• Non ci sono risultati.

Come affrontare il dolore

Nel documento Sofferenza e suicidio (pagine 131-147)

L S∗

Per capire ciò che la persona sofferente sta vivendo è importante soprattutto ascoltare. E cioè udire le sue parole ma anche percepire i suoi silenzi, il linguaggio del corpo e ciò che i suoi comporta- menti comunicano. Perché tutto ciò che la persona fa o non fa è comportamento. E ogni comportamento è comunicazione, che ne siamo coscienti o meno

. A volte una parola o un gesto del malato, apparentemente banali, sono un grido soffocato che proviene dal profondo della psiche e dell’anima, un linguaggio verbale o non verbale importante. Ma può capitare che non riusciamo a udire il messaggio che l’altra persona ci manda solo perché crediamo di sapere in anticipo ciò che vuole comunicare. O perché siamo di- stratti, non attenti, o troppo “pre–occupati” di noi stessi o di quello che dobbiamo dire o fare.

Dietro al dolore del corpo, al lamento e al pianto, possiamo co- gliere i segni dell’angoscia e della paura, di un desiderio frustrato o di un amore tradito, dell’insicurezza e della solitudine, della tristez- za e della disperazione, dell’abbandono e dell’inganno, del rimorso e della colpa, della separazione e di tante perdite immaginate o subite. Troppo spesso, invece di ascoltare ciò che il dolore vuole dirci, per superare il “dis–agio” noi lo addormentiamo con qualche analgesico, mettiamo la sordina alla sua voce. Parole dette trop- po frettolosamente, anche consolazioni religiose “in–opportune”,

Professore di Teologia Pastorale Sanitaria e di Psicologia della salute e della malat-

tia, Istituto Camillianum. Relazione al Convegno “Dolore e sofferenza: interpretazioni, senso e cure”, – ottobre .

. Cfr. P. W, J.H. B, D.D. J, Pragmatica della comunicazione

umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma  (or. ingl. ), –.

 Luciano Sandrin

se non anche moleste, possono essere vie di fuga per tenerci a distanza dalla sofferenza che il malato vive.

. L’esperienza del dolore

È ancora molto diffusa la convinzione che il dolore del corpo sia un semplice segnale di allarme, un messaggio sensoriale che arriva al cervello attraverso il midollo spinale e che avvisa su quello che sta succedendo in periferia. Se così fosse il dolore percepito dovrebbe essere proporzionato all’estensione e gravità del danno e per curarlo basterebbe intervenire sul danno tissutale. Ma così non è. Il dolore è un’esperienza complessa, anche il dolore del corpo, e gli studi dimostrano sempre più l’importanza dei fattori psicosociali in questo campo

.

Il dolore è un’esperienza pienamente umana, esperienza della persona, e come tale sfugge alle nostre rigide distinzioni. Studiando a fondo il dolore fisico, per capirlo, ma soprattutto per arrivare a una sua adeguata terapia, gli specialisti del settore si sono resi conto come anche questo tipo di dolore non è una semplice risposta a una stimolazione che a vario titolo colpisce e danneggia il nostro corpo, ma piuttosto il risultato di una complessa, e spesso inconsapevo- le, elaborazione personale in cui aspetti fisici, psico–sociali e spirituali si fondono insieme: un amalgama in cui le singole dimensioni si possono distinguere ma non si possono separare. Troppo spesso invece noi, parlando del dolore, continuiamo a separare la psiche dal corpo, o il corpo dall’anima: segno di un dualismo cartesiano duro a morire. In un corretto approccio al paziente con dolore, per intessere con lui una relazione che in qualche modo lo aiuti, la com- ponente psichica deve essere sempre tenuta in seria considerazione e attentamente valutata. Ma anche la componente spirituale.

