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Urbano II, Alessio Comneno e il tentativo di riconciliazione del

C. Clemente III e Giovanni II metropolita di Kiev.

Una particolare attenzione meritano i contatti tra l’altro papa Clemente III (1080-1100) e Giovanni II metropolita della Rus’ con sede in Kiev. La loro rilevanza non è dettata solamente dal fatto che furono solo di qualche settimana antecedenti al riavvicinamento tra Urbano II e

soprattutto indicativa della possibilità limite di una tragedia collettiva. Il papa – “etiam a fide devius”, diciamo noi – potrà essere in quel caso rimproverato, accusato: ma mai giudicato» (Capitani, Episcopato ed ecclesiologia, pp. 136-137).

218 Cfr. principalmente Meyendorff, St. Peter in Byzantine Theology. L’esegesi greco-orientale di Mt. 16, 18 (Tu es Petrus, et

super hanc petram aedificabo ecclesiam meam) non è incardinata sulla figura del capo degli Apostoli in modo personalistico. La πέτρα non è la metafora giuridico-carismatica di Simon Pietro (Πέτρος), ma la sua professione di fede attraverso la quale aveva

potuto riconoscere il Cristo figlio del Dio vivo (Mt. 16, 16). Ma non si esprimono in tal senso solo Origene [«Se anche noi diciamo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”, allora noi pure diventiamo Pietro (…) perché chiunque si assimili a Cristo diventa Pietro» (Commentariorum in evangelium secundum Matthaeum, PG 13, coll. 997-1004)], Giovanni Crisostomo [«“Su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”, cioè “sulla fede della tua confessione”» (Commentariorum in Matthaeum, LIV, PG 58, col. 534)], Teodoreto di Ciro (Epistolae, LXXVII, PG 83, col. 1249C) e Giovanni Damasceno (Homiliae (homilia de

transfiguratione Domini), PG 96, col. 556AB); anche la patristica occidentale ha conosciuto letture simili in Ambrogio

[«Applicatevi a diventare pietra, cercate la pietra, non fuori, ma dentro di voi. La vostra pietra è il vostro agire e il vostro spirito, (…) è la fede, e la fede è il fondamento della Chiesa. Se siete pietra, voi sarete nella Chiesa, poiché la Chiesa riposa sulla pietra» (Ambrosius Mediolanensis Expositio Evangelii secundum Lucam, pp. 1-400; SC 45, pp. 264ss; PL 15, coll. 1527-1607)], Agostino [«Ho inteso che “su questa pietra” significasse: su Colui che Pietro ha testimoniato con le parole: “Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo”, e che pertanto Pietro, per aver ricevuto il suo nome da questa pietra, rappresentasse la persona della Chiesa che è edificata su questa pietra e ha ricevuto le chiavi del Regno dei Cieli» (Sant’Agostino, Le ritrattazioni, p. 115)] e Cipriano. Chiunque con fede riconoscesse il Salvatore (Tu es Christus, filius Dei vivi) era assimilabile a Pietro; era lui stesso pietra. Tuttavia quasi in contemporanea ci s’inizia a soffermare sempre più sul legame intercorrente tra la confessione di Pietro e la sua persona pietra e fondamento, precisando la concezione secondo cui il capo degli apostoli avesse ricevuto da Cristo un particolare carisma primaziale. Esegesi «petrina» che nasce e si sviluppa soprattutto in Occidente con Tertulliano, Ilario di Poitiers, Gerolamo, lo stesso Ambrogio, ma anche in Oriente con Basilio. (Testi e fonti cit. da Clément, Roma diversamente, pp. 21-27).

Alessio Comneno, ma soprattutto perché possono essere annoverati in modo ufficiale nelle relazioni tra papato e cristianità greca. Infatti, seppur Clemente III (Guiberto di Ravenna) sia stato annoverato a posteriori tra gli «anti-papi», la sua figura (insieme a una generale ridefinizione del concetto di anti-papa) è stata oggetto di una nuova ed originale rilettura da parte di settori della storiografia italiana e tedesca219. Queste hanno infatti rilevato un dato tanto banale quanto rivoluzionario a livello interpretativo: ovvero, coloro che storicamente sono stati definiti come anti-papi, lo sono stati solo a posteriori nel momento in cui uscì un vincitore, tra i due (o più) contendenti, che potesse scrivere la storia relegando ad anti-papa l’avversario sconfitto. Tuttavia, finché la partita era ancora tutta da giocare, esistevano al contrario due papi, entrambi legittimati il più delle volte in egual modo e sostenuti da consistenti parti della Chiesa.

Clemente III, ad esempio, al tempo dei sui contatti con Giovanni II nel 1089, risiedeva a Roma ed era riconosciuto da una buona parte dell’episcopato dell’impero e da Enrico IV stesso. Di conseguenza, per una larga fetta della cristianità occidentale era lui il papa legittimo, ed Urbano II il pontefice abusivo.

