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La comunità cattolica di Čiprovci dalle origini alla fine del secolo XVI

I francescani e il cattolicesimo in Bulgaria fino al secolo XIX

3. La comunità cattolica di Čiprovci dalle origini alla fine del secolo XVI

Com’è stato già detto, la conversione forzata della popolazione del Regno di Bdin negli anni ’60 del XIV secolo ebbe vita breve e finì con il ritiro delle truppe ungheresi e il martirio dei cinque frati minori il 12 febbraio 1370. La massa dei bulgari tornò all’ortodossia orientale e dei due episcopati cattolici i documenti non riportano ulteriori notizie. Tuttavia non è da escludere che alcuni dei convertiti, specialmente tra gli ex eretici, bogomili e patareni, abbiano mantenuto la fedeltà alla Chiesa di Roma. Però la spiegazione del fatto che proprio nella seconda metà del XIV secolo nella zona dell’odierna Čiprovci, zona che apparteneva al Regno di Bdin, si sia affermata una comunità cattolica che, tra alti e bassi, sopravvisse nei secoli e rifiorì tra la fine del ’500 e il ’600, è da cercare altrove.

A partire dal XIII secolo nei territori della Bosnia, della Bulgaria e della Serbia iniziarono a stabilirsi dei minatori di lingua tedesca e di fede cattolica, venuti

29 Per una sintesi sul processo della conquista dei Balcani da parte dei turchi, ricca anche di molti dettagli non comunemente noti, si veda il già citato volume di Matanov e Michneva (1988).

dall’odierna Slovacchia e dalla Transilvania (Sibiu) e noti tra le popolazioni balcaniche come ‘sassoni’ (‘saxones’) o ‘sassi’: termine che con il tempo perse il suo carattere etnico e divenne la denominazione di una categoria professionale (minatori appunto) che aveva alcuni privilegi sociali, tra i quali il mantenimento della propria fede. C’è poco da dubitare che i ‘sassi’ fossero giunti anche nei territori della futura città di Čiprovci, dove le miniere d’argento erano conosciute fin dall’antichità. Abbiamo delle testimonianze che nel XVII secolo a Čiprovci ancora esisteva un quartiere detto ‘Dei sassoni’ 30. Durante l’occupazione ungherese del Regno di Bdin questi territori logicamente diventarono una delle basi solide dei francescani inviati a convertire i bulgari, come si evince dalle cronache. Il francescano Blasius Kleiner (†1785), per esempio, nella prima parte del suo Archivium Tripartitum Jnclyta Provinciae Bulgariae31, sotto l’anno 1371, racconta:

tempore Gregorii papae XI [1370-1378], icona thaumaturga Beatae Mariae Virginis solemni apparatu ad sacras aedes in monte penes Chyprovacium sumptibus non parvis extructas delata fuit 32.

Nella terza parte dello stesso Archivium Kleiner ripete questa informazione in modo un po’ diverso, aggiungendo che la desume da un “manuscriptum archivium Provinciae nostrae” e che l’icona è stata portata dal convento francescano di Olovo in Bosnia (anch’essa una città di minatori!) “per dictos 8. Frates Vicariae Bosnae”, gli stessi che furono inviati a convertire i bulgari (del Regno di Bdin) sotto Lodovico I. Kleiner ritiene che questi otto frati siano stati anche i fondatori “Custodiae, nunc vero Provin[ci]ae Bulgariae” 33, ma questo non è esatto: come abbiano già visto, l’esistenza di una Custodia Bulgariae presso la Vicaria francescana di Bosnia è testimoniata in un elenco redatto non oltre l’anno 1343; negli anni ’60-’70 i suddetti frati avrebbero, casomai, esteso le sue competenze anche nella zona in questione. Non possiamo essere del tutto certi nemmeno dell’esattezza delle indicazioni cronologiche di Kleiner 34. Tutto sommato, però,

30 “Est Chiprovatij pars Opidi, seu regio, quale etiam hodie appellatur regio Saxonum” – Relazione dell’arcivescovo P. Bogdan dell’a. 1667, Dokumenti: 237.

31 Su Blasius Kleiner e il suo Archivium Tripartitum, del quale ci sono pervenute per intero solo la I e la III parte (per la seconda v. Madjar 1999: XXVII), si veda la relazione di W. Stępniak-Minczewa nel presente volume. Ivi anche per la legenda della miracolosa icona della Madre di Dio che qui ci interessa.

