicolato, sulla base del quale affermare la legittimità della propria esistenza35.

35 Appadurai riporta l’esempio brutale del genocidio rwandese durante lo svolgimento

(28)

In un’ottica di questo tipo, le minoranze culturali divengono strumenti di accostamento necessari a modellare la propria identità nazionale e, in ultima analisi, i corpi su cui esercitare il potere coercitivo da cui far derivare la legittimazione del potere statale. L’istituzione ha pertanto bisogno di una minoranza a cui opporsi violentemente per poter elevarsi (a maggioranza) e giustificare così la propria esistenza all’interno di un contesto globale in cui, il monopolio del potere come caratteristica peculiare e distintiva dello Stato nazionale, sembra più un ricordo nostalgico di tempi ormai trascorsi.

Ci accorgiamo allora che, come sosteneva il sociologo tedesco, anche nell’iper-modernità36 del villaggio globale l’esercizio della violenza è subordinato al fine politico

della definizione del confine. Per quanto questo somigli ad un confine astratto e non ad una delimitazione fisica del territorio, sempre di coesione ed appartenenza si sta parlando. Inoltre, la spettacolarizzazione dell’atto di forza, sembra caratteristica peculiare di questo nuovo modo di tracciare confini ed anzi, senza la dimensione spettacolare dell’affermazione di superiorità, apparentemente il discorso della maggioranza perderebbe di efficacia37.

rassomigliassero agli stereotipi culturalmente veicolati relativi a Tutsi ed Hutu, amputando parte delle gambe in virtù delle fama degli Hutu di essere bassi di statura (Appadurai, 2006).

36 Negli ultimi decenni, molti sociologi, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, hanno fatto

ricorso all’aggettivo «postmoderno» per definire in maniera sintetica le società contemporanee. Il problema però è che oggi abbiamo sempre più a che fare con delle società che sono

chiaramente ancora moderne. Infatti, più che porre l’accento sul «post», cioè sull’arrivo di un processo di totale cambiamento rispetto all’epoca della modernità, è necessario pensare che quest’ultima sia entrata in una nuova fase della sua evoluzione. La fase che stiamo attraversando cioè non porta a una situazione «post», a una realtà totalmente diversa da quella che era propria della modernità, ma in essa la stessa modernità viene portata all’eccesso, in quanto è soggetta a un processo di accelerazione e intensificazione dei principali fenomeni che l’hanno da sempre contrassegnata e diventa pertanto «ipermoderna».

(29)

Quello che sembra venir meno, tuttavia, è il monopolio della violenza come peculiarità dello Stato nazionale Europeo. Si noterà quanto l’esercizio della violenza si contraddistingua come un tentativo di ristabilire tale esclusività ma sia destinato inevitabilmente a fallire sotto i colpi dell'inarrestabile mutamento geopolitico. Riassumendo e ripercorrendo storicamente i passaggi della genesi del potere politico sulla base di quanto affermato da Max Weber, ci troveremmo di fronte ad un fenomeno per cui gruppi sociali chiusi espandono il proprio potere sul territorio.

Caratteristica peculiare ed essenziale, perché ciò si verifichi, è che all’interno del gruppo di partenza vi siano una serie di soggetti che svolgono azioni mirate ad impedire l’ingresso ad individui estranei. La chiusura iniziale è un tratto essenziale di questo primordiale nucleo di potere.

Segue l’espansione ed il controllo sul territorio: l’organizzazione permette al gruppo di rivolgere verso l’esterno le proprie azioni e in funzione di questo di espandere la propria influenza. La vita di soggetti esterni al gruppo viene dunque organizzata e regolata tramite mezzi coercitivi e la successiva istituzionalizzazione che ne deriva accompagna l’embrione governativo ad evolversi da comunità politica a Stato moderno.

