Urbano II, Alessio Comneno e il tentativo di riconciliazione del
A. Urbano II e Alessio Comneno.
I fatti che videro nel 1089 un riavvicinamento tra il papato e Costantinopoli sono fondamentali nella comprensione dei rapporti tra le due sfere della cristianità. Nonostante a essi non siano state date, a mio parere, le giuste attenzioni da parte della storiografia (forse anche a causa di una quantità limitata di fonti), lo scambio che intercorse tra papa Urbano II148 (1088-99), Alessio Comneno (1081-1118) e il clero costantinopolitano rappresentò un momento importante, tanto da un punto di vista storico quanto dottrinale149.
Il contesto geo-politico che preluse l’ambasceria papale a Bisanzio fu caratterizzato da alcuni profondi cambiamenti rispetto agli anni di Gregorio VII e Michele VII Ducas. In Occidente siamo nel pieno della lotta tra papato e impero, deflagrata a metà del decennio precedente a causa di un contrasto tra i legati papali e l’episcopato germanico, nonché a causa delle coerenze di Gregorio VII nell’applicare il primato della Sede apostolica150. In un crescendo di reciproche
148 Su Urbano II, in generale, rimando all’opera ancora di riferimento di Becker, Papst Urban II; Cantarella, Urbano II, pp. 1908- 1912; Cerrini, Urbano II, con la bibliografia ivi contenuta.
149 Si veda Leib, Rome, Kiev et Byzance, pp. 19-26; Id., Un Pape français et sa politique d’union, pp. 661-680; Spiteris, La
critica bizantina, pp. 27-37; Becker, Papst Urban II., pp. 203, 416ss.; Spadaro, Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente, pp. 79-
97; Chadwick, East and West, pp. 222-227.
150 La cosiddetta «lotta per le investiture» fu innescata da una frattura tra il pontefice e l’episcopato germanico. Nel 1074, su richiesta di Enrico IV, partì da Roma una legazione papale per raggiungere un sinodo in territorio tedesco al fine di redimere una controversia interna alle chiese del Regnum. Tuttavia, avendo il sinodo raggiunto un’intesa a dispetto del parere dei legati (i quali erano anche portatori di nuovi decreti contro la simonia e il concubinato che avrebbero destabilizzato il sistema della
Reichskiche) ed ignorando le loro pretese di presiedere il concilio in quanto rappresentanti del papa, l’ambasceria romana tornò a
Roma. Così, nel sinodo di Quaresima del 1075, Gregorio VII fece partire una serie di scomuniche a quei vescovi che avevano osato contestare la legittimità del giudizio di Roma, e condannò le investiture ecclesiastiche da parte dei poteri pubblici. Cfr. Cantarella, Dalle chiese alla monarchia papale, pp. 47-51; Id., Il sole e la luna, pp. 115-124.
scomuniche e deposizioni sia da parte imperiale che papale, l’imperatore Enrico IV (in accordo con circa i due terzi del corpo episcopale del Regnum che lo sostenevano) fece eleggere nel 1080 un altro papa, Guiberto, arcivescovo della potente Chiesa di Ravenna, con il nome di Clemente III. E la cosiddetta «lotta per le investiture», dalla morte di Gregorio VII nel 1085 passando per papa Vittore III (1086-87) e lo stesso Urbano II, non accennava a placarsi. Dato che lo scontro andava ad intaccare le fondamenta stesse di entrambi i poteri (imperium e sacerdotium), ormai non si poteva tornare indietro: la posta in gioco era troppo alta per entrambe le parti.
L’elezione al soglio di Pietro di Urbano II, Odone di Châtillon, portò lo scontro con Enrico IV a un livello nuovo, in cui il neoeletto papa si mosse tra realismo politico e soluzioni impreviste. Ciò avvenne nonostante la morte di Gregorio VII a Salerno, e la vittoria di Clemente III sembrasse vicina, e nonostante il pontificato di Vittore III fosse durato solo pochi mesi.
