L’elaborazione sofoclea del mito di Aiace trae spunto, nell’omonima tragedia, dalla follia che colpisce l’eroe in seguito al giudizio sull’attribuzione delle armi di Achille, che aveva sancito la superiorità di Odisseo su tutti i guerrieri dell’armata achea. Si è già avuto modo di sottolineare come la variante che il tragediografo introduce a proposito della composizione della giuria che assegna le armi al Laerziade contribuisca a produrre una sensazione di isolamento e abbandono cui l’eroe perdente appare condannato: infatti, arbitri della contesa sono, in Sofocle, gli stessi compagni d’arme di Aiace e non, come in Omero, i «figli dei Danai»43
.
La tragedia si apre sulle braccia insanguinate di Aiace, che nottetempo ha sterminato gli armenti, bottino di guerra degli Achei, follemente convinto che si trattasse di Odisseo e degli Atridi. «L’ira lo ha travolto»44
, spiega Atena al suo prediletto, vincitore della competizione; se non fosse stato per lei, che ha acceso la sua collera fino alla pazzia, dirottandone la spada sulle bestie, sarebbe certamente riuscito nell’impresa vendicativa che aveva in mente: ma ora Aiace, l’impavido combattente, si trova nelle sue tende e, delirante, tortura pecore invece che uomini. La descrizione che Sofocle fornisce della follia dell’eroe è
42Il riferimento va qui al celebre verso del frammento 201 West di Archiloco: povll joi`d j ajlwvphx, ajll j
ejci`no" e}n mevga («la volpe sa tante cose, ma il riccio ne sa una grande») e all’interpretazione che ne dà Isaiah Berlin nel saggio intitolato, appunto, Il riccio e la volpe: «esiste un grande divario tra coloro, da una parte, che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire - un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono - e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto, per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificati da un principio morale o estetico. Le persone di questa seconda categoria conducono esistenze, compiono azioni e coltivano idee che sono centrifughe piuttosto che centripete, e il loro pensiero è disperso o diffuso poiché si muove su molti piani, coglie l’essenza di una vasta varietà di esperienze e di temi per ciò che questi sono in sé, senza cercare, consciamente o inconsciamente, di inserirli in (o di escluderli da) una visione unitaria, immutabile, onnicomprensiva, a volte contraddittoria e incompleta, a volte fanatica. La personalità intellettuale o artistica del primo tipo appartiene ai ricci, la seconda alle volpi» (I. Berlin, The Hedgehog and the Fox in Id., Russian thinkers, Harmondsworth, Penguin books, 1978, pp. 22-81; trad. it. di G. Forti, Il riccio e la volpe e altri saggi, a cura di H. Hardy e A. Kelly, Milano, Adelphi, 19982, pp. 71-72).
43 Od. XI v. 547. 44 Soph. Aj. v. 41.
terrificante: lo stesso Odisseo, intimorito, non vuole vedere il valoroso guerriero, uccisore di tanti nemici, ridotto a massacrare un gregge. «Hai paura di vedere un uomo in preda alla follia?»45
gli domanda cinicamente Atena, invitandolo a deridere quello che ella ha trasformato in una pietosa caricatura; ma Odisseo non ride, anzi, compiange «l’infelice piegato al giogo di una crudele sventura»46
. Tornano alla mente le parole con cui il Laerziade introduce la narrazione del proprio incontro con l’ombra di Aiace, nell’undicesimo libro dell’Odissea:
non avessi mai vinto quella contesa! A motivo di essa la terra coprì un tale uomo,
che per l’aspetto e le azioni era il migliore di tutti i Greci dopo il nobile figlio di Peleo47.
