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Le lettere sinodiche (o intronistiche) in relazione al primato romano nell’XI secolo.

Urbano II, Alessio Comneno e il tentativo di riconciliazione del

B. Le lettere sinodiche (o intronistiche) in relazione al primato romano nell’XI secolo.

Il mancato arrivo a Costantinopoli della lettera di Urbano II contenente la propria professione di fede ci pone dinnanzi un’evidenza che potrebbe ridefinire il paradigma ermeneutico positivista sui contatti del 1089, in quanto non solo tocca un’ortoprassi della comunione ecclesiale tipica del primo millennio, ma risulta oltre modo sintomatica di quanto l’ecclesiologia greco-orientale (o meglio «pentarchica») fosse ormai in profonda antitesi alla dottrina del primato papale.

La richiesta della sinodo permanente di Costantinopoli nel 1089 tocca infatti una delle forme visibili che garantivano, tanto a livello teorico quanto canonico, la comunione tra le cinque grandi sedi patriarcali a guida dell’ecumene cristiana. Le lettere sinodiche (o intronistiche) erano uno di quegli «strumenti pentarchici» ordinari che, insieme ai dittici (sopra esposti), agli apocrisarii e alla partecipazione ai concili ecumenici, garantivano l’unione dei cinque grandi troni apostolici di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme200. E’ ciò che la storiografia ha definito, appunto, come Pentarchia; la quale, sebbene non avesse mai avuto un suo ufficiale ordinamento canonico, si manifestava in alcune prassi decisamente importanti201. La lettera sinodica era la comunicazione che il neoeletto presule mandava agli altri quattro patriarchi sia per informarli della sua nomina, sia per dar prova della propria ortodossia202. Quest’ultima era esplicitata attraverso una professione di fede allegata, con la quale il nuovo vescovo manifestava al collegio pentarchico (in accordo con le dichiarazioni di fede dei concili

200 Peri, La pentarchia: istituzione ecclesiale, p. 238.

201 La trattazione dell’ordinamento pentarchico verrà lasciata per la seconda parte: cfr. infra, parte II, pp. 221-241. 202 Morini, Roma nella pentarchia, p. 846.

precedenti) la rettitudine del proprio Credo. Infine, ratificato ciò da parte degli altri quattro presuli, il neopatriarca riceveva da ognuno una contro-sinodica attestante la sua ufficiale ammissione nella comunione della Pentarchia. L’ultimo caso dell’invio di una sinodica di patriarchi greci verso Roma lo ritroviamo con Pietro III d’Antiochia nel 1052, con la quale il patriarca orientale cercò di tendere la mano verso quel successore di Pietro che (stando alle parole di Pietro III) si era separato dal divino corpo delle chiese203.

Ora, sebbene nell’XI secolo molto dell’ortoprassi pentarchica era caduta in disuso ormai da tempo, e nonostante la richiesta della sinodo residente del 1089 riguardasse soltanto la professione di fede papale (Urbano II era stato eletto l’anno prima), tale epistola andava idealmente ad inserirsi appieno nei confini dell’ecclesiologia greca, in cui il metro di unità della Chiesa non era tanto l’aspetto giurisdizionale, bensì quello mistico-sacramentale. La condizione necessaria e preliminare, come ho già esposto, affinché ciascun fedele potesse essere annoverato nella Chiesa universale era la sua totale conformità all’ortodossia ufficiale proclamata attraverso il simbolo della fede dei concili ecumenici, papa compreso!

Ciò presupponeva, di conseguenza, che esistessero organi di vigilanza e verifica che vagliassero la corretta procedura e attestassero l’ortodossia del neoeletto patriarca. Nel caso del collegio pentarchico sarebbero stati gli altri quattro patriarchi a svolgere tale funzione, mentre negli eventi del 1089 (come abbiamo visto) sarebbe sarebbe stato nelle intenzioni della sinodo residente di Costantinopoli validare o meno l’ortodossia di Urbano II; risultando, di conseguenza, una vera e propria verifica della fede del papa e della Chiesa di Roma. Ed è proprio qui che si situa il passaggio di rottura rispetto alla tradizione ecclesiologica pregressa: come si può giudicare la fede della cattedra e del successore di Pietro?