Infatti Urbano II arriverà, attuando ad un primo sguardo una mossa senza alcun senso strategico, ad allargare la questione delle investiture anche fuori dai confini del Regnum, nei regni di Francia e d’Inghilterra151. Al contrario il senso sussisteva in pieno, poiché tale mossa era a dimostrazione che il papa c’era, era presente e operante, e che i princìpi della primazialità romana dovevano essere riconosciuti ed universalmente rispettati, anche a costo di prendere decisioni ecclesiali e politiche (solo apparentemente) contro-producenti. Essa fu «una mossa audace, che faceva diventare esplicitamente la questione delle investiture una questione di procedimenti universalmente validi, e riconfermava l’universale validità della presenza della Chiesa di Roma e del suo impianto normativo per mezzo dei legati (…) Urbano II, insomma, si dimostrò un buon successore di Gregorio VII nella sua disponilità ad alzare ancora la posta: salvo che l’aveva fatto impegnando il papato in uno scontro europeo e per ciò stesso conferendogli una dimensione europea, generale»152.
Tuttavia i primi tempi del pontificato urbaniano furono all’insegna di una Chiesa romana in profonda confusione ed incertezza, tanto più che nell’Urbe (conquistata nel 1084 da Enrico IV) risiedeva in modo più o meno stabile l’altro papa Clemente III, il quale si trovava in una situazione di maggior forza rispetto al suo contendente in quanto riconosciuto dall’impero, dalla maggioranza dei cardinali e dai re di Inghilterra (nonostante qualche oscillazione), Serbia e Ungheria153.
In questa guerra di logoramento, in cui vennero messe in campo tutte le armi disponibili (dalla spada del cavaliere alla penna dei canonisti e dei polemisti), una carta che i due papi contendenti
151 Cantarella, Dalle chiese alla monarchia papale, pp. 51-52. 152 Ibid., pp. 52-53.
potevano usare l’uno contro l’altro era l’appoggio ecclesiale e politico dell’ecumene romano- orientale. Infatti, sebbene questo appoggio difficilmente avrebbe comportato degli aiuti materiali, l’essere riconosciuto come papa legittimo da Costantinopoli avrebbe dato un prestigio e una legittimità di un notevole peso, nonostante le divisioni e il progressivo allontanamento culturale ed ecclesiale tra Latini e Greci. Di conseguenza, riprendere i contatti con l’impero e la Chiesa d’Oriente era una mossa che poteva dare un suo vantaggio, e sia Urbano II prima che Clemente III poi tentarono di intraprendere questa strada ad Orientem.
Per quanto riguarda l’inizio dei rapporti tra Urbano II e Costantinopoli, il pontefice nel 1089 tenne un concilio locale a Melfi in cui si discusse di un possibile riavvicinamento con la pars graeca (in vista, forse, anche dell’indizione di una crociata per liberare la Terra Santa?), ma, purtroppo per noi, gli atti della sinodo non sono sopravvissuti ai secoli154. Ciò che è giunto fino a noi è invece uno scritto di Basilio, metropolita greco di Reggio Calabria, indirizzato al patriarca di Costantinopoli Nicola III Grammaticos (1084-1111) in cui era riportato un presunto dialogo avuto con il papa, il quale avrebbe voluto proporre a Costantinopoli un accordo: se i Greci lo avessero riconosciuto come legittimo vescovo di Roma, egli avrebbe mantenuto gli usi e protetto i vescovi greci del sud Italia dai Normanni155.
