L’ira, nell’oratoria greca, si configurava dunque quale vero e proprio argomento morale; lo stesso può dirsi, specularmente, del sentimento della pietà (eleos): il colpevole meritava che su di lui si riversasse tanta collera quanta pietà doveva essere riservata alla vittima delle sue malefatte87
. «Proverete compassione (eleēsēte) di questi giovinetti a causa della grandezza delle loro sventure e giudicherete che costui [Diogitone] si merita la collera
83 Isoc. XX.5-6. 84 Isoc. XX.9.
85 È noto come Aristotele, nella Retorica, elenchi cinque forme di «prove non tecniche» (pivstei" a[tecnoi;
Arist. Rhet. 1375a 24 ss.), tra cui compaiono anche le leggi (novmoi). Sulla questione della classificazione delle leggi e dei decreti come prove nel diritto attico si veda Harrison, The Law of Athens II, cit., pp. 134-135 (trad. it. pp. 132-133).
86 Un’interessante ed isolata eccezione è rappresentata dalla produzione di Antifonte, il quale esprime in
merito alla collera un personale giudizio di condanna: cfr. Antiph. V.69 (ove il giudizio espresso per la collera viene contrapposto ad un giudizio meditato: ajpoqanovnte" ojrgh~/ ma~llon h] gnwvmh/), 71-72 (ove Antifonte invita i giudici a decidere «senza cedere all’ira e alla calunnia, le peggiori consigliere che ci siano - mh; metV ojrgh~" kai; diabolh~", wJ" touvtwn oujk a]n gevnointo e{teroi ponhrovteroi suvmbouloi» e a «liberare l’intelligenza - gnwvmhv - dal dominio dell’ira - ejx ojrgh~"», poiché «questa passione guasta in noi proprio lo strumento del giudizio» tanto che «è impossibile per un uomo in preda all’ira - ojrgizovmeno" - giudicare bene - euj~ gnoivh»).
87 Per un approfondimento dell’associazione tra collera, pietà e merito nella relazione giuridica tra accusa e
(axion orgēs) di tutti i cittadini»88
: così, per esempio, Lisia apostrofa i giudici nell’orazione Contro Diogitone, esprimendo una previsione retorica delle reazioni emotive che spera di suscitare in loro. Nell’orazione Contro Midia, Demostene si rivolge all’imputato: «non meriti pietà da nessuno, neanche un po’; ma, piuttosto, odio, rancore, ira»89
. Collera e pietà sembrano essere due pathē specularmente opposti o, più precisamente, nelle parole dello stesso Demostene, «i due sentimenti più contrari»90
: nei confronti del medesimo uomo non è possibile provare, al contempo, entrambi. D’altra parte l’oratore intende stimolare nel proprio uditorio tanto il sentimento collerico quanto quello compassionevole, a dimostrazione del fatto che è invece opportuno ed auspicabile che nel soggetto giudicante essi insorgano insieme, seppure destinati a due individui distinti: l’uno investirà chi ha commesso un’ingiustizia, l’altro colui che l’ha subita.
L’associazione di collera e pietà, tuttavia, non si riduce ad una semplice questione di convenienza morale. Non è soltanto desiderabile che i due pathē si generino congiuntamente (per quanto debbano poi seguire destinazioni separate), ma si tratta di un fenomeno necessario: l’affinità di orgē e di eleos è costitutiva alla natura di queste passioni. Secondo la definizione aristotelica della pietà, essa è
una forma di sofferenza (lupē) di fronte alla visione di un male manifestamente rovinoso o doloroso che ricade su una persona che non lo merita, un male che anche noi possiamo attenderci di subire - noi stessi o uno dei nostri familiari - e che sembra prossimo91.
Mentre la collera insorge in reazione alla sofferenza ingiusta provocata da una mancanza di rispetto, la pietà è suscitata da qualsiasi tipo di sventura si abbatta su di una vittima innocente92
; d’altra parte, ad accomunare i due pathē sono il fatto che il dolore sia immeritato e il coinvolgimento personale di chi li esperisce: a generare ira è «una palese offesa rivolta alla nostra persona o a qualcuno a noi legato» e si prova pietà quando «anche noi possiamo attenderci di subire - noi stessi o uno dei nostri familiari» lo stesso ingiusto male che, oggi, ha colpito un uomo simile a noi. Tuttavia, nel caso della pietà, questo coinvolgimento deve essere soltanto ipotetico, altrimenti eleos si trasforma in deinon, terrore:
88 Lys. XXXII.19. 89 Dem. XXI.196. 90 Dem. XXI.196. 91 Arist. Rhet. 1385b 13-16. 92 Arist. Rhet. 1386a.
gli uomini provano compassione, poi, per le persone che conoscono, quando non siano legati a esse troppo strettamente: nei confronti di queste, la loro disposizione è la stessa che avrebbero se dovessero soffrire loro stessi, ed è per questo motivo che Amasi non pianse per il figlio condotto a morte, come si racconta, mentre pianse per un amico che chiedeva l’elemosina93.
La retorica della collera mirava dunque a trasformare il tribunale nella sede teatrale di una rappresentazione morale: appellarsi alla pietà dei giudici nei confronti della sofferenza della vittima significava indurli a figurare se stessi come le prossime, possibili vittime del medesimo colpevole (l’imputato), qualora fosse stato assolto. La degenerazione della pietà in paura94
, cioè la trasformazione del dolore «che anche noi possiamo attenderci di subire» in «un male imminente»95
, poteva essere impedita dall’esercizio del pathos dell’ira nel momento del giudizio: tramite la vendetta cui la collera aspira e che, sul piano processuale e pubblico, si trasforma in sanzione, i giudici combattevano il rischio che la propria pietà, rivolta, in tribunale, a «persone che conoscevano» ma a cui non erano strettamente legati, acquistasse i contorni del terrore, ovvero di una sofferenza che li avrebbe travolti personalmente, qualora il colpevole fosse rimasto impunito96
. Il discorso retorico attivava pertanto un vero e proprio processo mimetico, collocando le passioni sul doppio binario dell’emotività e dell’argomentazione; ed era in questo modo che, nei tribunali ateniesi, il trasferimento dei pathē dalla sfera personale a quella pubblica produceva la riqualificazione della collera in termini di giustizia.
93 Arist. Rhet. 1386a.
94 «Nel complesso, incutono timore tutte le cose che suscitano compassione quando accadono o sono sul
punto di accadere ad altri» (Arist. Rhet. 1382b 25-26).
95 Arist. Rhet. 1382a 23. La definizione aristotelica di phobos recita come segue: «la paura può essere definita
come una forma di sofferenza o uno sconvolgimento che deriva dalla prefigurazione di un male imminente, che causa rovina o dolore, in quanto non si temono tutti i mali [...] ma solo quelli che possono comportare grandi sofferenze o rovina, e anche questi ultimi solo nel caso in cui non appaiano remoti, ma imminenti, tanto da sembrare sul punto di verificarsi» (Arist. Rhet. 1382a 21-23).
96 Cfr. p. es. Dem. XXI.37: «chi di voi non sa che, se accadono molti fatti simili, è perché chi delinque non è
punito, e che, per far sì che nessuno commetta atti di insolenza, l’unica soluzione sarebbe che ogni criminale di volta in volta arrestato subisse la pena che gli spetta?».