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monarchico di Adamo

Nel documento John Locke, Due trattati sul governo (pagine 124-200)

78. Sir Robert, che non ha avuto molta fortuna con nessuna delle prove prodotte a sostegno della sovranità di Adamo, non è molto più fortunato relativamente alla trasmissione di questa so- vranità ai prìncipi futuri, che, se la sua politica dice il vero, devo- no tutti il loro titolo a quel primo monarca. I modi in cui, secon- do il nostro A., avviene tale trasmissione li esporrò con le sue stesse parole, dal momento che si trovano sparsi qua e là ne suoi scritti. Nella prefazione ci dice che “Poiché Adamo era monarca di tutto il mondo, nessuno dei suoi discendenti aveva alcun diritto di possedere alcunché, se non per sua concessione, per suo per- messo, o per successione da lui”. Qui stabilisce due modi di tra- smissione di ciò di cui Adamo era in possesso: la successione e la concessione. Di nuovo dice: “Tutti i re sono, o devono essere ritenuti, gli eredi prossimi di quei primi progenitori, che furono all’inizio i genitori naturali di tutto il popolo” (p. 19). “Non ci può essere alcuna moltitudine di uomini, che, in sé considerata, non abbia tra sé un uomo che per natura ha diritto a essere re di tutti gli altri, in quanto successivo erede di Adamo” (O., p. 253). In questi passi l’eredità è il solo modo di trasmissione del potere monarchico ai prìncipi che egli ammetta. In altri luoghi sostiene: “Tutto il potere sulla terra o è derivato o usurpato dal potere pa- terno” (O., p. 155), “Tutti i re esistenti, o che sono mai esistiti, sono o sono stati o padri dei loro popoli o eredi di tali padri o usurpatori del diritto di tali padri” (O. p. 253). E qui stabilisce l’eredità o l’usurpazione quali unici modi in cui i re entrano in possesso di questo potere originario. Eppure, ci dice: “Questo impero paterno, in quanto era ereditario, altrettanto era alienabile per privilegio, e appropriabile per usurpazione” (O. 190). Qui, dunque, la trasmissione può avvenire per eredità, concessione o usurpazione. Per ultima, e più incredibile cosa, afferma (p. 100): “Non importa in che modo i re ottengono il loro potere, se per elezione, donazione, successione, o qualsiasi altro mezzo, perché è sempre il fatto di governare per mezzo del potere supremo che

li rende propriamente re, e non i mezzi con cui hanno ottenuto la corona”. Il che, credo, è una risposta completa alla sua intera ipo- tesi, e al suo intero discorso circa l’autorità reale di Adamo, quale fonte dalla quale tutti i prìncipi devono derivare la loro sovranità. Avrebbe potuto risparmiarsi il disturbo di parlare, in lungo e in largo, di eredi e di eredità, se, per rendere qualcuno “propriamen- te re”, non è necessario altro che il governare con potere supre- mo, e non importa con quali mezzi se n’è entrati in possesso.

79. In questa singolare maniera, il nostro A. potrebbe fare di Oliver1, come di chiunque altro gli venisse in mente, un re vero e

proprio. Se avesse avuto la fortuna di vivere sotto il governo di Masaniello non avrebbe potuto astenersi dal prestargli omaggio, con un “O re, vivi in eterno!”, dal momento che il modo in cui esercitava il suo governo, con potere supremo, rendeva un re ve- ro e proprio lui che il giorno prima non era altro che un pescato- re. Se Don Chisciotte avesse insegnato al suo scudiero a governa- re con autorità suprema, il nostro A. sarebbe stato senz’altro il suddito più fedele dell’isola di Sancio Pancia. Ed egli avrebbe do- vuto meritare un qualche privilegio in un tale governo, giacché credo sia il primo politico che, volendo porre il governo su fon- damenta vere, e stabilire il trono di prìncipi legittimi, abbia detto che al mondo è re vero e proprio chiunque governi con potere supremo, quali che siano i mezzi con i quali ha ottenuto quel po- tere; il che in parole povere significa che il potere regale e supre- mo appartiene in senso vero e proprio a colui che viene a impos- sessarsene non importa con quali mezzi. Se questo è propriamen- te un re, mi domando come è potuto arrivare a concepire un u- surpatore, o come possa trovarne uno.