Quando scrive l’Aiace, Sofocle ha senza dubbio in mente l’episodio omerico della discesa agli Inferi e la sua rappresentazione di Odisseo, in altre occasioni fortemente critica48
, è in questo caso benevola: l’eroe appare turbato dalla sventura che ha colpito il suo compagno, ancorché avversario, e potrebbe senza dubbio tornare a sottoscrivere il giudizio che su di lui aveva pronunciato nell’Odissea. Del resto, Aiace è davvero il secondo guerriero, per bellezza e prestanza, dopo Achille e di ciò i poemi omerici forniscono continue conferme: nel secondo libro dell’Iliade il poeta dichiara che «Aiace di Telamone è il più forte, fino a che dura l’ira di Achille»49
e nel settimo libro Ettore lo definisce «con la lancia il più forte di tutti gli Achei»50
; ancora, Aiace «per aspetto e valore superava tutti gli Achei dopo il nobile figlio di Peleo»51
e, nell’Odissea, egli è, dopo Achille, «il migliore nel corpo e nell’aspetto»52 . Sono dunque veritiere le parole che Odisseo rivolge ad Aiace defunto: «per te morto noi Greci piangiamo senza riposo»53
. Tuttavia, fin dai tempi del tributo omerico all’indomito eroe, la figura di Aiace non può accontentarsi dell’ammissione postuma del suo insuperabile valore: così persevera nel silenzio e nella collera tremenda, voltando le spalle ai
45 Soph. Aj. v. 81. 46 Soph. Aj. vv. 123-124. 47 Od. XI vv. 548-551. 48 Per esempio nel Filotette. 49 Il. II vv. 768-769. 50 Il. VII vv. 288-289. 51 Il. XVII vv. 279-280. 52 Od. XXIV vv. 17-18. 53 Od. XI vv. 556-557.
vivi per scendere, di nuovo e per sempre, nell’oscurità dell’Erebo. Del resto, Odisseo gli parla nell’Ade, il regno del tempo sospeso, e Aiace sa che sulla terra, alla luce del sole, il mondo è cambiato: l’arete epica ha ceduto il passo alle virtù politiche, alla deliberazione con voto di maggioranza che ha sancito il superamento tanto dell’ideale arcaico dell’eroe quanto dell’essenza stessa della sua identità di possente guerriero delle grandi gesta, irriducibile alla retorica del discorso.
Quando muore, dunque, Aiace? La sua immagine immensa si annebbia a seguito del giudizio sull’assegnazione delle armi, che lo priva della più intima ragione d’esistere, mandando in pezzi l’eroico principio d’individuazione che sorreggeva tanto la sua anima quanto il suo scudo. Di fronte ai capi degli Achei che, discutendo del suo valore, mettono in discussione questo stesso valore, il grande Aiace Telamonio ha già cominciato a scomparire. «Aiace, frodato delle armi d’oro, lottò con la morte»54
: la prima, vera morte di Aiace è messa ai voti dell’assemblea. È interessante che Pindaro, che ammirava il Telamonio al punto da denunciare i «voti occulti» dei Danai55
, sottolinei il nesso di causalità che lega la votazione per le armi alla scomparsa dell’eroe dalla storia dei vivi: nel nuovo mondo, Aiace non può più essere Aiace. Lo scenario sociale e valoriale che il giudizio sulle armi genera non lascia spazio all’identità bellicosa dell’antico guerriero: prima di togliersi la vita con la spada, Aiace è già morto di vecchiaia.
Sofocle trasfigura la prima morte di Aiace nell’episodio della sua follia: «colui che da solo aveva retto Ettore e tante volte il ferro, il fuoco, Giove, non resse la collera; il dolore vinse quell’uomo invincibile»56
. La sofferenza del mancato riconoscimento è fatale: chi non ne muore è destinato a impazzire. La caricatura della vendetta di Aiace che Sofocle descrive con il massacro degli armenti ha lo stesso significato di ciò che è irreversibile: la collera dell’eroe negato non sarà mai appagata, la sua rivincita non è possibile, perché egli non esiste più. L’epica si è conclusa, il tempo del guerriero coraggioso è tramontato; per questo il progetto omicida di Aiace fallisce miseramente su di un gregge di pecore: la sua pazzia è tragica, non patologica.
54 Pi. N. VIII. 55 Pi. N. VIII.
56 Ov. Met. XIII vv. 384-386: «Hectora qui solus, qui ferrum ignesque Iovemque / sustinuit totiens, unam
«Il mio passato muore»57
: queste le parole dell’eroe nel breve tratto di lucidità che dalla follia lo condurrà alla morte definitiva. Se solo fosse stato vivo Achille, lui sì che avrebbe saputo premiare il valore!58
Ma tutto è finito ormai, il mondo è degli intriganti59 ; e Aiace, che non ha potuto vendicarsi, decide di morire. La sua aidōs ha subito feroce violenza: è stata distrutta, annientata. In questo senso, il suicidio non porta alla morte, ma alla restaurazione, alla ricomposizione del proprio sé frantumato, alla proclamazione di un eroismo sopravvissuto all’oltraggio: h] kalw~" zh~n h[ kalw~" teqnhkevnai to;n eujgenh~ crhv, «chiaramente vivere o chiaramente morire: è questo il dovere di chi è nobile»60.