32 Juez Gálvez 1997: 149; trad. bulgara Dujčev, Telbizov 1977: 136-137.

33 Madjar 1999: 84 (foto della p. 50 del ms) e p. 4 (trad. bulgara).

34 Subito dopo aver parlato del 1371 e della miracolosa icona mariana di Čiprovci, Kleiner racconta del già menzionato martirio dei frati francescani a Bdin, “nunc Vidin”, come se fosse successo nell’anno 1379, mentre si ritiene accertato che esso sia avvenuto nel 1370. Naturalmente, non essendoci giunto l’autografo, possiamo attribuire quest’errore (se di er-rore si tratta) al copista oppure alla fonte da Kleiner usata. Comunque sia, l’attenzione

molteplici indizi permettono di pensare che Čiprovci abbia avuto la sua definitiva affermazione come città e la consacrazione della chiesa cattolica dedicata a Santa Maria Madre di Dio (ora in rovine) tra gli anni 1367 e 1371.

Nel 1370, d’altro canto, in Bosnia si concludeva – con la definitiva affermazione al trono del bano e poi re Stefan Tvrtko I (1353-1391) – la guerra civile durata 17 anni. Tra gli oppositori di Tvrtko, stando al racconto di Mauro Orbini, erano “oltra modo impatienti Vladislav, Purchia [Parčia?] & Vuk figliuoli di Dabiscia [Dabiša], i quali tenevano gran paese al fiume Drina, & in Bosna, & in Vsora 35 […]” (Orbini 1601: 357). Con loro Tvrtko non fu molto clemente:

Et da lì a poco [bano Tvartko] prese il sudetto Vladislav Dabiscich, & suo fratello Vuk: a Vladislav fece trar fuora gli occhi, & Vuk incarcerò, con molti suoi seguaci. Purchia fuggì in Ungaria. Poi fatto l’essercito, ando contra Dabiscia figliuolo naturale, com’è detto, di Ninoslav suo zio; […] (Orbini 1601: 357).

Una lettura attenta dell’intero brano permette di capire, a parer mio, che Dabiša, citato come padre dei tre fratelli, non è da identificare con quel Dabiša, il cugino di Tvrtko, indicato come “figliuolo naturale, di Ninoslav suo zio” e, poco prima, come “Dabiscia figliuolo bastardo di Ninoslav fratello del Bano Stefano, ch’era Signore di Narente” (Orbini 1601: 357) 36, il quale nel 1391 succedette a Tvrtko e regnò con il nome di Stefan Dabiša († 8. IX. 1395). Tutte le fonti esistenti, compreso lo stemma genealogico che Orbini ha anteposto al capitolo dedicato alla Bosnia, concordano sul fatto che Stefan Dabiša non avesse figli maschi, perciò sua erede fu la moglie Jelena Gruba (1395-1398).

Questa spiegazione si è resa necessaria perché nelle cronache delle famiglie imparentate Pejačevič, Parčevič, Kneževič e Toma-Gionovič (che, assieme ai Soimirovič, appartenevano alla nobiltà ciprovacenese) e negli studi basati su queste cronache 37 si sostiene che tutti i loro capostipiti discendano dal re bosniaco Stefan Dabiša Kneževič 38 tramite suo figlio Parčia, detto anche lui Kneževič 39. Secondo Orbini, come si è visto, Parčia (“Purchia Dabiscich”, figlio di un nobile di nome Dabiša, ma non del futuro re della Bosnia) sarebbe fuggito nei tardi anni

nell’uso di testi del genere come fonti è d’obbligo; d’altronde, per una serie di fatti che qui ci interessano, non disponiamo di altre fonti.

35 Il banato di Usora, nella bassa pianura pannonica.

36 Il fiume Nerente/Nerertva scorre nell’attuale Herzegovina, abbastanza lontano dalla Dri-na e dal baDri-nato di Usora dove goverDri-navano i Dabišiči menzioDri-nati sopra.

37 Cf. Dermendžiev 1989 e Sotirov 1989 (il secondo autore dimostra un atteggiamento più critico nei confronti delle fonti leggendarie).

38 Il sopranome Kneževič, attribuito a Stefan Dabiša, che sarebbe stato “acquisito per via del titolo principesco del padre, il principe [knez] Ninoslav” (Dermendžiev 1989: 101) non è noto da altre fonti; inoltre, come si è appena cercato di spiegare, i nostri Dabišiči non discendono dalla famiglia del bano Ninoslav.