L’impero bizantino, da parte sua, stava vivendo i primi momenti di quell’epoca che fu contrassegnata dal potere della dinastia comnena. Nel 1081 Alessio Comneno entrò di forza a Costantinopoli per esservi incoronato imperatore, in un momento in cui la situazione dell’impero si stava sempre più aggravando (soprattutto a causa del colpo di mano di Niceforo III Botaniate ai danni di Michele VII Ducas, ai successivi anni di lotte interne per il trono, e ai continui attacchi sui territori di confine). Sul fronte della politica estera una serie di incursioni quasi simultanee da parte dei Turchi selgiuchidi (che arrivarono quasi alle porte di Costantinopoli), dei Peceneghi che stavano devastando le regioni a sud del Danubio e dei Normanni che avevano occupato i territori bizantini nell’Italia meridionale, e non potendo l’impero fronteggiare più nemici contemporaneamente, mise Alessio Comneno di fronte a una scelta strategica156: ovvero in quale scenario far convergere le già esigue forze dell’impero. La scelta fu quasi obbligata: nonostante da tempo i Comneni detenessero buona parte del loro patrimonio fondiario in Tracia e nei Balcani, ed abbandonata ogni volontà di riscossa sul fronte asiatico contro i Turchi (stanziatisi ormai in Asia Minore in cambio del riconoscimento formale dalla sovranità bizantina), Alessio mise al primo posto delle sue opzioni di politica estera il quadrante
154 Chadwick, East and West, p. 222. 155 Ibid.
occidentale. Il nemico più aggressivo e pericoloso erano infatti i Normanni157, i quali, assediata Durazzo nel 1080, non nascondevano l’ambizione di intaccare i territori bizantini occidentali e di spingersi fino alle porte di Costantinopoli158. La Westpolitik di Alessio Comneno fu così segnata
dalla costante ricerca di alleanze politiche nell’Europa latina per fronteggiare tale minaccia. Il papato e Venezia furono tra i maggiori interlocutori del basileús fin dal suo avvento al potere. A livello politico, ricucire i rapporti ecclesiali con la Sede apostolica poteva fornire vantaggi di ampio respiro tanto da un punto di vista strategico quanto (come vedremo) ideologico; mentre un accordo con Venezia divenne quasi indispensabile per poter sopperire alle falle della marina bizantina, ormai troppo debole per contrastare i progetti normanni di impadronirsi di entrambe le sponde dell’Adriatico159. Come è noto, Costantinopoli riuscì a scongiurare ed arginare le mire
normanne, ed anche la morte di Roberto il Guiscardo nel 1085 diede un momentaneo respiro all’impero. Tuttavia quest’ultimo avvenimento non fece altro che rallentare la politica di aggressione verso Bisanzio, la quale verrà perpetuata anche negli anni successivi e per tutto il secolo XII160.
L’avvento della dinastia comnena, tuttavia, aprirà una nuova età di ripresa nella storia di Costantinopoli; poiché se l’azione di Alessio Comneno fu una vera e propria metamorfosi nell’esercizio del potere rispetto alla tradizione precedente, egli fu comunque in grado di mettere in moto un processo di cambiamento che non solo rivitalizzò l’impero romano d’Oriente, ma lo fece oltretutto ritornare sulla scena delle grandi potenze mediterranee.
Questo processo fu reso possibile attraverso una serie di fattori. In primo luogo si assistette ad una forte centralizzazione del potere nella mani del basileús, della sua famiglia (nuove concezioni della porfirogenesia161) e di un ristretto gruppo di uomini intorno all’imperatore162, andando così a scardinare quel delicato equilibrio istituzionale che nel secolo XI (nelle lotte tra aristocrazia civile e militare) aveva mostrato tutte le sue fragilità. Una nuova classe dirigente basata sul sangue si stava sostituendo ad una gerarchia su base «funzionale»: dall’epoca comnena l’appartenenza per nascita o per matrimonio all’alta aristocrazia vicino alla corte dava
157 Cfr. Burgarella, Roberto il Guiscardo e Bisanzio, pp. 39-60. 158 Cfr. supra, pp. 20-23.
159 Sui rapporti tra Venezia e Bisanzio nel secolo XI rimando principalmente a Von Falkenhausen, Bisanzio e le repubbliche
marinare, pp. 55-63; Carile, Venezia e Bisanzio, pp. 659-663; in generale cfr. Gallina, Conflitti e coesistenza nel mediterraneo;
Ravegnani, Bisanzio e Venezia, e la bibliografia ivi contenuta.