80. Questa dottrina è così strana e ha suscitato in me una tale sorpresa da indurmi a tralasciare, e a non trattare con la dovuta considerazione, le contraddizioni nelle quali incorre quando indi- ca i modi attraverso i quali l’autorità regale di Adamo, ovvero il suo diritto al potere supremo, potrebbe essere stata trasmessa ai re e ai governanti successivi, così da dare loro un titolo all’obbedienza e alla soggezione del popolo: talvolta la sola eredi- tà, talvolta l’eredità e la concessione, talvolta la sola eredità o –––––––

l’usurpazione, talvolta tutti e tre questi princìpi insieme, e infine anche l’elezione o qualsiasi altro mezzo che possa essere aggiunto ad essi. Queste contraddizioni, d’altra parte, sono talmente palesi che la sola lettura delle parole stesse del nostro A. le rivelerà a ogni comune intelletto. Sebbene quello che ho citato da lui (in abbondanza e con maggiore coerenza di quanta non possa essere trovata in lui) possa scusare che io non m’impegni ulteriormente in questa discussione, tuttavia, poiché mi sono proposto di esa- minare le parti principali della sua dottrina, prenderò in conside- razione in maggiore dettaglio come l’eredità, la concessione e l’usurpazione o l’elezione possano in alcun modo costituire un governo nel mondo sulla base dei suoi princìpi, o procurare a chiunque un diritto d’impero, ricavato da questa autorità regale d’Adamo, se fosse sufficientemente provato che egli è stato mo- narca assoluto e signore della terra intera.

81. Sebbene non sia mai stato pacifico che al mondo debba es- serci un governo, se anche tutti gli uomini dovessero essere dell’avviso del nostro A., secondo il quale il decreto divino ha vo- luto che fosse monarchico, tuttavia poiché gli uomini non posso- no obbedire a chi non può comandare, e idee di governo imma- ginate, sebbene mai così perfette, e così giuste, non possono pre- scrivere leggi, né regole alle azioni degli uomini; ciò non sarebbe di nessun vantaggio alla costituzione dell’ordine, e alla creazione del governo nel suo esercizio e uso tra gli uomini, a meno che non fosse indicato anche un modo per conoscere la persona cui spetti avere tale potere e esercitare tale dominio sugli altri. È vano allora parlare di soggezione e di obbedienza se non ci viene detto a chi si deve obbedire. Infatti fossi io pure perfettamente persua- so che debba esserci un magistrato e un governo nel mondo, ri- marrei tuttavia ancora libero fino al momento in cui non appaia la persona che ha diritto alla mia obbedienza: se non ci sono segni per sapere chi è, e per poter distinguere colui che ha diritto a go- vernare sugli altri uomini, potrei essere io stesso, così come chiunque altro. Sebbene la soggezione al governo sia dovere di ognuno, tuttavia, poiché essa non significa altro che la sottomis- sione alla direzione e alle leggi degli uomini che hanno autorità per comandare, ciò non è sufficiente per rendere suddito un uo- mo, e per convincerlo che c’è un potere regale nel mondo. Deve esserci il modo per designare e conoscere la persona cui questo potere regale appartiene. Un uomo, infatti, non può essere obbli- gato in coscienza a sottomettersi ad alcun potere a meno che non possa essere soddisfatta la sua richiesta di sapere chi è la persona che ha diritto a esercitare quel potere su di lui. Se non fosse così, non ci sarebbe distinzione tra pirati e prìncipi legittimi: chi ha la forza deve senz’alcun altro indugio essere obbedito, e le corone e gli scettri diverrebbero eredità solo della violenza e della rapina. Gli uomini potrebbero cambiare i loro governi con altrettanta frequenza e facilità del loro medico, se non si potesse conoscere la persona che ha il diritto di governare e le cui prescrizioni si è tenuti a seguire. Per porre, dunque, le coscienze degli uomini sot-

to un obbligo d’obbedienza, è necessario non solo che essi sap- piano che c’è un potere da qualche parte nel mondo, ma anche che conoscano la persona che per diritto è investita di questo po- tere su di loro.