La mancata risposta da parte di Urbano II deve pertanto essere letta alla luce del primato romano. L’indefettibilità della Sede apostolica in materia di fede (ma non solo) e la sua ingiudicabilità erano alcune delle più importanti conseguenze che la teologia del primato petrino, e una sua radicale ermeneutica, avevano prodotto nell’XI secolo. Senza scomodare le proposizioni XVII, XVIII, XIX, XXII e XXIII del Dictatus papae204 (tutte ruotanti intorno al tema dell’infallibilità e dell’ingiudicabilità), già Leone IX nella lettera del 1053 a Michele

203 Le sinodiche di Pietro III verso le sedi di Roma, Costantinopoli, Alessandria e Gerusalemme sono riportate in Michel,

Humbert und Kerullarios, pp. 416ss.

204 «XVII. Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur adsque illius auctoritate. XVIII. Quod sententia illius a ullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit. XIX. Quod a nemine ipse iudicare debeat. XXII. Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit. XXIII. Quod Romanus pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter efficitur sanctus testnte sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur.» (Reg. II, 55a, pp. 205-207)

Cerulario, nonostante il casus belli del 1054 fosse stata l’epistola di Leone d’Ocrida a Giovanni di Trani sugli errori dei latini (pane eucaristico non fermentato, digiuno sabbatico), non tentò minimamente di confutare nel merito le eccezioni sollevate dall’arcivescovo greco di Bulgaria. Al contrario la sua risposta, attraverso la grande dissertazione sul primato della Chiesa di Roma, aveva attaccato un aspetto ben più grave sottinteso alle accuse di eteroprassi e di eterodossia rivolte ai Latini: cioè la possibilità di errore della Sede apostolica. Pertanto, nell’inconsapevolezza di Leone d’Ocrida, la lettera a Giovanni venne interpretata come un attacco al primato di Roma 205 attraverso la critica di alcune sue consuetudini; e conseguentemente venne redatta dalla curia romana una risposta tesa a demolire il vero errore dei greci (ricordiamo come la lettera di Leone d’Ocrida fosse considerata da Roma redatta a quattro mani con il patriarca Michele Cerulario): cioè non riconoscere il magistero primaziale e universale della sede di Pietro.

Pertanto, se per il patriarca Nicola III la condivisione del simbolo della fede tramite l’invio delle sinodiche avrebbe unito spiritualmente coloro che erano divisi corporalmente (καὶ οὕτω τοὺς σώµατι διῃρηµένους ἑνοῦσθαι τῷ πνεύµατι), per Urbano II e l’ecclesiologia romana l’unione ecclesiale (parametri di ecclesialità) era sotto il comune denominatore della comunione con la sede Apostolica, poiché garantita dalle preghiere di Cristo e dai meriti di Pietro. Poiché, come esemplificò già Leone IX riferendosi alla Chiesa della Nuova Roma, «quantas Constantinopolitana ecclesia per praesules suos suscitaverit pestes (scil. le novanta e più eresie vagheggiate dal pontefice), quas viriliter expugnavit, protrivit, et soffocavit Romana et apostolica sedes»206.

Di conseguenza, sarebbe stato una richiesta improponibile agli occhi di Urbano II (nonostante il suo diplomatico atteggiamento e i suoi silenzi nell’imporre esplicitamente un riconoscimento del primato papale) anche minimamente accettare che la fede romana potesse essere esaminata da una gruppo di vescovi che, seppur prestigiosi (ma ricordiamo che erano comunque greci), avrebbero dovuto teoricamente guardare al papa come i funzionari al loro re207. E del resto, la tematica del rapporto «fede romana-Oriente» era già stata al centro del pensiero e dell’ecclesiologia di Gregorio VII. Anzi, riprendendo le fonti gregoriane precedentemente analizzate, riusciremo ancor meglio a mettere a fuoco la mentalità papale sull’argomento.