160 Cfr. McQueen, Relations between the Normans and Byzantium, pp. 440-476; Russo, Convergenze e scontri. 161 Pertusi, Il pensiero politico bizantino, p. 184.
162 Patlagean, Un Medioevo greco, pp. 255-259. Sul sistema di potere dei Comneni rimando anche a P. Magdalino, The Empire of
accesso alle funzioni dirigenziali e di comando dell’impero, creando un gruppo specifico all’interno della società bizantina dotato di una forte identità su base familistica163.
Alessio Comneno intraprese quindi le proprie riforme, sia ribaltando con parametri totalmente diversi la promozione sociale di nuovi ceti dirigenti intrapresa da Costantino IX Monomaco, sia relegando in posizioni secondarie quelle grandi famiglie bizantine non legate strettamente ai Comneni. L’azione accentratrice di Alessio, unita a riforme fiscali, militari e amministrative, diede una nuova stabilità all’impero, tanto da poter fornire nuova forza all’autocrazia bizantina, alla politica estera e alla difesa delle frontiere164.
L’ulteriore peculiarità dell’epoca comnena, seppur in continuità con la tradizione precedente, fu l’aspirazione universalistica che sia l’ideologia imperiale, sia la politica estera inaugurata da Alessio Comneno tentarono di perseguire. In altre parole, la Bisanzio di fine XI e XII secolo aspirava a mantenere una vocazione ecumenica ed egemonica mai abbandonata, ma che, nonostante le buone politiche di Alessio Comneno e dei suoi successori, era ormai irrimediabilmente compromessa dalle crisi del secolo XI e dal dinamismo delle realtà geo- politiche esterne all’impero (Occidente latino in primis)165. L’anacronistica ideologia dell’età comnena che ambiva, più nella retorica che nella realtà, a restaurare gli antichi sfarzi dell’impero giustinianeo, fu caratterizzata da novità e persistenze: una basiléia che traeva legittimità dalla sfera metafisica, in cui venne data forza alle descrizioni di cristomimesi dell’imperatore attraverso i cerimoniali166 (unzione sacrale) e le opere letterarie, ma anche da rinnovate teorizzazioni della «teologia politica bizantina»167. Infatti, a fronte soprattutto delle pretese universalistiche che potevano esprimere in Occidente il papato e l’impero germanico, Costantinopoli fu nuovamente assunta dalla riflessione politica del secolo XII come la vera Roma cristiana, sempre eterna, incorruttibile, in cui l’imperatore era il vero e unico erede di Costantino, basileús dei basileís in piena continuità con l’imperium Romanorum e la sua suprema autorità ecumenica senza vincoli territoriali: l’autocrazia era concepita in modo pressoché assoluto168.
La retorica e la propaganda furono alquanto incisive nell’attribuire all’imperatore bizantino caratterizzazioni escatologiche sulla base dei re-sacerdoti dell’Antico Testamento: egli era un
163 Si veda Kazhdan-Ronchey, L’aristocrazia bizantina, pp. 67-92. 164 Gallina, Bisanzio, pp. 247-254.
165 Su questo rimando a Gallina, Incoronati da Dio, pp. 170-174;
166 Cfr. Nicol, Kaiseralbung, pp. 37-52; Pertusi, Il pensiero politico bizantino, pp. 172-174; Angold, Church and Society in
Byzantium, pp. 542-547.