Facendo riferimento a quanto esposto rispetto ai processi di globalizzazione, si nota che essi sono la naturale conseguenza e crisi del modello di Stato weberiano. Il gruppo chiuso infatti diviene comunità politica grazie all’imposizione del proprio primato all’esterno dei propri confini. Perché si possa parlare di Stato è successivamente necessaria la strutturazione di un apparato amministrativo il quale si basa, come già visto, sulla trasmutazione dell’uomo in funzionario e la conseguente spersonalizzazione di esso. Centrale in questo processo è il rapporto triadico esistente fra potere, corpo e tecnica. Il potere, per essere tale, necessita di assoggettare e plasmare i corpi tramite la tecnica. Esso forma burocrati operativi ed efficienti che non si fanno domande e/o costituisce

(30)

propaggini umane per le macchine della fabbrica, le quali non sono altro che estensioni dell’ingranaggio insieme ad esso operanti. Diversi autori, da Hannah Arendt a Giorgio Agamben38, hanno individuato nello stato nazional-socialista la massima espressione di

questa particolare forma di potere che si è sviluppata ed ha preso il sopravvento in Europa durante il Novecento. Il campo di sterminio emerge nei loro scritti come l’estremizzazione massima del corpo piegato alle necessità della tecnica secondo le direttive del potere. Il concetto di umanità viene completamente distaccato dagli individui, sui quali lo Stato esprime la sua prerogativa di comando, e questi sono ridotti unicamente a strumenti ad esso esterni e allo stesso tempo essenziali. Il modello proposto da Weber è qui esaltato nelle sue massime potenzialità: un gruppo estremamente chiuso e dotato di un apparato amministrativo burocratico efficiente piega al suo volere tramite la coercizione gli individui che non ne fanno parte39. L’efficienza è garantita ma, cosa a

cui forse il sociologo non aveva pensato, per ottimizzare la produttività è necessario che la differenziazione tra uomo e mezzo venga meno. Se ciò non accadesse, la libertà d’azione riservata al primordiale gruppo sociale chiuso, che ha dato origine a tutto ciò, verrebbe fortemente limitata

In ultimo, la teoria della genesi del potere politico proposta da Weber, appare un efficacie modello attraverso il quale è possibile cogliere ciò che ha portato alla nascita, allo sviluppo e all’affermazione degli Stati nazionali. L’analisi del rapporto tra la struttura statale e le modalità di esercizio della violenza a partire dalla fine del Novecento fino ai giorni nostri, proposta invece da Appadurai, sembra illustrare la crisi che ha investito lo

38 Cfr. Arendt 1999, Agamben 1995. 39 Cfr. Weber M., 2002.

(31)

Stato weberiano in conseguenza dei profondi mutamenti economici avvenuti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.

I due modelli teorici rientrano in una prospettiva che intende analizzare i moderni dispositivi di potere senza tralasciare la dimensione storico-sociale che ha dato loro origine e che ne ha permesso lo sviluppo.

Sicuramente il quadro che emerge dalla lettura di questo secondo paragrafo è alquanto pessimista e ritrae un’apparente necessaria continuità del conflitto, risolvibile unicamente tramite l’assoggettamento totale di ciò che è definito “altro”.

Appadurai, tuttavia, individua nella creazione di spazi, consoni all’espressione culturale di ogni singola soggettività, una possibile soluzione alla continua tensione derivante dalle crisi identitarie emergenti dai processi di globalizzazione40.

Non è ancora giunto però il momento di considerare questi aspetti; la trattazione dei meccanismi di potere merita ancora un approfondimento prima di dedicarci a ciò che potremmo definire “strategie umanistiche di liberazione” e di cui si parlerà nella parte finale di questo elaborato.

(32)

1.3 IL POTERE DEMOCRATICO: ELITISMO, NEO-ELITISMO ED

ANTI-ELITISMO

Finora si è parlato di potere, della genesi dello Stato-nazione, della sua crisi e di una globalizzazione che porta con sé cambiamenti radicali talvolta espressi in esplosioni violente a danno di determinanti gruppi contrapposti ad altri.

Ma chi detiene effettivamente il potere?

