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Compact , istituzione e limiti dell’autorità

Nel documento John Locke, Due trattati sul governo (pagine 49-52)

Negato il carattere rappresentativo della figura di Adamo, negli ultimi tre capitoli del First Treatise, Locke solleva un’ulteriore im- portante questione lasciata aperta dalla teoria politica del suo av- versario: se l’istituzione del potere politico è di origine divina, la trasmissione del potere riveste lo stesso carattere di sacralità e la linea di successione non può e non deve essere alterata (cfr. I, 107). Se, come pretende Filmer, la Bibbia può servire da fonda- mento del potere politico, vi si deve poter trovare una risposta a questa domanda, perché non basta dire che esiste un erede legit- timo, se non si è in grado di mostrare chi sia, di indicare in modo chiaro chi abbia titolo a rivestire la sovranità.

Sebbene la soggezione al governo sia dovere di ognuno, tuttavia, poiché essa non significa altro che la sottomissio- ne alla direzione e alle leggi degli uomini che hanno autori- tà per comandare, ciò non è sufficiente per rendere suddi- to un uomo, e per convincerlo che c’è un potere regale nel mondo. Deve esserci il modo per designare e conoscere la persona cui questo potere regale appartiene. Un uomo, in- fatti, non può essere obbligato in coscienza a sottometter- –––––––

che in Inghilterra. A simili preoccupazioni aveva dato voce la traduzione dell’opera di Jurieu Last Efforts, pubblicata ad opera di W. Vaughan nel 1682. Cfr. J. Marshall, John Locke, Toleration and Early Enlightenment Culture, Cam- bridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 46-54.

102 Cfr. K. Shimokawa, Locke’s Concept of Justice, in P. R. Anstey (a c. di), The Philosophy of John Locke, cit., p. 78.

si ad alcun potere a meno che non possa essere soddisfatta la sua richiesta di sapere chi è la persona che ha diritto a esercitare quel po- tere su di lui. Se non fosse così, non ci sarebbe distinzione tra pirati e prìncipi legittimi: chi ha la forza deve senz’alcun altro indugio essere obbedito, e le corone e gli scettri diverrebbero eredità solo della violen- za e della rapina. Gli uomini potrebbero cambiare i loro go- verni con altrettanta frequenza e facilità del loro medico, se non si potesse conoscere la persona che ha il diritto di governare e le cui prescrizioni si è tenuti a seguire. Per porre, dunque, le coscienze degli uomini sotto un obbligo d’obbedienza, è necessario non solo che essi sappiano che c’è un potere da qualche parte nel mondo, ma anche che conoscano la persona che per diritto è investita di questo potere su di loro (I, 81)103.

Le difficoltà che Filmer incontra dimostrano che non è possi- bile individuare una base scritturistica dell’autorità politica e con- ducono ad un paradosso: la conquista, l’usurpazione, il potere de facto sono titoli sufficienti per l’esercizio del potere politico. Fil- mer non ha categorie e strumenti concettuali per distinguere po- tere legittimo e potere illegittimo. Gli è per questo preclusa la possibilità di convincere delle ragioni per cui gli uomini si do- vrebbero sentire in coscienza obbligati a obbedire allo stato104. Se

l’autorità sovrana è, comunque, assoluta, arbitraria e illimitata, non c’è modo di denunciare l’esercizio di un potere illegittimo, non c’è un diritto al quale si possa fare appello per resistere a chi ingiustamente esercita il potere: se a governare è solo la paura, non c’è via d’uscita dalla schiavitù. Nei governi dispotici, dove a governare è la paura, in realtà, si è ancora all’interno dello stato di natura o meglio all’interno di quella forma degenerata dello stato di natura che è lo stato di guerra. Per Locke, a differenza che per Hobbes, il dispotismo non è una forma di potere politico (cfr. II, 90, 91).

Rimanendo legato a una nozione privatistica e patrimonialisti- ca del potere, Filmer non si pone il problema di come ricondurre una molteplicità di volontà individuali a riconoscersi in un’unica volontà sovrana, ed è questo il motivo per cui sottovaluta l’importanza della soluzione contrattualista hobbesiana. La que- –––––––

103 Corsivo mio.

104 Sull’importanza di questo tema nel I trattato sul governo, cfr. C. D. Tar-

stione hobbesiana dell’autorizzazione è, invece, chiaramente pre- sente nella filosofia politica di Locke dove il tema della rappresen- tazione sembra giocare un ruolo centrale, anche se mai chiara- mente esplicitato105: la persona che si riconosce come autorità, come

titolare di un diritto all’esercizio del potere politico è la persona pubblica (publick Person) che a ciò è stata autorizzata attraverso un patto, ad essa si deve obbedienza nella misura in cui agisce se- condo la volontà pubblica e non secondo la sua volontà privata (cfr. II, 151). A differenza che in Hobbes, tuttavia, in Locke il carattere del potere politico non è indifferente rispetto alla sua origine artificiale: se il potere è il risultato della convergenza di volontà individuali, se esso deve poter contare su un’obbedienza in coscienza di coloro su cui viene esercitato, non può essere un potere sovrano assoluto, illimitato e illimitabile. La provenienza della legge dall’autorità istituita è condizione necessaria ma non sufficiente perché possa considerarsi giusta, il diritto infatti non può ridursi alla pura volontà sovrana. Oltre alla correttezza for- male e procedurale conta un criterio di correttezza sostanziale, relativo alla sua conformità alla legge di natura. Le legge non può essere semplicemente recepita: l’invocazione della coscienza come istanza che non può essere ignorata segnala l’avanzare di una cri- tica dissolvente nei confronti della sovranità come monopolio della verità, del “discorso di verità sul bene (la salvezza e la so- pravvivenza) dei governati”106. A segnare la distanza tra il modello

contrattualista hobbesiano e quello lockeiano sono, però, soprat- tutto le loro divergenti premesse antropologiche. Con Locke non siamo più in presenza di un soggetto indisciplinato, spinto –––––––

105 Su questo punto, cfr. D. Costantini, La passione per la solitudine. Una Lettu- ra del Secondo Trattato sul Governo di John Locke, Padova, Il poligrafo, 2003, pp.

51-52.

106 L. Jaume, La liberté et la loi. Les origines philosophiques du libéralisme, Paris,

Fayard, 2000, p. 74. Jaume ricorda come nelle opere maggiori di Hobbes sia riscontrabile un tentativo di “ridurre l’impatto e la concorrenza di legittimità che poteva costituira la coscienza, il concetto di coscienza”: non solo la legge umana non può obbligare la coscienza, accontentandosi di un’adesione esterio- re, ma si assiste ad una più generale strategia di riduzione e svalutazione del ruolo e del significato della coscienza (cfr. ibidem, pp. 75-79). Questo tema è ripreso da M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 48. Il lavoro di Merlo rico- struisce il ruolo fondamentale del tema della coscienza in Locke dai giovanili

dall’immediatezza del bisogno e delle passioni, perso in una mol- titudine che non può trasformarsi in popolo se non attraverso l’atto rappresentativo del sovrano. La possibilità di immaginare un ordine sociale che precede l’ordine politico, ed è dotato di una propria interna normatività anche in assenza della coazione so- vrana, è legata in Locke all’immagine di un soggetto che – come emerge soprattutto dal Saggio sull’intelletto umano e dai Pensieri sul- l’educazione – è capace di rimandare la soddisfazione dei propri desideri, è educabile all’uso della ragione, autodisciplinato e sensi- bile al biasimo e alla lode altrui107.

Nel documento John Locke, Due trattati sul governo (pagine 49-52)