167 Il termine è stato introdotto all’interno del dibattito storiografico dall’importante lavoro di Carile, La teologia politica
bizantina.
nuovo Davide, adorno della porpora…il patriarca il suo Samuele169. Si ambiva a creare una stringente immagine sacrale del basileús attraverso tutti gli elementi che la tradizione romana e cristiana potevano fornire; e tali teorizzazioni, lungi dall’essere semplici metafore o parallelismi, avevano valenze identitarie per legittimare ed accrescere il potere degli imperatori comneni tanto in politica interna, quanto in politica estera. E proprio il confronto con l’Occidente latino (sempre più stretto a causa delle crociate, del pericolo normanno e delle necessità politiche del XII secolo), come si evince dalla letteratura greca del medesimo periodo, diede l’occasione di ridefinire l’identità autocratica ed universalistica di Bisanzio170. Lo sguardo ad Occidentem dell’impero nell’età comnena si inseriva quindi in un complesso gioco delle parti in cui, se da un lato si continuava a considerare il mondo latino come un insieme di realtà che dovevano guardare all’unico costantinopolitano come all’immagine fenomenica dell’unica Chiesa di Cristo171, dall’altra parte una figura come Alessio Comneno (proprio in virtù delle sue anacronistiche ambizioni di riprendere l’antico sfarzo giustinianeo) aveva intuito che non poteva prescindere dal ricercare appoggi e alleanze al di là dell’Adriatico.
In tutto questo, una pedina fondamentale nello scacchiere dei Comneni fu il papato (almeno fino a Manuele Comneno), dalla cui intesa, ripristinando a livello preliminare la concordia ecclesiale tra la sede costantinopolitana e quella romana, non si poteva prescindere.
L’opportunità si concretizzò quando, verso l’estate del 1089, Urbano II inviò a Bisanzio un’ambasceria con a capo l’igumeno di Grottaferrata Nicola e il diacono Ruggero. Purtroppo, ancora una volta, le lettere papali sono andate perdute, cosicché rimangono solo le fonti bizantine (raccolte da Walther Holtzmann in una pubblicazione del 1928172) e un breve resoconto degli avvenimenti da parte del monaco normanno Goffredo Malaterra173. Secondo l’Holtzmann, la legazione papale sarebbe stata latrice di due missive, una per l’imperatore e l’altra per il patriarca, nelle quali il pontefice (stando alle fonti) avrebbe richiesto sia che i latini risiedenti nell’impero potessero liberamente celebrare l’eucarestia con gli azzimi, sia che il nome
169 Michel Italikos, Lettres et Discours, p. 79, 5-21.
170 Ancora una volta rimando a Spiteris, La critica bizantina. Da questo studio si evince come la produzione letteraria e i polemisti greci del secolo XII, ridefinirono il pensiero politico bizantino anche a partire dalla critica delle aspirazioni universalistiche ed egemoniche che le due grandi istituzioni occidentali (papato e impero germanico) stavano così pesantemente imponendo. Solo per citare alcuni esempi si pensi ad Anna Comnena, Eustazio di Tessalonica, Giovanni Cinnamo, Giorgio Tornikes Teodoro Balsamone).
171 In tali termini si esprimerà la lettera del 1156 di Giorgio Tornikes al papa in nome dell’imperatore Manuele Comneno. Si veda Spiteris, La critica bizantina, p. 170.
172 Holtzmann, Die Unionsverhandlungen, pp. 38-67. Si veda anche Stiernon, Rome et les Eglises Orientales, pp. 331-351. Fonti
greche riviste e commentate anche in Becker, Papst Urban II, pp. 206-271.
del papa di Roma fosse reinserito nei dittici della Chiesa costantinopolitana174. Come contropartita Urbano II avrebbe eliminato la scomunica di Gregorio VII che «sussisteva» su Alessio Comneno dagli anni di Niceforo Botaniate175.
Da un punto di vista ecclesiale ed ecclesiologico, la richiesta di Urbano II sul reinserimento del proprio nome nei dittici costantinopolitani è una questione di primaria importanza. I dittici, infatti, fin dai tempi della Chiesa indivisa rappresentavano una di quelle forme visibili della comunione tra i cinque troni apostolici a guida dell’ecumene cristiana. La commemorazione da parte di un presule, in sede liturgica, degli altri quattro patriarchi era l’espressione della comunione sacramentale ed ecclesiale che egli manteneva con il collegio pentarchico, vera epitome e apice della Chiesa universale. Era pertanto una manifestazione di comunione sia centrifuga che centripeta, inserita (anche se mai codificata canonicamente) tra quelle pratiche ordinarie che stavano alla base del regime pentarchico nella Chiesa imperiale tardo-antica176. E contrariamente, qualora uno dei cinque presuli si fosse allontanato dall’ortodossia dottrinale o vi fossero stati evidenti problemi tali da rompere la comunione ecclesiale, egli sarebbe stato eliminato dalla lista dei dittici, rendendo manifesta ed operativa la sua separazione dalla Chiesa universale.