La domanda che si pone a questo proposito è relativa proprio all’identificazione di quei gruppi chiusi che Max Weber indica come embrioni degli stati moderni, e di quelle forze che li contaminano generandone la crisi così ben descritte nel lavoro di Appadurai. Per rispondere a tale quesito si ritiene necessario fare riferimento alle filosofie politiche dell’elitismo, del neo-elitismo e dell’anti-elitismo.

Damiano Palano41 introduce queste tematiche in modo pittoresco ed evocativo. Facendo

riferimento al panorama letterario del secolo scorso ritrova gli spunti e le suggestioni derivanti dalle visioni distopiche che queste teorie politiche ispirarono. Vale la pena di riportare alcune sue righe prima di addentrarsi nei conflitti ideologici che hanno caratterizzato le democrazie del dopoguerra: “Come pochi scrittori del Novecento, Philip K. Dick riuscì a proporre una formidabile prefigurazione letteraria di quella che, di lì a poco, Guy Debord avrebbe definito come la “società dello spettacolo”42.

Se già negli anni ‘60 molti racconti di Palano anticipavano le tecniche di manipolazione genetica, a Dick non sfuggirono soprattutto le potenzialità di controllo dell’opinione

41 Cfr. Palano D., 2014. 42 Cfr. Debord G., 2002.

(33)

pubblica offerte dai nuovi strumenti di comunicazione. Così non era di rado che in molti dei suoi romanzi più fortunati, lo scrittore americano si soffermasse quasi ossessivamente sull’idea che, dietro la facciata delle istituzioni democratiche occidentali, si nascondesse il dominio di un’oligarchia, e che la competizione fra partiti e candidati, e tutti gli altri rituali del “gioco democratico”, non fossero altro che uno spettacolo allestito per garantire l’acquiescenza delle masse. Nei Simulacri, pubblicato per la prima volta nel 1964, Dick immaginava ad esempio che in un futuro non poi così remoto, gli Stati Uniti d’Europa e d’America fossero governati da due attori pagati per impersonare la coppia presidenziale e per recitare un copione, dietro i quali si muovevano congiure e trattative segrete. In altre parole, come affermava uno dei protagonisti: c’era soltanto “l’immagine televisiva, l’illusione dei media”, mentre dietro quell’immagine si celava l’oscuro potere di “una specie di corporazione”43.

Nel 1967 Bachrach pubblicava in America The Theory of Democratic Elitism44. Nello stesso anno un gruppo di scienziati politici si presentava al convegno annuale dell’“American Political Science Association”45 chiedendo a gran voce che l’organizzazione prendesse delle posizioni chiare riguardo al conflitto che stava investendo il Vietnam, ma soprattutto che la scienza politica recuperasse le sue caratteristiche di scienza militante, volta al cambiamento radicale della struttura sociale tramite un totale capovolgimento dei suoi metodi di ricerca ed obiettivi. Ci si scagliava contro quel principio di neutralità che stava alla base dello statuto dell’Aspa, “il quale escludeva nettamente la possibilità che l’associazione potesse intervenire nel dibattito politico”.

43 Palano D, 2014, p. 3.

44 Cfr. Bachrach P., 1980, 2002.

(34)

Il pamplhet di Bachrach racchiudeva in sé la sintesi delle principali motivazioni polemiche che animavano i contestatori. Egli individuava l’embrione della teoria dell’elitismo democratico nell’opera di Mosca46. Verso la metà degli anni ‘20 egli

affermava infatti che la classe politica non era più da intendersi come un’unica unità compatta, ma come un insieme di fazioni in competizione fra loro a cui lo Stato garantiva la possibilità di partecipare alla direzione della vita sociale, anticipando così le teorizzazioni riguardanti il realismo democratico di Schumpeter. Secondo quest’ultimo la democrazia non era più da considerarsi come un serbatoio di ideali da perseguire ma unicamente come un agglomerato di strumenti istituzionali volti al raggiungimento di determinati fini. L’apparato democratico non aveva più nulla a che vedere con l’autogoverno del popolo. Era piuttosto “un metodo politico, uno strumento costituzionale per giungere a decisioni politiche, legislative ed amministrative, che non può diventare fine in sé a prescindere da ciò che quelle decisioni produrranno in condizioni storiche date”47.

