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La competizione Lega-FI dalla nascita del governo Dini al referendum

Capitolo 1 – Il “sistema fluido”

7. La competizione Lega-FI dalla nascita del governo Dini al referendum

1.7.1 Le polemiche sul ribaltone

La fine del governo Berlusconi mise il Cavaliere in una condizione di gravissima difficoltà. L’opinione generale era che Berlusconi si trovasse a un passo dalla fine politica e imprenditoriale. Il leader del Polo non solo aveva deciso rinunciare alla guida dell’esecutivo: egli era sempre più messo sotto pressione dalle indagini giudiziarie; la Corte Costituzionale aveva sentenziato la necessità di ridurre il numero delle reti Fininvest; il suo impero finanziario era indebitato.

All’inizio del 1995 la situazione sembrò peggiorare. L’11 gennaio Berlusconi subì due duri colpi: da un lato Scalfaro conferì il mandato a Dini; dall’altro la Corte Costituzionale si pronunciò su ventidue richieste di referendum, accogliendone dodici e dando il proprio assenso a tre quesiti riguardanti la condizione del leader di Forza Italia di monopolista nel campo della tv privata185. L’insieme di difficoltà portò Forza Italia a commettere alcuni errori: su tutti quello citato in precedenza dell’astensione nei confronti di Dini. La Lega comprese che la situazione era propizia per dare un colpo definitivo al rivale che nel 1994 aveva occupato il terreno nel quale i leghisti si erano affermati a cavallo tra i due decenni e rilanciarsi come partito guida del centro, referente delle classi medie e imprenditoriali del nord.

La competizione tra Carroccio e Forza Italia fu condotta senza esclusone di colpi. La costante dell’azione politica di FI e editoriale della stampa vicina al Cavaliere fu la polemica contro il tradimento leghista. Bossi e il suo partito divennero bersaglio di una propaganda incentrata su accuse personali e politiche. Le reti Fininvest, Il Giornale e il quotidiano di AN Il Secolo d’Italia divennero una tribuna disponibile a pubblicare interviste e dichiarazioni dei dissidenti leghisti che erano rimasti fedeli al Polo. Il

185 Per un approfondimento sui referendum del 1995, dalla loro accettazione fino al voto vedi P.V.Uleri e R. Fedeli I referendum non piovono dal cielo: la consultazione referendaria di giugno, In M. Caciagli e D.I. Kertzer a cura di, Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 1996. Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 87-120.

113 principale contenuto di questa polemica fu quello in base al quale i parlamentari leghisti erano stati eletti con i voti di FI. Questa campagna puntava a legittimare la scelta di quei transfughi che avevano preferito rimanere fedeli a Berlusconi, mentre Bossi accusava il Cavaliere di essersi comprato il sostegno degli ex leghisti186. I numeri del transfughismo leghista a partire dal 1994 furono impressionanti; raramente si è assistito a un così continuo stillicidio di parlamentari da un gruppo durante tutta la storia repubblicana. A inizio legislatura il Carroccio disponeva di 117 deputati e 60 senatori, mentre alla fine della legislatura contava 71 deputati e 40 senatori: il gruppo leghista era abbandonato da più di un terzo dei suoi componenti orginari.

Tabella 14 Il fenomeno del fuoriuscitismo nella Lega Nord durante la XIII legislatura (1994-96)

Data FUORIUSCITI CAMERA FUORIUSCITI

SENATO

TOT. GRUPPO LEGA

(177 a aprile 1994)

Apr-Nov ‘94

12 (12 misto, 2 dimissioni) 2 (2 misto) 14 163

Dic. ‘94 5 (3 FE-LD, 1 CCD, 1 misto)

0 5 158

Gen ‘95 5 (4 FE-LD, 1 CCD) 14 (10 L.I.F., 2

CCD 2 misto)

19 139

Feb ‘95 14 (14 L.I.F.) 1 (1 L.I.F.) 15 124

Giu ‘95 1 (1 misto) 0 1 123

Lug ‘95 6 (5 FE-LD, 1 misto) 0 6 117

Mar ‘96 3 (3 misto) 3 (3 misto) 6 111

Totale 46 20 66 111

I fuoriusciti della Lega confluirono in due gruppi: i Federalisti e Liberaldemocratici (FE-LD), presenti solo alla Camera e la Lega Italiana Federalista(L.I.F.), inizialmente presente in tutti e due i rami del Parlamento e poi confluita nel gruppo FE-LD alla Camera. La scelta di non inglobare direttamente questi fuorusciti nei partiti del Polo serviva a presentare un gruppo competitivo alla Lega sui suoi temi principali; inoltre la presenza di un gruppo diverso da Forza Italia poteva essere anche un approdo per alcuni