Il modello biopsicosociale, che nell’ambito della salute sta sosti- tuendo il modello biomedico, ci aiuta meglio a capire come anche il dolore percepito e vissuto, e i comportamenti che ne conseguono,

. Cfr. L. S, Come affrontare il dolore. Capire, accettare, interpretare la soffe-

renza, Paoline, Milano 

. I., “Per capire il dolore. Annotazioni psicologiche”, in

Come affrontare il dolore 

risulti dall’interazione del soggetto (dotato di proprie caratteristi- che biologiche e psicologiche, e di personali competenze) con il contesto sociale, dentro la prospettiva storico–evolutiva del ciclo di vita (life–span). Quando il dolore si cronicizza, entra come ele- mento caratterizzante nella biografia del soggetto interessato ma anche di tutto il sistema familiare e ne diventa, spesso, la chiave narrativa

. Il modello biopsicosociale è, quindi, più adeguato del modello biomedico per capire questa esperienza umana, perché vede il dolore come un’esperienza multidimensionale influenzata da meccanismi biologici, psicologici e sociali, ma che produce anche cambiamenti in queste varie dimensioni. La reciprocità di questa influenza, dentro un processo dinamico ed evolutivo, tende a croni- cizzare il dolore stesso. Dentro l’approccio multidimensionale del modello biopsicosociale–spirituale della psicologia della salute, anche per quanto riguarda l’esperienza del dolore, sempre più attenzione stanno ricevendo le variabili spirituali e religiose e i meccanismi di affrontamento usati, valutati sempre più come “forme attive” di coping. E questo anche nel rapporto con le varie malattie.

La sofferenza del malato va oltre il dolore del corpo, anche se a questo contribuisce in maniera determinante: è “esperienza” della persona e ha la sua sorgente nelle sfide che minacciano la sua stessa integrità (intactness) biopsicosociale. È conseguenza di una distruzione della persona o di una sua parte essenziale, di un danno percepitocome reale o imminente all’integrità del Sé (un costrutto psicologico che rappresenta un soggettivo senso di identità). E la sofferenza si esprime attraverso una vasta gamma di emozioni e sentimenti: angoscia, rabbia, tristezza, senso di colpa, disperazione, e altre ancora. E da questi vissuti viene influenzata. Non capire la natura della sofferenza del malato da parte dei professionisti della salute (del medico specialmente), anche quando viene espressa come dolore fisico, può portare a interventi terapeutici (anche tecnicamente perfetti) che non solo non leniscono il dolore ma rischiano di aumentarlo. Afferma provocatoriamente Eric Cassel che, nonostante il medico sia obbligato fin dall’antichità ad alleviare la sofferenza umana, poca attenzione sia stata esplicitamente data al

. Cfr. A. K, The illness narratives. Suffering, healing & the human conditions, Basic Books – Harper Collins, s.c. .

 Luciano Sandrin

problema della sofferenza nell’educazione medica, nella ricerca o nella pratica. C’è quindi un paradosso: anche nei migliori luoghi di cura e con i migliori medici capita spesso che “la sofferenza sia presente non solo durante il corso di una malattia ma anche come risultato del suo trattamento”

.

Accettare, come punto di partenza, la “discrepanza tra Sé attuale e Sé ideale”, mai completamente colmabile ma sulla quale si può intervenire, è il passo fondamentale per ascoltare l’esperienza del dolore del malato — e della sofferenza che l’accompagna e lo può aggravare — e trovare le strade adeguate per alleviarlo, curarlo o sopportarlo. La “discrepanza” tra immagine corporea reale e ideale, fonte di dolore, si sposta (e si confonde) in chi soffre sulle discrepanze nel Sé (nel sentimento di identità), nei rapporti con gli altri e con Dio, e dalle ferite che queste discrepanze provocano viene influenzata. Ma dalla loro elaborazione e da un cammino di perdono e riconciliazione con il proprio corpo, se stessi, gli altri e Dio la persona può trovare sollievo e guarigione.

Nell’incontro con molti malati c’è spesso, inizialmente, solo il silenzio. Può essere il segno di un dolore troppo grande per essere detto, riconosciuto, accettato e ospitato. Il malato esprime il suo dolore quando capisce che “si può fidare” perché stiamo facendo tutto il possibile per guarirlo o per “sollevare” almeno il suo dolore, ma specialmente quando ci sente “presenze amiche”, compagni di viaggio insieme con lui nel viaggio della sua malattia. Ma a volte non siamo capaci di tenere il ritmo del suo passo, siamo su altre lunghezze d’onda e non riusciamo a sintonizzarci con ciò che egli vive. O vogliamo semplicemente difenderci dal nostro dolore. Il dolore dell’altro entra spesso in risonanza con i nostri presenti o antichi dolori. Nel dialogo con chi soffre, noi scopriamo le nostre ferite e le barriere che sono dentro di noi, che abbiamo man mano costruito fin dalla nostra infanzia, per salvarci dal nostro profondo dolore: corazze che ci impediscono di essere veramente presenti agli altri e in comunione con loro, ma anche con noi stessi

. Per ascoltare la narrazione di chi soffre, e decifrare le sue emo-

. E.J. C, The nature of suffering and the goals of medicine, Oxford University

Press, Oxford–New York 

, .