L’economista austriaco non escludeva a priori la possibilità della partecipazione popolare alle attività di governo, anzi, riteneva che essa fosse in ogni caso possibile e che sicuramente le democrazie avrebbero potuto (volendo) perseguire finalità legate agli ideali dell’uguaglianza e dell’auto governo. Riteneva, tuttavia, che questo non fosse del tutto necessario: la democrazia era unicamente uno strumento e, in quanto tale, poteva prestarsi ad una moltitudine di fini non irrevocabilmente collegati a determinati ideali. Secondo Bachrach, questo riduzionismo realista che rendeva la democrazia niente più che un mezzo, aveva reso possibile il distaccamento dell’istituzione dall’ideale democratico. Ciò stava a significare che il potere sarebbe stato concentrato nelle mani di pochi gruppi

46 Cfr. Mosca G., 2009. 47 Shumpeter, 1954, p.252.

(35)

partitici, il cui compito sarebbe stato l’occuparsi del mantenimento delle istituzioni già esistenti, garantendone la riproducibilità e, ovviamente, senza doversi preoccupare di migliorarle. Per quanto riguarda i governati, essi sarebbero stati chiamati periodicamente unicamente a scegliere i vertici dello strumento democratico fra le poche alternative disponibili. Ovviamente in questo modo ogni critica al meccanismo del potere sarebbe arrivata soltanto in sordina. Inoltre, secondo gli elitisti americani, un certo grado di apatia e disinteresse da parte della popolazione non avrebbe potuto fare altro che giovare alla stabilità del sistema.

Verso la metà degli anni cinquanta Charles Wright Mills pubblicava in The Power Elite. I risultati delle sue ricerche affermano un’altra caratteristica essenziale di questo nuovo realismo democratico. Secondo l’autore, infatti, dopo la Seconda Guerra mondiale le élite politiche, militari ed economiche si sono talmente intrecciate tra loro che ci si troverebbe dinanzi ad un complesso elitario dotato di una potenza smisurata, in virtù dell’ampiezza dei mezzi ad essi disponibili. L’unico ragionamento sul potere dotato di significato appariva, pertanto, un tipo di discorso che andasse ad indagare la natura di questo nuovo soggetto (le élite) e la sua capacità di gestire ed influenzare in completa autonomia ogni aspetto della vita sociale. Mills scriveva: “Il sistema americano del potere è tale per cui, il vertice è molto più unificato e potente, e la base molto disunita e impotente più di quanto suppongano generalmente coloro che si lasciano fuorviare osservando gli strati medi del potere stesso”48.

L’analisi della natura del potere di questa emergente élite conduceva, secondo i critici del neo-elitismo, ad evidenziare come sempre più sacche della popolazione fossero escluse dalla vita politica, ed essere poi relegate in un’apatia ovviamente funzionale al pacifico

(36)

avanzamento del sistema. Inoltre, emergevano dinamiche di potere espresse in maniera non esplicita e poco visibile, il cui scopo sarebbe stato quello di celare l’accantonamento degli ideali democratici classici, in favore di una società soltanto apparentemente egualitaria. Bachrach proponeva a tal proposito una politicizzazione e democratizzazione di quei luoghi in cui il dominio dell’uomo sull’uomo si mostra nella maniera più cruda, identificando questi spazi principalmente negli ambienti di lavoro come uffici ed imprese49.