Sulla base di una tale prospettiva, non annoverare i contatti con il metropolita di Kiev nelle storia delle relazioni ecclesiali tra papato e Oriente sarebbe un atto che renderebbe incompleta e distorta l’analisi storica.

Secondo gli stessi intenti che guidarono l’Ostpolitik di Urbano II, anche a Clemente III poteva far comodo un sostegno ecclesiale e una legittimazione da parte della Chiesa greca220. Egli nei primi mesi del 1089 (anticipando di pochissimo, come ho già detto, la legazione a Costantinopoli di Urbano II), tramite un’ambasceria inviò una sorta di lettera sinodica non al patriarca ecumenico, ma al metropolita di Kiev. Il documento originale non è arrivato fino a noi, e neppure l’ulteriore intronistica che s’ipotizza abbia successivamente scritto (su indicazione dello stesso Giovanni II) al patriarca di Costantinopoli221.

E’ sopravissuta invece la risposta del metropolita Giovanni, tradotta in parte ed analizzata dallo Spiteris222. Di essa, molto interessante per quanto riguarda la parte greca, mi preme rilevare

219 Per Clemente III rimando a Framing Clement III, ed. by Longo-Yawn; Ziese, Wibert von Ravenna, per i suoi contatti con il mondo greco si veda in part. p. 188.

220 Il metropolita di Kiev Giovanni II (che qualche mese più tardi sarà uno dei partecipanti alla sinodo permanente di Costantinopoli che discuterà su Urbano II), proveniva da un monastero nella capitale imperiale, eletto poi alla dignità episcopale verso il 1080 (Spiteris, La critica bizantina, p. 38). Si badi al fatto che gli arcivescovi destinati a guidare la Chiesa della Rus’ di Kiev erano sempre vescovi greci, strettamente dipendenti e controllati da Costantinopoli.

221 Cfr. Stiernon, Rome et les eglises orientales, pp. 342-343.

222 Spiteris, La critica bizantina, pp. 39-44. L’epistola di Giovanni II è stata edita a suo tempo, e commentata in russo, da Pavlov,

alcuni punti che possano far intuire indirettamente il contesto e i contenuti della missiva di Clemente III.

Giovanni II, nella sua risposta Πρὸς Κλήµεντα πάπαν τῆς πρεσβυτέρας Ῥώµης, esprime soddisfazione per aver ricevuto da Roma gli insegnamenti dell’irreprensibile e ortodossa fede, trovando nel suo interlocutore un vero pontefice, eletto da Dio, il quale non ha falsato e corrotto la verità come altri suoi predecessori nel recente passato223.

La prima cosa da rilevare è come il vescovo greco si riferisca ad una distorsione del simbolo della fede operato da un pontefice di poco precedente alla fine degli anni Ottanta dell’XI secolo, probabilmente riferendosi all’aggiunta del Filioque nel credo “niceno-costantinopolitano”. Ora, lo Spiteris (anche su suggestione di una fonte come l’Alessiade di Anna Comnena) ipotizza che il riferimento sia da riferire agli anni di Gregorio VII224. Tuttavia, in totale assenza di fonti dirette e data la natura piuttosto «diplomatica» dei rapporti tra Roma e Bisanzio circoscrivibile ai primi anni del pontificato gregoriano, a me sembra improbabile che il rimando sia a Gregorio VII. Più plausibile, al contrario, è il rimando ad una tradizione sull’interpolazione del Credo romano anteriore al pontificato gregoriano, persino precedente allo scontro del 1054, legandosi inoltre a ciò che la sinodo residente esternò nel 1089 a proposito dell’eliminazione del nome dei papi romani dai dittici costantinopolitani: πρὸ δὲ χρόνων ἤδη πολλῶν κρατήσασαν ταύτην καὶ εἰς ἡµᾶς παραπεµφθῆναι225. Il riferimento allora potrebbe correre in modo più plausibile ai primi decenni del secolo XI che, seppur le fonti si rivelino tutt’altro che abbondanti e concordi tra loro e ridimensionata ormai la storicità del cosiddetto «scisma dei due Sergi»226, risultano comunque essere l’unico momento a cui si potrebbe riferire la presa di coscienza della modifica del simbolo romano da parte del mondo greco (pongo ancora in evidenza l’importanza su ciò nella lettera del 1054 di Pietro III d’Antiochia al Cerulario).