205 Petrucci, Rapporti di Leone IX, pp. 231-232. 206 Will, Acta et scripta, II, pp. 68-69.

207 Maccarrone, La teologia del primato romano, p. 564-565. Leone IX esternò al Cerulario: “(...) inviolabiliter et inconcusso sibi

conservato illo privilegio, quod idem princeps quarto baptismatis sui die devotus contulit pontifici Romano, scilicet ut in toto orbe sacerdotes ita hunc caput habeant, sicut omnes judices, regem.” (Will, Acta et scripta, II, p. 70).

Infatti, la questione ecclesiologica era scottante almeno dallo scontro del 1054 in poi. Come può essere giudicabile la fede di Pietro se essa stessa, come teorizzò Gregorio VII, è giudice ultimo delle diverse opinioni e devianze dottrinali che caratterizzano l’Oriente cristiano?

Riprendiamo ciò che il pontefice scrisse il 7 dicembre 1074 ad Enrico IV:

«Illud etiam me ad hoc opus permaxime instigat, quod Constantinopolitana Ecclesia de sancto Spiritu a nobis dissidens concordiam Apostolicae Sedis expectat, Armenii etiam fere omnes a catholica fide oberrant, et pene universi Orientales prestolantur, quid fides apostoli Petri inter diversas opiniones eorum decernat. Instate nim nostro tempore, ut impleatur, quod pius Redemptor speciali gratia dignatus est apostolorum principi indicare ac praecipere dicens: Ego pro te rogavi, Petre, ut non dificiat fides tua; et tu aliquando conversus confirma fratres tuos. Et quia Patres nostri, quorum vestigia licet indigni sequi optamus, partes illas pro fide catholica confirmanda saepe adierunt, nos etiam adiuti precibus omnium christianorum, si Christo duce via patuerit […] illuc transire pro eadem fide et Christianorum defensione compellimur (…).»208

E ritroviamo il medesimo orizzonte ecclesiologico anche nella già citata lettera del 1080 al katholikos d’Armenia Gregorio II Vkayaser:

«Volumus etiam caritatem tuam litteris suis significare, utrum vestra recipiat, quod ecclesia universalis amplectitur, fidem scilicet IIII conciliorum, que a sanctis patribus comprobata a Romanis pontificibus Silvestro Leone aliisque apostolica sunt auctoritate firmata. Inter quos nichilominus beatissimus Gregorius papa doctor egregius maioribus ecclesiis Alexandrine Antiochene aliisque in epistola sua sese eam tenere (…).»209

Tra i vari spunti ecclesiologici contenuti in questi due estratti, è l’uso dell’esempio relativo a Gregorio Magno che ci interessa maggiormente. Gregorio VII, come si era già espresso circa il ruolo dei pontefici in seno ai concili ecumenici210, pone sulla stessa linea interpretativa un’altra prassi comune ai tempi della Chiesa indivisa: le lettere sinodiche appunto.

La necessità che la Sede apostolica, per sua autorità, firmasse («fidem […] a Romanis pontificibus Silvestro Leone aliisque apostolica sunt auctoritate firmata») o confermasse il simbolo di fede calcedonese («et quia Patres nostri […] partes illas pro fide catholica confirmanda saepe adierunt», secondo la lettera ad Enrico IV) a garanzia della sua ortodossia, trova nell’interpretazione di Gregorio VII un’ulteriore testimonianza nell’intronistica che Gregorio Magno mandò nel 591 ai patriarchi Giovanni di Costantinopoli, Eulogio di

208 Reg. II, 31, pp. 166-167. 209 Reg. VIII, 1, p. 511.

Alessandria, Gregorio di Antiochia (all’ex patriarca antiocheno Anastasio) e Giovanni di Gerusalemme211. In calce all’epistola troviamo la professione di fede: «(…) sicut sancti evangelii quattuor libros, sic quattuor concilia suscipere et venerari me fateor»212 scrisse Gregorio Magno,

richiamando brevemente le condanne e le decisioni che vennero prese nei concili ecumenici213.

