la lunga gestazione di una raccolta bucolica
1.3 IL CODICE ISIDORIANO
1.3.1 La lettera di dedica
C è l’unico testimone che tramanda la breve lettera di dedica (c. 117v) con cui l’autore inviava il suo componimento, nei primi giorni dell’anno 1487 (o, al più tardi, 1488), al suo mecenate Falcone Sinibaldi. Ecco il testo della lettera:145
Reverendo in Christo patri ac Domino Falconi Sinibaldo protonotario ac Thesaurario apostolico Frater Baptista Mantuanus Carmelita salutem ac foelicitatem dicit.
Scio te, hominem propter excellentes animi tui virtutes accuratissimum, lectionibus indigere quae recreare et honestam possint asservare voluptatem. Ingenia enim nostra, ut cultellorum acies, exercitio retunduntur, et opus est ea, sicut cultellos cote, iocis et salibus exacuere. Hoc precipue videtur anni principio, id est sacratissimae domini nostri Jesu Christi nativitati, convenire. Erant namque maioribus nostris celeberrimi dies Natales et in anni principio reintegrandae charitatis et reconciliandae amicitiae gratia, depositis curis, hilarius vivebant, iocis indulgebant, munuscula mittebant, quod equidem et in hominibus christianis laudaverim, modo nulla pars careat officio. Huius igitur natura temporis admonitus, aeglogam quam egrotans meditatus sum tibi dono, dico et mitto, ut sit pro anni principio xenium, pro mea servitute tributum, curarum tuarum medicamentum et apud dominatum tuum nostri memoriale. Vale
Nonostante la sua brevità, la lettera è un importante documento di poetica, valido per molta parte della produzione d’occasione sviluppata in quegli anni a Roma dallo Spagnoli. Partiamo dal fondo: l’egloga è offerta al destinatario come xenium. Il termine richiama certo il XIII libro di epigrammi di Marziale, al centro dell’attenzione, nella Roma degli anni Settanta, per la aspra contesa filologica che vide opporsi Domizio Calderini a Niccolò Perotti e Pomponio Leto. Credo che
xenium sia termine scelto con accuratezza: il Mantovano stava infatti già
raccogliendo un libretto di epigrammi “cristiani” che avrebbe dedicato a Falcone (Epigrammata ad Falconem), seguendo di pochi anni l’esempio del Verino.146 Nonostante il carattere ‘nugatorio’ assegnato all’aegloga dal richiamo al genere epigrammatico, essa deve comunque svolgere un triplice compito ‘cortigiano’ nella terna autore («pro mea servitute tributum»), mecenate («curarum tuarum medicamentum»), principe («apud te dominatum tuum nostri memoriale»).
L’egloga viene inserita nel filone allegorico e allusivo dei fatti contemporanei, tipico della quasi coeva produzione bucolica “politica” di un Boiardo, di un Naldi,
145 Per l’ortografia seguo i criteri ortografici stabiliti alle pp. ????.
di un Cantalicio. Se questo poteva apparire naturale per gli umanisti organici a una corte, per il Mantovano rappresentava allora una novità legata al soggiorno romano, un adeguamento ai costumi letterari vigenti; dieci anni prima, col Suburbanum, edito a Bologna al di fuori di necessità encomiastiche, il nostro aveva originalmente fatto della poesia bucolica uno strumento di edificazione grazie allo snodarsi, al suo interno, di un itinerarium cristiano che avrebbe poi informato anche la definitiva raccolta Adolescentia.147 Dalla poesia pedagogica ed edificante della prima produzione bucolica, si passa invece ad una poesia intesa come dotta ricreazione, atta a procurare una «honesta voluptas» ad un lettore colto: espressione ben carica di significato, sol che si pensi a quanto discutere avesse già fatto durante il Quattrocento il termine voluptas, da Valla, almeno, al Platina; in quell’espressione l’aggettivo honesta è funzionale a delineare una nuova poetica e a prendere così le distanze tanto dalla poesia priapea e oscena di un Panormita quanto dalla lirica erotica e lasciva di un Landino, di un Poliziano, di un Pontano. Una poesia, quella proposta dal Mantovano, che non deve mancare di sales e ioci – eredità fondamentale della poesia pagana – ma in cui essi siano ben tenuti a freno dall’autore («modo nulla pars careat officio») perché la loro ‘lama’ non offenda, bensì ritempri, l’animo del cristiano.