Ciò che invece non sembra lasciare dubbi è il fatto che Clemente III abbia inserito nella sua missiva una professione di fede, non interpolata dalla processione ab utroque, sul modello delle lettere sinodiche. Quest’evidenza (tralasciando la disputa dottrinale, ma focalizzandoci sull’aspetto ecclesiologico) riapre apparentemente la questione intorno al mantenimento romano di alcune «pratiche pentarchiche», con le relative implicazioni sul piano ecclesiale. A Roma

223 «Anche se lontano da te, assiso nella nostra povertà ed umiltà, sulle ali dell’amore arrivo sino a te e mi rivolgo a te con sincero ed amore e spiritualmente prego per te. Ho ricevuto da te gli insegnamenti della nostra fede ortodossa e irreprensibile e li ritengo come divini. (…) basandomi anche sulla testimonianza del santo, venerabile e virtuoso vescovo legato di vostra santità. Poiché a noi sembra che voi siate un vero pontefice, eletto da Dio, e non come quei che, in non lontano passato, hanno falsato e corrotto la verità (…)» (Pavlov, Kritichskie, pp. 169-170. Trad. it. cit. da Spiteris, La critica bizantina, pp. 39-40)

224 Spiteris, La critica bizantina, p. 40, nota 49. 225 Holtzmann, Die Unionsverhandlungen, p. 61. 226 Cfr. supra, pp. 41-43.

poteva esserci ancora spazio per una forma visibile di collegialità sul piano ecumenico che, abbiamo visto con Urbano II, era in contraddizione con la dottrina del primato romano di quel periodo? Una lettura non contestualizzata del gesto di Clemente III potrebbe portare a una risposta affermativa, ridimensionando di conseguenza (se non contraddicendo apertamente) ciò che ho sostenuto nelle pagine precedenti riguardo a Gregorio VII e Urbano II.

Tuttavia, non penso che si possa ritenere la professione di fede di Clemente III sintomatica di una certa sensibilità ancora viva nel papato di quel periodo. O meglio, bisogna procedere ad una distinzione e scindere l’ordinario dall’extra ordinario. Se consideriamo, infatti, che la teologia del primato nell’XI secolo ammettesse l’ideologia e il contesto teorico e pratico che stava dietro l’invio delle lettere intronistiche, penso sia un forte abbaglio. L’ecclesiologia sottesa all’operato di pontefici quali Leone IX, Gregorio VII e Urbano II (nonostante le dovute differenze) non lasciava assolutamente spazio ad una qualsiasi ortoprassi che potesse anche solo intaccare il primato dottrinale e giurisdizionale della Chiesa di Roma. Ciò valeva a livello ordinario così come, per i pontefici che ho appena elencato, anche a livello straordinario (Urbano II, nonostante il contesto in cui si trovava, non accettò minimamente di inviare a Costantinopoli la propria professio fidei). Inoltre lo stesso Clemente III, a mio avviso, difficilemente si sarebbe mosso ed esposto in tal senso in momenti di ordinarie relazioni canonico-ecclesiali, cioè al di fuori di un contesto scismatico interno alla Chiesa romana. Senza contare che il pensiero ecclesiologico che poteva avere Guiberto di Ravenna, non è necessariamente assimilabile a quello di altri papi suoi predecessori o antagonisti. Sarebbe una forzatura ammettere che una singola azione, di un singolo papa (quando ce ne erano due), in un singolo momento storico (per altro di scisma), venga elevata a misura delle generali tendenze ideologiche ed ecclesiologiche nel papato di fine XI secolo.

E’ pertanto plausibile pensare che Clemente III agì in quel modo soprattutto per intercettare, a fini politici e utilitaristici, le sensibilità greche con un’ortoprassi che avrebbe verosimilmente indotto l’interlocutore ad una benevola disposizione. Come vedremo con Pasquale II, il papato e la sua cancelleria erano consapevoli di ciò, e conoscevano il lessico e le categorie ecclesiologiche da usare per colpire la sensibilità bizantina; le quali potevano andare dal ripristino di antiche consuetudini collegiali all’uso di mirate categorie politico-ecclesiologiche. Tuttavia, che nel papato tra l’XI e l’inizio del XII secolo sussistessero delle prassi che potessero far trasparire la persistenza di elementi dell’ecclesiologia tipica del primo millennio, è un’indagine tanto affascinante quanto estremamente (e sottolineo estremamente) complessa; e sì, può ammettere in alcuni casi una risposta affermativa alla domanda. Ma, per evitare di inserire in maniera forzata elementi di un’ecclesiologia «conciliare» nel papato della riforma ecclesiastica

dell’XI secolo (il pensiero corre inevitabilmente al lavoro dell’Alberigo sul cardinalato e la collegialità nell’XI secolo227), è necessario muoversi con prudenza, contestualizzando in ogni momento la fonte che si approccia.

Pertanto, come si dirà più approfonditamente nelle pagine relatibve a papa Pasquale II, sebbene tali «deboli indizi» (se volessimo usare un lessico kantiano), siano sicuramente presenti, bisogna esser cauti nel leggerli come consapevoli e genuine persistenze di un’ecclesiologia pentarchica che i princìpi della riforma ecclesiastica stavano definitivamente eliminando. Come cercherò di dimostrare, essi saranno sempre inseriti in particolari contesti storici che necessitavano una “trasgressione” dalla pura ideologia ufficiale, in cui la cristianità greca si inseriva gioco-forza nello scacchiere politico occidentale e nell’utilitarismo della sede Apostolica.

Capitolo 3