Il riferimento a tale intronistica da parte di Gregorio VII non venne ripreso per il suo effettivo valore collegiale come accoglienza del neoeletto nella comunione della Pentarchia; ma assunto a ulteriore riprova del ruolo di guida dei pontefici romani. Il riferimento, infatti, è chiaro: i Patres nostri che spesso andarono in Oriente a confermare la fede trovavano nelle figure di Leone Magno e Gregorio Magno i loro più insigni rappresentanti. E la loro azione passata, a posteriori distorta e ridefinita, assumeva per Gregorio VII valore normativo.

La medesima interpretazione è valida, a mio avviso in modo piuttosto plausibile, anche per Urbano II. Il processo di alienazione dall’ecclesiologia pentarchica e dalla comunione con la cristianità greca, che il papato stava ormai perseguendo tra XI e XII secolo, ha in tali elementi dottrinali delle inequivocabili avvisaglie. Il sistema di autorappresentazione della Chiesa di Roma era pertanto compromesso da una distorta rilettura (come ho già detto) tanto della tradizione primaziale presente nei primi secoli, quanto della tradizione in generale e dell’ortoprassi della Chiesa imperiale tardoantica. La fede di Pietro non era giudicabile, da alcuno.

Il ruolo dei pontefici romani nelle ortoprassi pentarchiche e conciliari è un chiaro esempio di quelle antiche tradizioni storiche sul «primato di Roma» che durante la riforma ecclesiastica dell’XI secolo diventarono ideologia. E come già nel pensiero di Gregorio VII sull’Oriente, anche in Urbano II si manifestarono simili tendenze; poiché l’interpretazione personalistica di Mt. 16, 18 (in relazione a Mt. 16, 16) e di Lc. 22, 32 avevano creato un filo diretto tra Cristo e

211 Per la sinodica di Gregorio Magno: Gregorii I papae Registrum epistolarum, I, 24, MGH, Epistolae, pp. 28-38. 212 Ibid., p. 36.

213 «Nicaenum scilicet, in quo perversum Arrii dogma destruitur, Constantinopolitanum quoque, in quo Eunomii et Macedonii error convincitur, Efesenum etiam primum, in quo Nestorii impietas iudicatur, Chalcedonense vero, in quo Euthychis Dioscorique pravitas reprobatur, tota devotione complector, integerrima approbatione custodio, quia in his velut in quadrato lapide, sanctae fidei structura consurgit, et cuiuslibet vitae atque actionis existat, quisquis eorum soliditatem non tenet, etiam si lapis esse cernitur, tamen extra aedificium iacet. Quintum quoque concilium pariter veneror, in quo epistola, quae Ibae dicitur, erroris plena, reprobatur, Theodorus personam mediatoris Dei et hominum in duabus subsistentiis separans ad impietatis perfidiam cecidisse convincitur, scripta quoque Theodoriti, per quae beati Cyrilli fides reprehenditur, ausu dementiae prolata refutantur. Cunctas vero quas praefata veneranda concilia personas respuunt, respuo, quas venerantur, amplector, quia dum universali sunt consensu constituta, se et non illa destruit, quisquis praesumit aut solvere, quos religant, aut ligare, quos solvunt. Quisquis ergo aliud sapit, anathema sit. Quisquis praedictarum synodorum fidem tenet, pax ei sit a Deo patre per Iesum Christum filium eius, qui cu meo vivit et regnat consubstantialiter deus in unitate Spiritus sancti, per omnia saecula saeculorum. Amen» (Ibid., pp. 36-37)

Pietro, dando al primo degli apostoli una condizione di superiorità e infallibilità che, nell’esegesi romana, andava quasi ad annullare totalmente qualsiasi forma di condivisione (o meglio comunione) dei carismi petrini. Se poi leghiamo questa «teologia di san Pietro» ad una rigida visione del principio di apostolicità e a quel processo di «Pietro-mimesi» che elaborò l’ideologia papale nell’XI secolo, il quadro risulterà composto. Riprendendo ciò che Gregorio VII scrisse a proposito del suo rapporto con san Pietro (eius vicarius…qui nunc in carne vivit214), possiamo ben comprendere l’orizzonte ideologico che impedì a Urbano II di inviare la propria professione di fede a Costantinopoli.