Come affrontare il dolore 

zioni, dobbiamo imparare a non far tacere il dolore delle ferite che abitano dentro di noi. Accanto a chi soffre, sono proprio le nostre ferite, guarite e cicatrizzate, che possono trasformarsi in fonte di sensibilità, capacità di sintonia, aperture alla compassione, e stimolare nell’altro le forze di guarigione che sono dentro di lui. Solo chi ha il coraggio di guardare dentro se stesso, colui che sa riconoscere anche le proprie ferite, elaborarle ed esprimere chiara- mente le proprie esperienze interiori, può offrire se stesso come fonte di chiarificazione, di cura e di guarigione, e condurre le persone fuori dalla terra della confusione e dell’angoscia, in quella delle speranza. Ce lo ricorda Henri Nouwen nel suo bel libro Il guaritore ferito

.

. Alla ricerca di un perché

I sentimenti di colpa (coscienti o meno) sono frequenti nel malato, e nei suoi familiari, sia quando la colpa viene riconosciuta sia quando viene rimossa e negata, ma espressa nella malattia o collegata in qualche modo ad essa. “Perché a me?”, “Che cosa ho fatto di male per meritare questo?”: sono domande frequenti nel momento del dolore, della malattia o della tragedia. Esse esprimono, in qualche modo, un senso di colpa derivante dalla sofferenza e dalla malattia vissute (non solo dai malati e i loro familiari ma anche da coloro che a vario titolo stanno loro accanto), come punizione

. Il malato si interroga, va alla ricerca nel suo passato di comportamenti coi quali collegare, in qualche modo, la sua situazione attuale. Il senso di colpa che la persona vive non deve essere banalizzato, è sempre meritevole di attenzione, anche per una sua possibile elaborazione sia a livello psicologico che spirituale.

Sono vari i motivi per cui il malato si sente in colpa e vari sono i modi di esprimerli. Anche la scoperta dell’importanza dei fattori

. Cfr. H.J.M. N, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea,

Queriniana, Brescia 

(or. ingl. ); L. S (a cura di), Il guaritore ferito.

Modello pastorale, Camilliane, Torino .

. “Poiché la punizione è una sofferenza reputata meritata, chissà se ogni sofferenza non è, in un modo e l’altro, la punizione di una colpa personale o collettiva, conosciuta o sconosciuta?” (P. R, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia , ed. or. , ).

 Luciano Sandrin

psichici nell’insorgere del dolore, e l’insistenza sul controllo che l’ammalato può esercitare sul suo decorso, se da una parte aiutano la relazione di cura, e richiamano la persona alla collaborazione, dall’altra, specialmente di fronte ad interpretazioni semplicistiche che riconducono indebitamente alla psiche le varie patologie or- ganiche, rischia di far sentire il malato sempre più responsabile, e quindi colpevole, quando le cose non vanno per il verso giusto, come fosse un suo fallimento nel tenere il controllo del tutto. “Più o meno chiaramente, gli viene detto che si è ammalato perché non è stato in grado di far fronte allo stress in modo costruttivo, perché non ha messo in atto meccanismi di difesa validi, perché non ha saputo riconoscere i propri problemi psicologici e li ha anzi negati e rimossi. La persona che soffre si sente angosciata, impotente e in colpa. I fattori psicologici sono certamente importanti ma il mo- do in cui interagiscono con i fattori biologici (il modo cioè in cui mente e corpo dialogano e si influenzano reciprocamente) sono piuttosto complessi. E questa ‘complessità’ va sempre ricordata”

. Nel momento del dolore, di una diagnosi di malattia, di una disgrazia o una perdita, spesso ci si chiede: Perché proprio a me? “Anch’io — scrive una psicologa, malata di sclerosi multipla — non sono sfuggita a questo interrogativo”. Ci guardiamo intorno, ve- diamo tante altre persone che stanno bene, che sembrano felici e ci ribelliamo a quella che sembra un’assurdità e un’ingiustizia. “La mente umana accetta il caso con difficoltà e cerca sempre di

trovare una spiegazione e un ordine nelle vicende. Ognuno di noi, se pure in misura diversa, ricerca un senso coerente nella propria vita, basato sulla convinzione che quanto ci accade sia spiegabile e comprensibile, all’interno di un certo quadro di riferimento in cui gli eventi hanno una loro ragion d’essere”

.