Per questa umile funzione di ricreazione della poesia e sul ruolo da assegnarle nei confronti della filosofia e della teologia, il Mantovano e Giovanni Pico ebbero forse modo di discutere già a Roma, nel periodo travagliato per il conte di Mirandola e Concordia.148 È utile a questo proposito rileggere la citatissima lettera di Pico
147 Per questo aspetto cfr. GALAND-HALLYN et alii, L’inspiration, p. 136, dove si suggerisce, come
possibile fonte per la struttura della raccolta, il Canzoniere petrarchesco. Più probabile, credo, come sostiene RATKOWITSCH, Bukolik, un’influenza del Bucolicum carmen boccacciano.
148 Non è certo che lo Spagnoli e Giovanni Pico della Mirandola si siano conosciuti a Roma nel
1487. C’è chi lo ha espressamente negato (GARIN, La cultura filosofica, p. 265), senza peraltro
motivare l’asserzione. In realtà, mi pare difficile che lo Spagnoli, così vicino al pontefice e ad alcuni suoi più stretti cardinali, non abbia conosciuto Pico nella sua convulsa vicenda romana relativa alle novecento tesi, tra la fine del 1486 e i primi mesi del 1487 (alle turbolente vicende romane del conte di Mirandola lo Spagnoli allude nella sua lettera a Pico del 1 ottobre 1490: «Nam dum ego Romae gravius admodum rei publicae meae negociis insudarem, eo tempore quo tu quoque, ut meministi, tantis illis aemulationum fluctibus laborabas», Opera omnia, Bononiae, 1502, nel primo fascicolo con cc. non numerate). C’è inoltre un documento d’archivio, un quaderno di atti del notaio romano Leonardo «Domini Petri» (Roma, Archivio di Stato, Notai Capitolini, 1294), in calce al quale (c. 382v) si leggono le seguenti dichiarazioni autografe di Battista Mantovano e Pietro Gavasseti, con le quali i due confratelli si impegnano a restituire alcuni codici ottenuti in prestito «Domino Joanne»: «Ego magister Baptista Mantuanus habeo mutuo a Domino Joanne libellum De bello Longobardorum,
Arithmeticam Boetij et Epistolas Sidonij. 1487 die 25 iunij. Et ego Frater Gavascetus Carmelita habeo
Lactantium Contra gentiles et Solinum De mirabilibus mondj» (nostro il corsivo), cfr. ZIMMERMAN,
Mantuaniana, pp. 220-22, che identifica, credo plausibilmente, nel conte Giovanni Pico della
all’amico Mantovano datata 19 settembre 1490149 (e lo sarebbe ancora di più se sapessimo con precisione a quali poemata stampati a Bologna tra il 1488 e il 1489 Pico si riferisce):
Olim ad te, optime pater, non scripsi, sed interim legi quae tu scripsisti, divina scilicet atque sanctissima illa tua poemata […] hoc unum dixero delectari me adeo lectione tuorum carminum, ut fere quottidie, cum me vel toedium vel fatigatio ceperit, in illa quasi in hortum deliciarum solitus sim secedere. Unde animo tanta semper oboritur voluptas ut nihil cupiat magis quam iterum fatigari, ut iterum recreetur. (nostro il corsivo)
Per la piena comprensione di questa lettera è indispensabile leggerne un’altra, sempre indirizzata allo Spagnoli, in cui Pico fissa, attraverso la ripartizione delle varie attività nei diversi momenti della giornata, una chiara gerarchia articolata su tre livelli: gli studi letterari, la filosofia e la Sacra Scrittura.
Concordiam Platonis et Aristotelis assidue molior, do illi quotidie iustum matutinum; post meridianas horas amicis, valitudini, interdum poetis et oratoribus et si qua sunt studia operae levioris; noctem sibi cum somno sacrae Litterae partiuntur.150
Le parole che ho sottolineato in corsivo nel brano precedente mostrano che Pico, se anche non conosceva la lettera di dedica dell’Aegloga ad Falconem, ebbe molto probabilmente modo durante gli anni romani di confrontarsi con frate Battista Mantovano sul rapporto fra la poesia e le altre discipline.