Il dibattito scaturito dalla contrapposizione fra neo-elitismo ed anti-elitismo ebbe però vita piuttosto breve e le cause di questa sua sterilità sono probabilmente da ricercarsi all’interno di un problema di tipo metodologico. Il comportamentismo aveva infatti influenzato e dotato la ricerca nelle scienze politiche di tratti di oggettività e neutralità: il piano dell’analisi scientifica doveva essere per questo tenuto in ogni modo distinto dalle valutazioni etiche. È facile intuire come tutto ciò portasse gli elitisti ad una definizione della democrazia unicamente in quanto strumento e mezzo per raggiungere fini specifici. Gli anti-elitisti, tuttavia, rimasero legati a questa stessa metodologia di ricerca. Seppur negando i valori dell’elitismo, non misero mai in dubbio il fatto che fosse effettivamente possibile separare la “realtà” della democrazia dai “valori” della democrazia, e che fosse conseguente possibile distinguere il piano normativo da quello descrittivo. La somiglianza nel metodo di base fece sì che lo scontro tra le due correnti si caratterizzasse più come un dibattito su due differenti visoni normative originatesi da presupposti simili, che come un fertile movimento intellettuale. In tal modo fu facile per gli elitisti riassorbire all’interno delle proprie formulazioni teoriche le critiche provenienti dalla fazione opposta. Sartori, ad esempio, sostenne che effettivamente, in assenza di un impianto

(37)

valoriale definito, si corressero dei rischi. Per quanto gli strumenti di analisi relativi ai sistemi politici moderni fossero evoluti e per quanto le istituzioni di questi ultimi fossero cresciute, secondo il politologo mancava di fatto un impianto normativo adeguato all’epoca. Questa concessione tuttavia non lasciava campo libero all’anti-elitismo, l’autore affermava con altrettanta forza quanto i valori egalitari derivanti dalla democrazia greca e dalle suggestioni di Rousseau fossero superati ed irrecuperabili, dato il loro anacronismo. Ciò che veniva piuttosto suggerito era un recupero positivo del concetto di élite tramite una sua definizione nell’ambito del merito, piuttosto che in quello della minoranza. Appare evidente come la verticalità delle democrazie moderne non sia qui minimamente messa in discussione e, anzi, venga investita di positività. Sartori proponeva due diverse definizioni di democrazia, una descrittiva e una prescrittiva: sotto il primo profilo, la democrazia coincideva ad “una procedura e/o un meccanismo che genera una poliarchia aperta, la cui componente sul mercato elettorale conferisce potere al popolo e specificamente induce i governanti alla ricettività verso i governati”; sotto il secondo profilo, la democrazia veniva invece intesa come “una poliarchia selettiva e una poliarchia di merito”, ossia come un regime politico che dovrebbe puntare a una selezione meritocratica della leadership”50. Tramite il concetto di poliarchia Sartori recupera la

dimensione valoriale e la tendenza al miglioramento del regime democratico, senza però fare concessioni ai teorici avversari, le cui speculazioni vengono anzi definite come pericolose per la tenuta dell’ordinamento politico moderno. Risulta evidente anche in quest’approccio, però, come la netta separazione tra fatti e valori non venga minimamente messa in discussione.

Riferimenti

Documenti correlati

Devonshire, “Extrait de l’histoire d’Égypte”.. Per concludere, si può affermare che gli scambi diplomatici ci permettono di accostarci alla problematica della parola del

Alla luce di questi suoi interventi, come è stato giustamente messo in luce più volte e in vari contesti, si percepisce come il ruolo della duchessa vada al di là di un

L’epistola a fra’ Giovanni della Verna della Lauda 68 è ricordata esplicitamente da Bernardino quando richiama alla sopportazione delle pene: come Jacopone consola Giovanni della

Considering the 9 most expressed moRNAs, Fig 2A shows expression estimations in PMF and CTR samples of all the expressed small RNAs that are produced from the same hairpins

within the J=ψ signal region for J=ψ → γϕ is estimated as 1.4% by comparing the selection efficiencies between data and MC.. The uncertainties due to the details of the fit

In this paper, the ongoing BPM4ED (Business Process Management for EDucation) research project is described: schools are seen as organizations and the business

35: Also at Warsaw University of Technology, Institute of Electronic Systems, Warsaw, Poland 36: Also at Institute for Nuclear Research, Moscow, Russia.. JHEP11(2018)161 37: Now