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LA COMMEDIA, LA TRAGEDIA E IL RISO: UN PERCORSO STORICO Tanto Il revisore quanto Morte accidentale di un anarchico sono

SUL CONFINE DEL TRAGICO

5.1. LA COMMEDIA, LA TRAGEDIA E IL RISO: UN PERCORSO STORICO Tanto Il revisore quanto Morte accidentale di un anarchico sono

stati tradizionalmente presentati e recepiti come due testi comici: due commedie, se non due farse. Ad una lettura più approfondita, tuttavia, entrambi i testi mostrano di non poter rientrare strettamente nelle categorie utilizzate da Aristotele e invalse nella critica letteraria fino a tempi molto recenti, in quanto essi tendono ad utilizzare anche risorse di altri generi. Si può anticipare fin d’ora che il Revisore tende a un finale tragico, pur derivando da un andamento di tipo farsesco; mentre Morte accidentale di un anarchico sembrerebbe teso a inserire un intermezzo comico tra un inizio e un finale resi assolutamente tragici dalla presenza della morte.

Riguardo alle definizioni dei diversi generi letterari, Northrop Frye ha affermato che la critica non si è più mossa dalle categorie definite da Aristotele.1 Questa tesi stride con l’affermazione di nuovi generi nel corso del tempo, a partire da quelli prodotti dalla cultura del carnevale fino a giungere al dramma romantico, che poteva presentare un esito lieto o tragico, ma che comunque rompeva l’unità di spazio e tempo e azione prescritta dal filosofo greco. Né possiamo tacere della nascita di due generi – il melodramma “borghese” e il vaudeville – che hanno avuto grande fortuna in tutta Europa e che, soprattutto il secondo, hanno certamente influito sulla genesi dell’opera gogoliana.

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Che un’opera rientri difficilmente nelle definizioni canoniche ereditate dall’antichità classica non deve per di sé apparire troppo strano. Oltre che all’opera di Aristofane, si può pensare alla Divina Commedia: Dante chiamò la sua opera Commedia perché aveva un lieto fine, ma Boccaccio, che aveva conosciuto anche l’estetica platonica, la quale riservava l’argomento divino alla sola tragedia, aggiunse l’aggettivo divina, dando luogo ad una sorta di ossimoro.

La differenza parte appunto da Aristotele, che attribuiva alla commedia il compito di operare la mimesi dei cattivi esempi di condotta, mentre alla tragedia sarebbe spettato di additare dei grandi esempi: “E questa è appunto la differenza onde anche si distinguono tragedia e commedia: ché l’una tende a rappresentare personaggi peggiori, l’altra migliori degli uomini di oggi”.2 Da questa attenzione verso la condotta “degli uomini peggiori” deriva anche la definizione del riso, che è stata oggetto di riflessione a partire dal saggio di Henri Bergson Il riso e in seguito per tutto il corso del XX secolo.

Aristotele nella sua Poetica aveva identificato il riso come una prerogativa della natura umana, prerogativa che si rivelava di fronte alla visione della deformità: “La commedia è, come dissi, imitazione di persone più volgari dell’ordinario; non però volgari di qualsivoglia specie di bruttezza [o fisica o morale], bensì [di quella sola specie che è il ridicolo: perché] il ridicolo è una partizione speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa come di sbagliato e di deforme, senza essere però cagione di dolore e di danno”.3 Rispetto ad Aristotele, Bergson ha spostato l’attenzione sul

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Aristotele, Opere: Retorica, Poetica. Laterza, Roma-Bari 1988, voll. 10, p. 196.

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potenziale comico inerente alla stessa natura umana: non solo l’uomo “sa” ridere, ma anche “fa” ridere.4

Rispetto ad Aristotele, inoltre, Bergson individuò un risvolto tragico nella comicità. Un risvolto tragico che si annidava proprio nella rappresentazione della quotidianità e della realtà ordinaria, che secondo il filosofo greco non nascondeva doppi significati:

Esso (comico) non appartiene né completamente all’arte, né completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci d’assistere alle loro vicende come a spettacolo visto dall’alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perché ci danno la commedia. Ma d’altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l’abbiamo noi stessi; vi è sempre l’intenzione non confessata esteriormente; perché la commedia è molto più vicina del dramma alla vita reale. […] Proprio nelle sue forme inferiori, nel vaudeville e nella farsa, la commedia è tagliata sulla vita reale: vi sono scene della vita reale le quali potrebbe appropriarsi senza cambiarvi una parola.5

Quindi, la drammaticità della commedia, secondo le parole di Bergson, si trova proprio nella rappresentazione della quotidianità e dell’uomo comune con i suoi difetti. Questo sembra lo stesso significato che hanno cercato sia Gogol’ sia Fo nella rappresentazione di scene apparentemente solo comiche. Dopo la rappresentazione del Revisore, Gogol’ ammise la grande responsabilità dello scrittore comico: “Tutti gli altri generi dipendono dal giudizio di pochi, solo un autore comico si sottopone al giudizio comune; ogni spettatore ha il diritto di criticarlo,

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Bergson, H., Il riso. Laterza, Bari-Roma 1994, p. 4.

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persone di qualunque grado diventano giudici”.6 Così i drammaturghi si sottoponevano allo stesso giudizio critico ai quali sottoponevano i propri personaggi. Da qui la grande sensibilità di Gogol’ verso la critica letteraria: “Chi decide di mostrare i lati ridicoli agli altri, deve ragionevolmente accettare che gli vengano indicati i suoi stessi lati deboli e ridicoli”.7

L’interesse per l’imperfezione umana è condiviso da Fo, che anzi lo ritiene il punto di partenza del suo teatro: “Mi è sempre piaciuto far conoscere al prossimo un certo tipo di umorismo anticonformista, magari violento, magari pieno di errori, ma capace di essere amato e capito. Caino era l’uomo, l’altro era il santo. E io amavo più l’uomo imperfetto, con le sue rabbie e i suoi dolori, che non Abele, saggio e infallibile. E questa simpatia per l’uomo con i suoi difetti è la chiave del mio teatro”.8

Oggi la definizione della commedia come opposto della tragedia è stata superata da diverse correnti critiche, che hanno preferito spostare l’attenzione sulla commedia in se stessa e come tale.9

Il percorso storico di entrambi i generi, in effetti, ha dimostrato che delle mescolanze sono occorse nella forma e nel contenuto: una commedia può benissimo contenere elementi tragici, come avveniva già nelle opere di Aristofane. Per quanto riguarda la nostra analisi, riprenderò in questo capitolo gli elementi studiati nei precedenti, per evincere quanto e in che modo il loro utilizzo è avvenuto in chiave comica o tragica. In altri termini, cercherò di evincere le dinamiche del riso per come viene suscitato nei due testi. L’esame strutturale, tra l’altro, anticiperà lo studio della messinscena mejerchol’diana

6 Gogol’, N., All’uscita da teatro dopo la rappresentazione di una nuova commedia, in ID, Opere. Mondadori, Milano 1996, voll. II, p. 652.

7 Ibidem.

8 Fo, Dario Missionario eversore. “Panorama”, dicembre 1962, in Dario Fo: Fabulazzo.

Kaos, Milano 1992, p. 21.

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del Revisore, alla quale si è tradizionalmente attribuito il merito di aver trasformato quella commedia in una tragedia, mentre, come vedremo tra poco, elementi tragici erano ben presenti nel testo gogoliano.