82. Quale successo abbia avuto il nostro A. nel suo tentativo di stabilire un potere monarchico assoluto, il lettore può giudicar- lo da quanto è stato già detto; ma anche se quella monarchia asso- luta fosse chiara come desidera il nostro A., e come io presumo non sia, tuttavia non potrebbe essere di alcuna utilità per il gover- no dell’umanità nel mondo attuale, a meno che egli non precisi due cose: primo, che questo potere di Adamo non doveva aver fine con lui, ma dopo la sua morte è stato trasmesso intatto a qualche altra persona, e così di seguito alla posterità; secondo, che i prìncipi e i governanti, adesso sulla terra, sono in possesso di questo potere di Adamo, ottenuto in base ad un legittimo titolo di trasmissione.

83. Se cade il primo punto, il potere d’Adamo, per quanto esso sia stato grande e certo, non significherà nulla per i governi e le società del mondo attuale; si dovrà quindi individuare qualche altra origine, diversa da questa d’Adamo, del potere di governo dei regimi politici, altrimenti non ci sarà nel mondo alcun potere. Se cade il secondo punto, distruggerà l’autorità dei governanti attuali, e libererà il popolo dalla soggezione, poiché i governanti non possono avere alcun titolo a governarlo, se non hanno alcun diritto più degli altri a quel potere, che solo è fonte d’ogni autori- tà.

84. Dopo aver fantasticato sulla sovranità assoluta di Adamo, il nostro A. menziona i diversi modi in cui essa dovette essere trasmessa ai prìncipi, che ne sarebbero stati i successori; ma quel- lo su cui principalmente insiste è l’eredità, che ricorre spesso in svariati suoi discorsi. Avendo nel capitolo precedente citato vari di questi passi, non sarà necessario che li ripeta qui. Questa so- vranità egli la erige, come si è detto, su un duplice fondamento: la proprietà e la paternità. Uno è il diritto che Adamo si supponeva avesse su tutte le creature, un diritto di possedere la terra con gli animali e gli altri ordini inferiori di cose per il proprio uso privato, esclusi tutti gli altri uomini. L’altro è il diritto che si supponeva

Adamo avesse di dominare e governare tutti gli uomini, tutto il resto dell’umanità.

85. Poiché questi diritti suppongono l’esclusione di tutti gli al- tri uomini, entrambi devono essere fondati su qualche ragione particolare relativa a Adamo. Il nostro A. suppone che il diritto di proprietà sorga dalla donazione diretta di Dio (Genesi I, 28) e quello di paternità dall’atto del procreare. Ora, in ogni eredità, l’erede, se non succede in base al motivo su cui si fondava il dirit- to del padre, non può ereditare il diritto che da esso derivava. Per esempio, ammettiamo pure che, come ci dice il nostro A., Adamo ebbe un diritto di proprietà sulle creature, sulla base della dona- zione e concessione di Dio onnipotente, che era signore e pro- prietario di tutte loro; alla sua morte il suo erede non poteva avere alcun titolo su quelle creature, non poteva avere alcun diritto di proprietà, a meno che la stessa ragione, ovvero la donazione di Dio, non assegnasse un diritto anche all’erede di Adamo. Se A- damo non poteva avere la proprietà e l’uso delle creature senza questa donazione positiva di Dio, e questa donazione era solo personale di Adamo, il suo erede non aveva diritto ad essa, e, do- po la sua morte, essa doveva tornare a Dio, di nuovo signore e proprietario: le concessioni positive infatti non danno un titolo più ampio di quello trasmesso attraverso le parole espresse con le quali è conferito. Dunque, se come il nostro A. stesso sostiene, quella donazione (Genesi I, 28) fu fatta solo a Adamo personal- mente, il suo erede non poteva ereditare la sua proprietà sulle cre- ature; se essa, invece, era una donazione rivolta ad altri oltre che a Adamo, lasciate che si dimostri che era rivolta al suo erede, nel senso che vuole il nostro A.: ovvero a uno solo dei suoi figli, con l’esclusione di tutti gli altri.