Sulla base di queste nuove acquisizioni possiamo leggere più consapevolmente la chiusa della lettera di dedica dell’Adolescentia a Paride Ceresara, già citata all’inizio di questo capitolo; e notare che se, come sostiene giustamente la Merli,151 lo Spagnoli poteva avere certo in mente, al momento della sua stesura, la lettera dell’amico Pico, in specie per la gerarchia dei saperi, egli riprendeva però senza dubbio anche una concezione ‘ricreativa’ della poesia che aveva già fatta propria a Roma una decina di anni prima:
tibi, o Pari, iuvenis antiquae nobilitatis et studiorum ac omnium bonarum artium amantissime nostraeque urbis decus egregium, [hoc libellum] libentissime dono, ut quando tetricis illis philosophiae ac theologiae lucubrationibus quibus assidue vacas,
citate sono presenti nella biblioteca di Pico (KIBRE, The library, p. 192 n. 541, p. 253 n. 998, p. 190 n.
529, p. 170 n. 376).
149 BAUSI, Giovanni Pico, p. 76 sostiene che la datazione sia da intendersi secondo l’uso fiorentino.
Si tratterebbe dunque dell’anno 1491. 150 ivi.
fatigatus fueris, habeas iucundulam hanc lectiunculam, qua tanquam ludo quodam blandulo sed liberali lassum legendo reparetur ingenium.
Giovanni Pico e Battista Mantovano paiono così accordarsi nel difendere e promuovere quella solo poesia edificante che si propone di delectare in modo conveniente.
1.3.2 Le postille all’egloga
Tanto le sparute postille vergate nei marginalia dallo stesso copista dell’aegloga quanto il contesto in cui l’aegloga stessa viene trascritta, paiono indicarci le modalità della prima ricezione del testo. A dispetto infatti del suo argumentum («Candidus conqueritur sibi et gregi non esse prosperam fortunam in Latio», che verrà esplicitato in «De moribus Curiae Romanae» nella definitiva versione del 1498) non c’è nemmenio una nota, una sottolineatura o una manicula a dare risalto alla critica dei vizi degli alti prelati, descritti dal Mantovano come lupi inferociti contro quei greggi che dovrebbero difendere. Delle poche ma significative postille che lascia questo anonimo copista, nemmeno una riguarda l’aspetto morale: spesso parlano anche le assenze, i silenzi, quelle che a noi, a distanza di secoli, paiono quasi omissioni. Le postille si concentrano invece sull’aspetto letterario, sui casi di imitatio dell’iniziatore latino del genere bucolico, oppure su quello grammaticale, facendo riferimento, cosa altrettanto significativa, al massimo commentatore di Virgilio, Servio.
Alla c. 118r, sul margine sinistro, accanto al verso «Pone pedum ut mihi sit tecum cape pocula sermo», lo stesso copista riporta il luogo parallelo di Virgilio:
Virgilius: «At tu sume pedum» [Buc. V 88]
Mentre il margine destro è riservato a due definizioni del termine pastorale pedum, per cui vengono in aiuto i grammatici Festo e Servio:
Festus: pedum pastorale baculum incurvum dictum quia illo oves pedibus comprehendunt.
Pedum virga pastorale incurva unde pedes pecudum retinentur. Servius [Comm. in.
Buc. V 88]152
Sotto, sempre nella stessa carta, sul margine sinistro, accanto al verso «vina sitim minuere, maneat moerorque dolorque», si legge una sorta di didascalia esplicativa riferita al pastore:
bibit iam et cur maneat causa est.
Ma è la quarta ed ultima postilla ad attirare di più l’attenzione del lettore che sa cogliere, al di là del valore di quello che essa esprime, l’importanza ermeneutica di ciò che tralascia. Al verso «Sunt tamen hic armenta quibus cutis uvida cervix» (c. 119r), il copista soprascrive all’aggettivo uvida, evidentemente di non comune occorrenza, una succinta definizione:
uvidum dictum quid humidum.