Per quanto riguarda i rapporti tra Roma e Costantinopoli, nell’età che stiamo trattando, il papa era da tempo escluso dai dittici della Chiesa costantinopolitana. Le fonti hanno portato la storiografia ad individuare tale momento all’inizio del secolo XI, durante il cosiddetto «scisma dei due Sergi»; e nonostante le fonti su questo siano rapsodiche e posteriori agli eventi, talune testimonanze hanno indotto gli storici a ritenere che lo scontro tra papa Sergio IV (1009-1012) e il patriarca Sergio II (1001-1019), causa l’interpolazione del simbolo romano con il Filioque attestata nell’intronistica papale verso la sede bizantina, sia stato il momento della rimozione del nome del pontefice romano dai dittici costantinopolitani177.
Le fonti, come dicevo, non evidenziano in modo diretto e inequivocabile come la causa dello scontro fosse da attribuire alla modifica romana del Credo. Talune infatti sono piuttosto vaghe
174 Cfr. Holtzmann, Die Unionsverhandlungen, pp. 60-61. Malaterra nel suo reseconto scrive: «(…) Nam idem Apostolicus ante
paucos dies Alexium imperatorem Constantinopolitanum per Nicolaum abbatem Cryptae ferratae et Rogerium diaconum conveniens paterna increpatione commonuerat, quod christianis Latinis, qui in sua provincia morabantur, azymo immolari interdixerat, praecipiens in sacrificiis more Graecorum fermentato uti, quod nostra religio omnino non habet» (Malaterra, De
rebus gestis, VI, 13, p. 92).
175 Cfr. Reg. VI, 5b, p. 400.
176 Sui dittici cfr. Bishop, The Dipthychs, pp. 97-117; Magi, La sede romana nella corrispondenza degli imperatori e patriarchi, pp. 9-10; Peri, La pentarchia: istituzione ecclesiale, p. 238; Morini, Roma nella pentarchia, pp. 850-851.
177 Per uno sguardo complessivo sull’evento e sulle fonti di seguito citate rimando a Morini, È vicina l’unità tra cattolici e
(come la Panoplia di Eutimio Zigabeno178, la testimonianza di Giovanni di Gerusalemme179 o quella di un certo Niceta, sincello e archivista di Santa Sofia180) al punto da indurre Antonio Sennis ad essere piuttosto prudente nell’individuare il problema del Filioque come motivo del dissidio181. Dall’altra parte, le fonti che fanno un esplicito riferimento alla disputa trinitaria sono
esigue, seppur tra esse ci sia un’attestazione importante ed affidabile come Pietro III d’Antiochia182. Quest’ultimo, nella sua lettera del 1054 al patriarca Michele Cerulario, scrisse come nel 1009, mentre era diacono di Santa Sofia sotto Sergio II, il nome del papa di Roma, Giovanni XVIII (1003-1009), il predecessore di Sergio IV, fosse ancora ricordato nei dittici costantinopolitani183. E tale puntuale indicazione temporale di Pietro III ha rappresentato la fonte primaria (insieme al sincello Niceta) su cui Francis Dvornik, Donald Nicol e la tradizione storiografica hanno ricostruito gli eventi184: il papa nella sua lettera sinodica al patriarca Sergio II avrebbe modificato il simbolo con l’aggiunta del Filioque, determinando la decisione del presule costantinopolitano di eliminare il nome del pontefice romano dai dittici della propria Chiesa. Tuttavia, il Morini ha sottolineato come sussistano forti riserve nel ritenere che la rottura della