86. Per non seguire il nostro A. troppo lontano fuori strada, tuttavia, questo è chiaro del caso: Dio, dopo aver creato l’uomo, e piantato in lui, come in tutti gli altri animali, un forte desiderio d’autoconservazione, e riempito il mondo di cose che potevano essere utilizzate come cibo e vestiario e per le altre necessità della vita, coerentemente con il suo disegno che vivesse e dimorasse per un po’ di tempo sulla faccia della terra, e che quest’opera così curiosa e meravigliosa, per sua negligenza, o per mancanza del necessario, non dovesse perire dopo pochi attimi di vita; Dio, di-

co, dopo aver così fatto l’uomo e il mondo, gli parlò, ovvero si rivolse ai suoi sensi e alla sua ragione, così come si rivolse al sen- so e all’istinto degli animali, utili alla sussistenza dell’uomo e a lui offerti come mezzo per la sua preservazione. Dunque, non dubito che prima che queste parole fossero pronunciate (Genesi I, 28, 29) (se si deve ritenere letteralmente che siano state pronunciate) e senza tale donazione verbale, l’uomo aveva diritto a far uso di quelle creature, per volontà e concessione di Dio. Essendo stato impiantato in lui da Dio stesso, quale principio d’azione, il deside- rio, il forte desiderio di conservare la sua vita e il suo essere, la ragione, che è la voce di Dio in lui, non poteva che insegnargli e assicurargli che, seguendo quella naturale inclinazione che gli det- tava di preservare il suo essere, egli seguiva la volontà del suo cre- atore, e quindi aveva diritto a fare uso di quelle creature che pote- va scoprire utili a tal fine grazie alla ragione o ai sensi. La proprie- tà dell’uomo sulle creature, quindi, si fonda sul diritto che egli ha di fare uso delle cose che sono necessarie o utili al suo essere.

87. Questo, che è il motivo e il fondamento della proprietà di Adamo, dà lo stesso titolo, sulla base dello stesso fondamento, a tutti i suoi figli, non solo dopo la sua morte, ma in vita. Non è mai esistito alcun privilegio del suo erede sopra i suoi altri figli, che li potesse escludere da un uguale diritto di far uso delle crea- ture inferiori per una confortevole conservazione del loro essere, che è tutto il diritto di proprietà che l’uomo ha su di esse. La so- vranità d’Adamo costruita sulla proprietà, o su quello che il no- stro A. definisce dominio privato, dunque, risulta nulla. Tutti gli uomini hanno diritto alle creature in base allo stesso titolo di A- damo, ovvero in base al diritto che ognuno ha di prendersi cura di sé e di provvedere alla propria sussistenza: gli uomini dunque avevano un diritto in comune, i figli di Adamo in comune con lui. Ma se qualcuno comincia a rendere qualcosa di sua proprietà (il che come possa avvenire si mostrerà altrove1), quella cosa, quel

possesso, se egli non dispone altrimenti per mezzo della sua e- spressa volontà, va naturalmente in eredità ai suoi figli, ed essi hanno diritto a ereditarla e a possederla.