Poi, come se la prima spiegazione non fosse stata sufficiente, ricorre a Servio per una ulteriore specificazione:
Uvidus pinguis quod precipue aliquid habet humoris intrinsecus. Unde et uva dicta est. Servius [Comm. in Buc. X 20]153
Qui Badio Ascensio, il massimo commentatore cinquecentesco del Mantovano, chiosa a proposito di cutis uvida: «id est, glabra et nitida. Horatius: “me pinguem et nitidum, et bene curata cute vises”».154 Ma il richiamo alle fonti classiche mi pare che non esaurisca il senso del termine usato dal nostro bizzarro umanista cristiano. Circa un secolo prima, i commentatori del Bucolicum carmen di Petrarca si erano fermati ad analizzare uno dei frequenti etoronimi dell’autore, Stupeus, e ne avevano colto subito il significato scritturale-religioso; solo il più avveduto tra di loro, Benvenuto da Imola, era stato in grado di percepire, accanto alla matrice scritturale,
152 SERVIO, Commento, p. 64: «SUME PEDUM virga incurva, unde retinentur pecudum pedes».
153 Ivi, p. 122: «UVIDUS H.V.D.G.M. ‘uvidus’ pinguis et ‘umidum’ est quod extrinsecus habet
aliquid umoris, ‘uvidum’ vero quod intrinsecus, unde et ‘uvae’ dictae sunt: quod tamen plerumque confundunt poetae».
154 F. Baptistae Mantuani Bucolica seu Adolescentia in decem aeglogas divisa, ab Iodoco Badio
anche quella pagana del termine, che affondava nell’humus poetico ovidiano.155 Sul cadere del Quattrocento, alla fine di un secolo speso in buona parte nell’edizione e nel commento dei testi classici, la situazione si è come capovolta: sono i grandi poeti pagani a balzare subito agli occhi dei lettori. Eppure, nel caso del Mantovano, e in questa circostanza specifica, il ricordo degli autori pagani non basta a spiegare a pieno il senso di quell’aggettivo uvidus.
La definizione tecnica prelevata dal massimo commentatore di Virgilio, come anche il richiamo all’epicurea pinguedine oraziana, non sono in grado di cogliere lo slittamento semantico del termine, il pathos morale che trasuda dall’allegoria; la ripetuta ‘virgilianizzazione’ della bucolica sembra quasi sedare l’urgenza accusatoria, che prorompe sotto i tegumenta della fictio pastorale, rivolta contro
armenta (leggasi: i cardinali delle grandi famiglie) «quibus cutis uvida, cervix / non
signata iugis, gemino frons ardua cornu» (vv. 79-80). Sembra quasi che l’errore che si trova a questo punto in alcuni manoscritti (invida per il corretto uvida) sia da giustificare, al di là di un facile lapsus grafico, con l’“orizzonte d’attesa” del copista, che si aspetta ad ogni parola la caratterizzazione negativa, la sferzata dell’autore contro i vizi degli alti prelati. Ma l’aggettivo uvida assolveva già bene il compito, solo a saperne cogliere il senso: quella pelle è uvida perché premuta da un sottostante umore, quello del vizio e del peccato. Quanto l’aggettivo sia gravido di connotazione morale negativa, e ascrivibile al campo semantico del gonfiore, della tumescenza malsana prodotta del vizio, lo si può evincere leggendo l’inizio della descrizione che lo Spagnoli fa del quinto vizio, il monstrum della golosità, nel I libro del suo De
calamitatibus temporum, opera fortemente intrisa di lessico e immaginario
medievali156 (nostri i corsivi):
Hoc quoque Cerbereis monstrum de faucibus exit ridiculum: nam pingue caput, frons prominet alta, labra, genas oculosque tumens, sub gutture lato surgit et inflatum tollit cutis uvida pectus.157
Il richiamo intertestuale permette di cogliere a pieno la carica di deplorazione morale158 contenuta in quella cutis uvida, che ha veramente poco a che fare col sano
155 Cfr. CHINES, La parola degli antichi, pp. 47-48.
156 Per questo aspetto senza dubbio caratterizzante della poesia dello Spagnoli è ancora
fondamentale il saggio di ZABUGHIN, Un beato poeta.
157 SPAGNOLI MANTOVANO, De calamitatibus, p. 43. Il poema, in 3 libri, uscì a Bologna nel 1489
volto ben pasciuto di Orazio, così nel brano del celebre poema didascalico scritto a Bologna, come nel breve componimento pastorale romano.159 Ma – e lo Spagnoli doveva ben esserne consapevole – versare il contenuto di un grande ed impegnativo poema in un genere umile come la poesia pastorale, allora così in voga nelle corti dei signori, significava fare un omaggio a un genere che obliterava per statuto la gravitas di ogni argomento.
1.4 Per una geografia dell’aegloga ad Falconem. Il Mantovano e l’Umanesimo