Quando, nella nostra vita, il dolore prende il sopravvento, la domanda del “perché?” si trasforma in “perché proprio a me?”.

. Cfr. S. B, “Cattivi pensieri. L’onnipotenza della psiche”, in Psicologia Con-

temporanea () –. Cfr. “Critically reformulating the study of pain and di- sease”, in M.L. C, Rethinking health psychology, Open University, Buckingan — Philadelphia , –.

. S. B, Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, Laterza, Roma–Bari ,  e ; Cfr. S. P, Perché sto male? Psicologia ingenua e pratica psicoterapeutica, CarocciFaber, Roma .

Come affrontare il dolore 

Ne cerchiamo una causa, un’attribuzione, una colpa: Dio, gli al- tri, noi stessi o un peccato che fin dall’origine ci accompagna e trova materializzazioni sempre nuove nei nostri stessi peccati. Ri- sposte religiose diverse vengono proposte per rispondere al perché del nostro soffrire, cercandone il “senso” in cui Dio è implicato, sottolineandone, di volta in volta, la trascendenza o l’immanenza, l’onnipotenza o la debolezza, il nascondimento o la rivelazione, il silenzio o la parola, la distanza o l’amore, la noncuranza o la com- passione

. La domanda del perché della sofferenza, nelle nostre implicite o esplicite teodicee, trova risposte teologiche diverse e richiama varie immagini di Dio, non solo in chi soffre ma anche in chi gli sta accanto

. Dio non può essere semplicemente dichiarato “assente” di fronte al soffrire delle sue creature ma il suo tipo di “implicazione” e di agire non può essere spiegato con categorie

semplicemente umane.

Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda. E pone questa domanda a Dio. Ma quel Dio, al quale pone la sua domanda, gli risponde dalla Croce, “dal centro della sua propria sofferenza”

. Nella vita e nella morte di Gesù Cri- sto, Dio compassionevole entra nella nostra storia, “com–patisce” con noi, per vincere il dolore dall’interno. La croce rivela l’amore compassionevole di un Dio che soffre e fa compagnia al dolore umano. Senza dimenticare che “il significato definitivo della soffe- renza di Gesù appare, però, in maniera compiuta solo nell’evento della risurrezione”, nella pasqua, e cioè nel passaggio

.

La tensione tra croce e risurrezione continua a segnare la vita dei credenti. Nella risurrezione di Cristo Dio rivela la sua volontà di distruggere, nel dolore del Figlio, il dolore che continua a se- gnare la vita degli uomini. Come cristiani siamo chiamati a vivere questo mistero, paradossalmente, tra due atteggiamenti diversi ma

. Cfr. J.A. van der V – E. V, Suffering: Why for God’s sake?, J.H. Kok Pharos, Kampen , –.

. Cfr. L. S, “Esperienza della malattia e immagini di Dio”, in CredereOggi  () –.

. G P II, Salvifici Doloris. Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana,  febbraio , n. .

. Id., Novo Millennio Ineunte. Lettera Apostolica al termine del Grande Giubileo

 Luciano Sandrin

contemporaneamente presenti: la sofferta e combattuta ricerca di un senso per il dolore che accomuna tutti gli uomini, non ancora eliminato per sempre, accolto e vissuto come un segno della parte- cipazione alla passione del Cristo; la consapevolezza che la potenza scaturita dalla risurrezione del Figlio di Dio è già efficace nel tempo della Chiesa, nelle sue “mediazioni” salvifiche e nel suo impegno per la salute, la cura e la guarigione. Il cristiano è chiamato a vivere il dolore tra resistenza e resa, tra lotta e affidamento

.