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88. Potrebbe essere ragionevole chiedersi come i figli vengano ad avere il diritto di possedere le proprietà dei loro genitori alla loro morte, e ad avere la precedenza rispetto a chiunque altro. Essendo proprietà personale dei genitori, quando questi muoio- no, senza trasferire di fatto il loro diritto a un altro, perché non ritorna di nuovo nel fondo comune del genere umano? Si rispon- derà probabilmente che il consenso comune dispone che essa va- da ai figli. La pratica consuetudinaria in effetti dispone proprio così, ma non si può dire che sia per comune consenso dell’umanità, perché quel consenso non è mai stato chiesto, né di fatto mai dato; se, d’altra parte, ciò è stato stabilito per consenso tacito, si tratterebbe non di un diritto naturale, ma di un diritto positivo dei figli a ereditare i beni dei genitori. Laddove la pratica sia universale, tuttavia, è ragionevole pensare che la sua causa sia naturale. Penso quindi che il fondamento di questo diritto sia il seguente. Il primo e più forte desiderio che Dio ha impiantato nell’uomo, e modellato nei princìpi stessi della sua natura, essen- do l’autoconservazione, quello è il fondamento del diritto sulle creature, per il sostentamento e l’uso particolare di ogni singola persona. Dio ha poi impiantato nell’uomo anche un forte deside- rio di propagare la propria specie e di continuare se stesso attra- verso la propria discendenza, e ciò dà ai figli un titolo per condi- videre la proprietà dei loro genitori, e un diritto a ereditare i loro possedimenti. Gli uomini non sono proprietari di ciò che possie- dono solo per se stessi, i loro figli hanno titolo a una parte di ciò, e hanno un certo diritto insieme ai genitori al possesso di quanto diverrà interamente loro quando la morte sottrarrà al possesso da parte dei genitori, ponendone fine all’uso che essi ne facevano, ciò che si chiama eredità. Poiché gli uomini sono tenuti in base a uno stesso obbligo a preservare tanto ciò che hanno generato quanto se stessi, la loro discendenza viene ad avere un diritto sui beni che essi possiedono. Che i figli abbiano un tale diritto è chia- ro dalle leggi di Dio; che gli uomini siano convinti che i figli ab- biano un tale diritto è evidente dalla legge della terra: entrambe queste leggi richiedono ai genitori di provvedere ai loro figli.

89. Nascendo deboli e incapaci di badare a se stessi, i figli se- condo il corso della natura hanno, per volere di Dio stesso, che ha così stabilito il corso della natura, un diritto a essere nutriti e mantenuti dai loro genitori, non un diritto alla mera sussistenza,

ma ai comodi e ai conforti della vita nella misura in cui le possibi- lità dei loro genitori lo consentono. Da qui deriva che, quando i genitori lasciano il mondo, e quindi la cura dovuta ai loro figli cessa, gli effetti di essa devono essere prolungati per quanto pos- sibile, e le provviste fatte in vita s’intendono destinate, come vuo- le la natura, ai figli, ai quali essi sono tenuti a provvedere anche dopo la morte. Anche quando i genitori morenti non abbiano dichiarato nulla al riguardo con parole esplicite, la natura stabili- sce la trasmissione della loro proprietà ai figli, che così vengono ad avere un titolo e un diritto naturale all’eredità dei beni dei loro padri, che non può invece pretendere di avere il resto dell’uma- nità.

90. Se non fosse per questo diritto a essere nutriti e mantenuti dai loro genitori, che Dio e la natura hanno assegnato ai figli, e al quale hanno obbligato, come a un dovere, i genitori, sarebbe ra- gionevole che il padre divenisse erede della proprietà del figlio, e fosse preferito nell’eredità al nipote. Al nonno, infatti, si deve un lungo conto di cure e spese steso per formare ed educare il figlio, che si potrebbe pensare giusto fosse ripagato. Poiché ciò è stato fatto in osservanza alla stessa legge, in base alla quale egli ha rice- vuto nutrimento ed educazione dai suoi genitori, questo conto, per l’educazione ricevuta dal padre, viene pagato da ogni uomo prendendosi cura dei suoi stessi figli e provvedendo a essi; viene pagato, dico, per quanto è richiesto in pagamento, con una varia- zione della proprietà, a meno che la necessità presente dei genito-

Nel documento John Locke, Due trattati sul governo (pagine 124-200)