186Bossi nel libro autobiografico del 1995 polemizzò contro i leghisti che avevano abbandonato il partito definendo i tanti abbandoni con la formula “La sarabanda delle termiti”. Vd. U. Bossi, Tutta la verità,

114 forzisti delusi dalla scarsa partecipazione interna nel movimento del Cavaliere187.I transfughi leghisti non puntarono a fare del gruppo l’embrione di un nuovo partito federalista, un dato confermato dalla mancata presentazione di proprie liste alle regionali del 1995.

La scelta di Bossi di sostenere un governo insieme al PDS suscitò molti malumori interni: come si nota dalla tabella il numero di defezioni toccò il suo apice tra dicembre e febbraio (24 deputati e 15 senatori), in concomitanza con la caduta del governo Berlusconi e la nascita dell’esecutivo Dini. Se il Cavaliere denunciava il tradimento di Bossi che aveva mancato di rispetto all’elettorato, quest’ultimo ribatteva che nella Costituzione vi è enunciato all’art.67 il divieto di mandato imperativo: quindi la scelta leghista di abbandonare la vecchia maggioranza era pienamente legittima. Nei primi mesi del ’95, un’altra parola chiave del linguaggio leghista, oltre a quella della governabilità, fu proprio Costituzione. Al fine di polemizzare con l’ex alleato, Bossi si fece paladino del parlamentarismo in opposizione alle velleità presidenziali di Berlusconi, fino ad arrivare a tessere l’elogio del Presidente delle Repubblica188

nei confronti del quale aveva usato aspre parole in precedenza; epiteti che tornò a ripetere una volta terminata l’esperienza del governo tecnico.

1.7.2 La divisioni della Lega e il Congresso di Febbraio

La strategia di Bossi originò la nascita di una opposizione interna, coagulata attorno a Roberto Maroni. L’ex ministro dell’Interno, pur avendo contribuito nell’anno precedente a alimentare le polemiche interne alla maggioranza, era contrario all’interruzione anticipata del governo Berlusconi. Maroni percorse una via rischiosa: a differenza di molti deputati che già in dicembre avevano abbandonato il partito, decise di rimanervi all’interno, per porsi alla guida di una corrente capace di ribaltare i rapporti di forza. Pressato dai malumori del gruppo, Bossi fu costretto a convocare un congresso straordinario che si tenne a Milano dall’11 al 13 febbraio 1995. Il rischio per Maroni derivava dalla conoscenza del destino in cui erano incappati tutti quei dirigenti della

187 Nel gruppo Federalisti-liberaldemocratici confluì una pattuglia di forzisti, inizialmente sotto la guida del liberale Costa. Sul tentativo di Forza Italia di esercitare un controllo sul gruppo FE-LD vedi M. Caccavalle, Il grande inganno. La banda del partito-azienda berlusconiano raccontata da un ex deputato

di Forza Italia, Milano, Kaos Edizioni, 1997, pp.109-110.

188 “Io mi sono convinto che Scalfaro è uno dei prodotti migliori del vecchio sistema, un uomo che nasce col rispetto delle regole iscritto nel Dna. Un politico che rispetta la Costituzione e l’esperienza mi ha insegnato ad apprezzare questa qualità” in U. Bossi op. cit, p.170.

115 Lega che nel passato si erano trovati in rotta di collisione con Bossi189. Il problema principale che la fronda interna aveva di fronte era la forte identificazione del partito e della sua base con il leader e fondatore. Bossi aveva da sempre gestito la Lega come una sua proprietà, accentrando il potere nelle sua mani e non dando spazio a una discussione democratica all’interno di un partito teoricamente strutturato come federazione di soggetti regionali. La posta in gioco era altissima: la guida di un partito in grado di competere per ottenere la maggioranza relativa nelle regioni settentrionali.