. La compassione pastorale

Per un’efficace accompagnamento pastorale e una competente relazio- ne di aiutodella persona che soffre, e di chi ne condivide l’esperienza, è necessaria una buona empatia. La capacità di immedesimarsi e di condividere i pensieri e le risposte emotive delle persone, fa da mediatore tra la percezione delle loro esigenze e le azioni messe in atto per aiutarle

. Empatia e compassione sono strettamente legate. La compassione presuppone l’empatia ma nella compassione è presente una forte dimensione motivazionale e operativa: è un partecipare alla sofferenza dell’altro con il desiderio di alleviare o ridurre questa sofferenza, cercandone le modalità concrete per attuarlo.

Per colui che soffre, la compassione di Dio prende corpo, il più delle volte, nel nostro amore: viene espressa nella nostra cura e nelle nostre parole. La missione più importante per la comunità cristiana è quella non tanto di presentare a chi soffre risposte in apparenza risolutorie della sua domanda sul dolore, accordando l’onnipotenza di Dio con il suo amore, ma narrare “in parole e opere” la tenerezza di un Dio compassionevole che in Gesù ha fatto

. Cfr. A. L, “La funzione terapeutica della salvezza nell’esperienza della Chiesa:

sguardo diacronico e riflessione sistematica”, in A.N. T (a cura di), Liturgia e terapia.

La sacramentalità a servizio dell’uomo nella sua interezza, Messaggero, Padova , –; Cfr. G. C (a cura di), Il dolore tra resistenza e resa, Camilliane, Torino .

. Cfr. L. S, Aiutare gli altri. La psicologia del buon samaritano, Paoline, Milano , –; J.C. B, Empatía terapéutica. La compasión del sanador herido, Centro de Humanización–Desclée de Brouwer, Bilbao ; L. S, Un cuore attento. Tra

Come affrontare il dolore 

del soffrire (tentazione di allontanarsi da Dio) una strada faticosa ma percorribile per abbandonarsi fiduciosamente al Padre e salvare nell’Amore l’umanità intera.

Dovremmo essere meno preoccupati, accanto a chi soffre, di fare “discorsi” su Dio ma di essere, piuttosto, segni efficaci (sacramenti) del suo amore. La miglior difesa di Dio consiste proprio nell’amore. Ce lo ricorda Benedetto XVI nella Deus caritas est: “l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr. Gv ,) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare” (n. ). Ed è l’amore che può mitigare la solitudine di chi soffre, la migliore “con–solazione” (Spe salvi, n. ), e la migliore teodicea.

Perché Dio permette il male e la sofferenza? Di fronte a questa do- manda la teodicea pastorale non cerca primariamente di spiegare il male e la sofferenza, di risolvere la domanda del perché (teodicea intellettuale), ma presenta delle vie attraverso le quali le singole persone, ma anche la comunità cristiana nel suo insieme possano resisteredi fronte al male e alla sofferenza, trasformando queste real- tà, aiutando così i cristiani a continuare a vivere rimanendo fedeli a Dio, anche in mezzo a domande che rimangono senza risposta, ma fidandosi del suo amore e della sua redenzione. Il fuoco di attenzione della teodicea pastorale non è tanto sul perché il male esistema piuttosto su come sia possibile costruire comunità che si pren- dano cura di chi soffre. “La teodicea pastorale è una teodicea di azione e di resistenza. Si focalizza su specifiche pratiche pastorali che la chiesa deve imparare e incarnare per cercare di resistere al male e rimanere fedele in mezzo alla sofferenza”

. La sofferenza chiede esperienze di presenza “con–fortante” più che argomenti logici. La teoria può fornire significati alla sofferenza, ma è nella relazione compassionevole che il sofferente fa esperienza di essere salvato.

Intervento pratico e riflessione intellettuale nella teodicea devo- no interagire. Nella relazione con chi soffre la seconda, però, non

. J. S, Raging with compassion. Pastoral responses to the problem of evil,

 Luciano Sandrin

può precedere il primo. Una teodicea intellettuale inopportuna rischia di silenziare la voce di chi soffre e allontanarlo da Dio, tra- sformandosi in una fuga dal suo dolore. Ma anche l’eliminazione della riflessione, e un passaggio “im–mediato” alla pratica, crea il sospetto che si vogliano eludere le domande “scomode”, impeden- do l’apertura, la ricerca e l’offerta di significati che possono aiutare a vivere diversamente l’esperienza del soffrire. La sofferenza è un’e-

Nel documento Sofferenza e suicidio (pagine 131-147)