Roma era il parametro della fede, il papa il suo difensore, e non solo in casi straordinari o di mancata concordanza tra le sedi apostoliche su particolari questioni (cosa ammessa per altro dalla stessa tradizione greca215), ma era l’assoluta ordinarietà su qualsiasi pronunciamento ad essere implicitamente rivendicata dal pontefice. L’«ego rogavi pro te», passo evangelico assolutizzato, reso esclusivo per Pietro e i suoi successori e ripetuto in modo martellante, poneva senza appello l’indefettibilità della fede romana. Poiché, se così non fosse stato, la possibilità di rimanere fedeli al principio “orientale” della dipendenza dottrinale da parte di qualsiasi vescovo (compreso quello di Roma) verso l’autorità suprema del concilio universale, avrebbe creato una grave falla nella «teologia di san Pietro» e nelle sue invenzioni216. Una frattura non solo ecclesiologica, bensì di una portata infinitamente più dirompente: dopo tutto, mettere all’eventuale vaglio la fede romana significava, anche solo indirettamente, porre la possibilità di errore della stessa, negando di conseguenza le stesse parole di Cristo a Pietro e l’intera economia di salvezza. Imprescindibili ancora una volta sono le parole del Capitani che definì come «catastrofe soteriologica» l’eventuale defettibilità della Chiesa romana e del suo vescovo217.

214 Reg. IX, 3, pp. 576.

215 Si noti, ad esempio, l’esaltazione del ruolo e dei carismi della sede romana operata dall’iconofilo patriarca di Costantinopoli Niceforo il Confessore ai tempi della seconda iconomachia nel suo Apologeticus minor (Nicephori Archiepiscopi

Constantinopolitani Apologeticus minor, PG 100, coll. 837C-841C). Cfr. O’Connell, The Ecclesiology of St. Nicephorus I, pp.

187-190; Gouillard, L’Eglise d’Orient et la primauté romaine, pp. 25-54, in part. pp. 38-46; Morini, Roma nella pentarchia, pp. 899-900. Anche Teodoro Studita, igumeno di Studios durante la seconda iconomachia, fu un grande testimone del ruolo di Roma in seno alla Pentarchia: si veda ad esempio l’epistola a Naucrazio del maggio-giugno 819 (Theodori Studitae Epistulae, I, 407 ed. Fatouros, II, p. 564) e la famosa lettera al sakellarios Leone dell’823 (Theodori Studitae Epistulae, II, 478, ed. Fatouros, II, p. 698). Cfr. Morini, Roma nella pentarchia, pp. 901-912.

216 Naccari, Il rapporto tra Sede apostolica e Oriente greco, p. 123.

217 «Ed è ben al concetto di unità della Chiesa quale Gregorio VII la intendeva (…): una unità che permane nel condizionamento più assoluto della persona del papa, non tanto in virtù del suo primato, quanto piuttosto in ragione della unicità della sua responsabilità della salvezza o della dannazione collettiva di tutta la società: non la sua infallibilità viene sottolineata, la sua posizione per così dire anancastica nei riguardi dei destini della società. Egli può trovarsi “a fide devius”: ma questa famosa clausola, più che essere un elemento limitante, come lo era nei canoni relativi alle immunità giudiziali dei vescovi, appare

Al contrario il pensiero greco non poteva essere più distante, e nonostante anch’esso (come ho già accennato) condividesse con la Chiesa latina una certa forma di riconoscimento del primato di Pietro, ne veniva data una lettura mistico-sacramentale ben lontana dall’ermeneutica romana218. Il pontefice di Roma, seppur (come scrisse Ignazio d’Antiochia) fosse colui che

presiedeva gli altri vescovi nella carità, doveva i suoi onori al fatto di essere il presule dell’Antica Roma, in quanto capitale dell’Impero (con tutta la teologia politica che le stava dietro), e non per il fatto di essere il vicarius Petri. Il papa romano era sì il successore di Pietro, ma non, come scrisse Gregorio VII, la sua personificazione. Anzi, proprio in qualità della sua importanza nella storia e nella vita della Chiesa, san Pietro era patrimonio di tutta la cristianità: l’universalis doctor, della cui eredità spirituale e sacramentale nessun vescovo poteva appropiarsene in modo esclusivo.