Il Congresso della Lega fu il redde rationem tra i bossiani, fautori del ribaltone e favorevoli al governo tecnico, e i maroniani, orientati verso la continuazione dell’alleanza col Polo. In vista del congresso fu annunciata una mozione di sfiducia nei confronti del segretario federale firmata da Negri (segretario della Lega Lombarda) e Maroni. Inizialmente sembrò addirittura che quest’ultimi stessero per spuntarla e alcuni resoconti giornalistici dipinsero un Bossi a un passo dalla sconfitta190. Nel congresso le sorti si ribaltarono: Bossi fu confermato segretario, Negri espulso e Maroni ridotto all’isolamento. In un primo momento Maroni annunciò le dimissioni dalle cariche che ricopriva nella Lega: egli rimase alcuni mesi in silenzio ma non mise in pratica quanto annunciato191. Curiosamente nemmeno Bossi lo cacciò. La vicenda della mancata espulsione di Maroni è un unicum nella storia leghista. Prima e dopo del ’95 gli esponenti a livello locale e nazionale che osavano porre in discussione l’operato del Senatur venivano isolati e estromessi dal partito. Maroni ebbe la capacità, una volta constatata l’impossibilità di fare passare la mozione di sfiducia, di trattare la propria resa, senza perciò essere cacciato da Bossi. La sua sopravvivenza politica si spiega con la maggiore capacità di mediazione del personaggio: inoltre così si spiegherebbe anche la subordinazione di Maroni rispetto al leader negli anni successivi. Maroni seppe mantenere un proprio spazio all’interno della Lega, pur non facendo parte del gruppo di collaboratori ristretto del leader. Una posizione dalla quale, in tempi recenti, ha potuto prendere possesso della segreteria con meno difficoltà di quelle che incontrò nel 1995. Bossi poté confermare la sua posizione alla guida della Lega e la fronda interna, che si palesò con una nuova emorragia di deputati, fu superata. La Lega era stata ridimensionata da una scissione che però aveva rafforzato la coesione in coloro che erano rimasti fedeli al leader storico. Inoltre essa era rinfrancata dalla convergenza con

189

Il caso più eclatante fu quello di Franco Castellazzi nel 1991. Simile sorte toccò nel 1994 a Miglio e al segretario veneto Rocchetta.

190 Per Bossi al congresso una mozione di sfiducia, Corriere della sera, 4 febbraio 1995, p.4 F. Merlo L’ultimo ruggito, Corriere della Sera, 10 febbraio 1995, pp.1-2.

191

116 gli altri partiti della nuova maggioranza che sosteneva Dini sul punto di volere rimandare lo scioglimento delle Camere. L’alleanza tra PDS e Lega, già sperimentata nel 1993 in numerosi consigli comunali e provinciali, fu sancita a livello nazionale dalla presenza del segretario D’Alema al Congresso, occasione in cui pronunciò la celebre frase, che in seguito gli fu rimproverata dai propri sostenitori, in cui defini la Lega come “una costola della sinistra”192

.

Bossi, superata la crisi interna, poté tornare a far valere il peso della Lega in Parlamento: contrariamente a quanto fece nel 1994 non pose però mai a rischio nella prima metà dell’anno la tenuta dell’esecutivo, con un sostegno costante a Dini e ai suoi provvedimenti. L’obiettivo divenne quello di estromettere dalla scena politica Berlusconi e Forza Italia attraverso l’approvazione della normativa anti-trust sulle proprietà televisive. Bossi, arringando il pubblico leghista, concluse il Congresso con un attacco alla Fininvest, definita come potenziale ”strumento di base per la ricostruzione di un vero e proprio partito fascista”193, una ragione che avrebbe dovuto spingere le istituzioni all’oscuramento di quelle reti televisive.

1.7.3 L’empasse di Forza Italia

La linea operativa di Forza Italia nei primi mesi del ’95 fu interamente incentrata sulla polemica sulla data delle elezioni anticipate. I bersagli di una polemica che a tratti divenne stucchevole e sgradita allo stesso elettorato berlusconiano furono i leghisti e il Presidente della Repubblica, accomunati dall’aver tradito la volontà popolare: i primi per aver posto fine ai patti stipulati alla vigilia delle elezioni del marzo precedente; il secondo per non aver tenuto fede alla promessa di sciogliere le Camere a marzo. Non mancarono poi polemiche contro la sinistra, che era diventata maggioranza dopo avere perso le elezioni; idem dicasi per la Procura di Milano, accusata di aver fatto cadere il governo con un golpe giudiziario.

Il 1995 fu un anno delicato sia per Forza Italia, sia per il suo corrispettivo aziendale, la Fininvest. La distinzione tra le due entità era stata labile, o addirittura inconsistente, nei primi mesi di vita del partito. La selezione delle candidature era stata condotta da alcuni dirigenti di Publitalia ’80 e solo a fine 1994 era stato annunciato il rientro in azienda da

192 G. Passalacqua, Il vento della Padania, Milano, A. Mondadori Editore, 2009, p.92. 193

117 parte di quei manager che avevano contribuito a dare vita a Forza Italia194. L’intreccio e la quasi identità tra partito e azienda aveva dato vita anche a episodi parossistici come quando in occasione delle europee del mese di giugno vennero spediti a tutti i partiti politici fax per la raccolta pubblicitaria nelle reti televisive e nei giornali del gruppo Fininvest su carta intestata Forza Italia, suscitando risentite polemiche195.

Nel gennaio 1995 le due entità erano in difficoltà notevoli: il partito navigava a vista e rimaneva fuori dalla possibilità di condizionare l’esecutivo. Inoltre a livello interno i modelli di riorganizzazione interna non venivano messi in pratica e l’insoddisfazione lievitava. La mancanza di personale locale rendeva poi FI esposta in vista della tornata di elezioni amministrative, previste per la primavera del 1995, mentre AN andava consolidandosi e in FI prendeva forma il timore di subire un sorpasso elettorale.

La situazione dell’azienda era parimenti preoccupante: l’indebitamento continuava ad essere elevato e all’orizzonte si manifestava il ridimensionamento dell’impero televisivo dopo la sentenza di incostituzionalità sulla Mammì. Inoltre la Corte Costituzionale aveva espresso parere favorevole su tutti e tre i referendum che riguardavano le reti Fininvest. I referendum su numero massimo di reti televisive concesse ai privati, interruzioni pubblicitarie durante la trasmissione dei film e introduzione di un limite massimo alla raccolta pubblicitaria rappresentavano agli occhi dell’opinione pubblica la volontà di rivincita dei partiti di sinistra nei confronti di Berlusconi, nella consapevolezza che quest’ultimo aveva potuto imporsi l’anno precedente grazie al sostegno partigiano e spregiudicato delle reti di sua proprietà. Queste iniziative referendarie vennero promosse da La Rete e dal PDS in tempi non sospetti: già nel 1993 si profilò questa possibilità. Tuttavia l’ingresso di Berlusconi in politica diede un accelerazione notevole a questa iniziativa. Infine Berlusconi e il suo impero erano ormai nel mirino delle indagini sulla corruzione e progressivamente anche il sospetto di legami con la mafia di alcuni esponenti di spicco come Dell’Utri andava prendendo forma compiuta.

Di fronte alle contemporanee avversità per il partito e l’azienda, Berlusconi dette la priorità a quest’ultima. Su questo piano l’attivismo dell’entourage berlusconiano nella prima metà dell’anno fu altissimo. La sopravvivenza della Fininvest divenne la priorità rispetto ai tentativi di affrontare la riorganizzazione interna di FI e il suo rapporto con i Club. Alcune battaglie erano certamente sia politiche sia aziendali: quella sulla par

194 E. Poli, Forza Italia: Strutture, leadership e radicamento territoriale, Bologna, Il Mulino, 2001. 195

118 condicio ad esempio fu condotta in nome di un ostruzionismo esasperato che indusse il governo a adottare un decreto-legge in materia, con il disegno di legge sul tema impantanato nelle aule parlamentari196. Questa prassi fu interrotta da una sentenza della Corte Costituzionale che, nel mese di maggio, concesse gli spot elettorali per la campagna referendaria, imprimendo una svolta decisiva a questa competizione197. Nel complesso, Berlusconi intavolò una trattativa coi partiti della maggioranza al fine di evitare il referendum e giungere a un compromesso soddisfacente per le parti. La trattativa sembrò portare ad un accordo, il c.d. “lodo Guarino”198

, con la cui approvazione si sarebbe evitato il ricorso al referendum: ma la Lega, all’epoca contraria a qualsiasi forma di trattativa con Berlusconi, lo bloccò.

La minor considerazione delle esigenze di Forza Italia portò a una sostanziale empasse nella vita interna di quest’ultima. A livello parlamentare, superata l’incertezza sul voto di fiducia, in poco tempo FI si pose all’opposizione e, pressando per il ritorno alle urne, cercò di mettere in difficoltà l’esecutivo, pur sapendo che così facendo rischiava di essere accostata a Rifondazione comunista. Nel corso dell’anno la richiesta di elezioni anticipate fu continua, con FI consapevole che su alcuni temi come par condicio e conflitto di interessi Rifondazione avrebbe potruto convergere temporaneamente sulle posizioni del governo. Ad accrescere le difficoltà contrbuì la sempre più forte spaccatura interna tra falchi e colombe. La rivalità tra Previti e Dotti, di carattere personale prima ancora che politico, vide il primo prevalere sul secondo, il quale però ebbe un ruolo importante durante le consultazioni per superare la crisi di governo. Da un punto di vista più generale, pur venendo anche Dotti dalla Fininvest, la sua posizione era più politica e meno legata all’azienda rispetto a quella di Previti. Probabilmente anche per questo motivo, Berlusconi durante tutto il 1995 dette maggior considerazione al capo dei falchi.

Nel frattempo emerse anche la questione dello statuto di Forza Italia. Al momento della nascita il movimento politico si dette un primo statuto, firmato da Berlusconi e quattro collaboratori il 18 gennaio 1994, costituito da 19 articoli, su un modello di partito classico, con una struttura fatta di un’assemblea dei soci, una presidenza e un collegio dei probiviri. Tuttavia già dalla sua adozione lo statuto fu commissariato: inizialmente per dare priorità alla campagna politica del 1994, poi per altre ragioni, sempre ritenute

196 G. Pasquino, Il governo di Lamberto Dini, in Politica in Italia, Edizione 1996, Bologna, Il Mulino, 1996, pp.165-66.

197 Politica in Italia Edizione 1996, Bologna, Il Mulino, 1996, p.18. 198

119 prioritarie rispetto alla definizione della struttura interna. La presenza di uno statuto non applicato alimentava malumori da parte di chi auspicava una maggiore democrazia interna. Le continue modifiche di modelli organizzativi, spesso enunciati mai poi non applicati, aumentavano la confusione. Lo statuto prevedeva l’esistenza di soci e nei mesi precedenti erano state raccolte adesioni tramite i club e i coupon, salvo poi constatare che Previti propugnava un modello di partito senza tessere199. Un discorso simile valse per la selezione dei candidati con Previti che prefigurava uno scenario di elezioni primarie ma con una prassi di cooptazione da parte del vertice, rivolta anche verso esponenti dell’ex pentapartito. Il clima politico del 1995 aveva infatti messo da parte le polemiche dell’anno precedente attorno alla dicotomia nuovo/riciclato e molti ex democristiani e socialisti iniziarono a essere attratti nel progetto berlusconiano. Mentre il gruppo parlamentare annaspava il partito stentava a darsi una precisa organizzazione. I cattivi risultati delle amministrative nel novembre 1994 avevano palesato l’inconsistenza della classe dirigente forzista a livello locale. La possibilità di fare ricorso ai Club per trasformarli in soggetti paragonabili alle locali sezioni di partito, ramificazioni capaci di produrre una classe dirigente anche per la ribalta locale, era rifiutata dai vertici del partito che si opponevano alla prospettiva della nascita di comitati elettorali personali. I Club erano nati come associazioni culturali e nell’anno precedente era stato loro richiesto di promuovere il manifesto-programma di Urbani e la candidatura di Berlusconi. Lo sforzo organizzativo dei Club era stato supportato in misura minima dal partito. Il movimento politico forniva i materiali per la campagna elettorali facendosi pagare una cifra relativamente alta: il Kit del presidente, cartella con materiale elettorale e gagdet, aveva un prezzo di un milione di lire200. Inoltre né dal partito, né dall’ANFI (Associazione Nazionale Club Forza Italia), venivano erogati contributi o donazioni ai club. L’adesione a Forza Italia era quindi più onerosa rispetto a quanto avveniva per i classici partiti di iscritti: la logica, apparentemente contraddittoria, mirava a rendere più forte il senso di appartenenza nella nuova formazione. L’alta cifra da pagare avvicinava al partito solo chi aveva realmente intenzione di aderirvi, mettendo una sorta di filtro in entrata.

In compenso ai club venivano richiesti requisiti minimi: il riconoscimento veniva concesso dall’ANFI, che durante la campagna elettorale non effettuò alcun vaglio delle

199

E. Poli, op. cit.;C. Golia Dentro Forza Italia. Organizzazione e militanza, Venezia, Marsilio, 1997. 200 E. Poli op. cit. Inoltre nei primi mesi del 1994 era stata anche prevista una raccolta di adesioni al Movimento Politico, da realizzarsi con la compilazione di un coupon pubblicato dal settimanale TV Sorrisi e Canzioni. Il costo dell’adesione era di 100.000 lire, vd. P. Pagani Forza Italia come è nato il

120 richieste, pressato piuttosto dalla volontà di fare apparire un numero grande per impressionare l’opinione pubblica. Superata la campagna elettorale nelle intenzioni del vertice del partito i Club avevano esaurito il loro compito. Al contrario gli attivisti