’60 in Ungheria, mentre secondo le cronache appena menzionate sarebbe giunto in Bulgaria e avrebbe avuto dallo zar Ivan Aleksandăr il permesso di costruirsi in vicinanza del Regno di Bdin un castello che sarebbe alle origini dell’o¬dierna città bulgara di Kneža 40 (Cnese in una mappa del 1737; Dermendžiev 1989: 101-102) e lì avrebbe cresciuto i suoi due figli Nikola e Andrea. Dopo la battaglia di Kosovo pole (Campo dei merli, 15. VI. 1389) i Parčevič avrebbero perso il loro feudo a Kneža e Nikola I Parčevič si sarebbe trasferito a Chiprovaz/Čiprovci (Dermendžiev 1989: 102), unendosi alla locale comunità cattolica, che si trovava all’interno o ai confini dei possedimenti dei boiari Soimiroviči (un’altra famiglia cattolica la cui genealogia non è abbastanza chiara ma della quale sono state ugualmente ipotizzate origini bosniache). È fuor di dubbio solo una cosa: che molti dei protagonisti dell’attività cattolica in Bulgaria nel ’600 furono originari di Čiprovci e appartenevano o alle famiglie il cui capostipite fu Nikola Parčevič, o a quella dei Soimirovič (si pensi all’arcivescovo Francesco Soimirovič). Con una celebre eccezione: fra Petar Bogdan Bakšič, il primo arcivescovo di Serdica-Sofia, le cui origini forse affondano in un’altra ondata migratoria proveniente dall’Albania.

Dopo la caduta di Tărnovo (1393) e di Bdin (1396) nelle mani dei turchi, il figlio di Nikola I Parčevič, Petăr († 1423), avrebbe aiutato Costantino, il figlio di Ivan Sracimir, nel suo tentativo di riconquistare il regno del padre e poi sarebbe fuggito assieme a lui in Serbia, a Prisren. Il figlio di Petar, Nikola II Parčevič, avrebbe preso parte alle campagne del re d’Ungheria Sigismondo I (1387-1437, dal 1433 imperatore del Sacro Romano Impero) contro i turchi e dopo il loro fallimento si sarebbe rifugiato tra il Montenegro e l’Albania dove verso la metà del XV secolo sarebbe nato suo figlio Joan (Gioni) Parčevič 41. Nel frattempo gli eredi dei Soimirovič si erano rifugiati a Dubrovnik (Ragusa).

Sulla sorte di Čiprovci tra la fine del XIV e la fine del XVI secolo le informazioni sono scarsissime. Si sa di certo che la città dipendeva direttamente dal sultano ovvero da sua moglie, sempre a causa delle miniere d’argento, e che grazie a questo ebbe un’autonomia amministrativa piuttosto insolita per i territori bulgari conquistati dai turchi. Verso la fine del XV secolo, dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e la conquista definitiva di Serbia, Bosnia e Albania, la situazione nei Balcani, ormai completamente in mano turca, venne a stabilizzarsi e questo permise ai discendenti delle vecchie famiglie čiprovacensi di tornare nei loro possedimenti, di rinnovare la città e di estendere la comunità cattolica anche nelle cittadine circostanti: Kopilovci (Copilovaz), Železna (Xelesna) e Klisura. A questo processo parteciparono di nuovo i frati minori. Da due relazioni dell’arcivescovo Petăr Bogdan (del 1663 e del 1670) sappiamo, per esempio, che tra gli anni 1493 e 1497 furono dipinte le icone della chiesa di S. Maria a Čiprovci

40 Kneža è situata a 20 km a sud del Danubio, quasi a metà strada tra Tărnovo e Bdin/Vidin (a 120 km da Vidin, a 135 da Tărnovo in linea d’aria).

41 L’intera ricostruzione è basata sullo studio di Dermendžiev (1989) che a sua volta si basa sugli archivi della famiglia Parčevič (v. sopra).

e di S. Antonio Abate a Železna e che “pictor fuit quidam fr. Mattheus Ordinis minorum de Observantia Provintiae Ragusinae” (Dokumenti: 170).

Nel corso del XVI secolo il reddito delle miniere iniziava a scarseggiare e la nascente borghesia čiprovacense si orientò al commercio e alla manifattura (fino ad oggi sono celebri i tappeti di Čiprovci), assicurando alla città una relativa prosperità. Accanto alle tradizionali famiglie nobili dei Parčeviči, Pejačeviči, Kneževiči, Gioni e Soimiroviči, diventano sempre più importanti per le sorti della città le nuove famiglie borghesi degli Jugoviči, Markaniči, Marinovi ed altre. Tutti costoro erano di fede cattolica, mantenuta pur nella convivenza con gli ortodossi, alcune abitudini dei quali si erano diffuse anche tra i cattolici. Quando, per esempio, l’arcivescovo di Antivari, Ambrogio, dopo il Concilio di Trento, durante una visita della Bulgaria e della Serbia si fermò a Čiprovci (nel 1565), trovò il parroco locale Joan Jugović sposato (Fermendžin 1887: 1, n. I).

Comunque sia, la comunità cattolica čiprovacense esisteva e, com’è stato già detto, si era estesa nei territori circostanti. Nei secoli XV-XVI appunto a Kopilovci e a Klisura sarebbero giunti alcuni cattolici albanesi (in alcune fonti definiti come ‘epirioti’) che verso la metà del XVII secolo contavano circa duemila persone ed erano ormai slavizzati. E sempre nel XVI secolo s’iniziò a studiare la possibilità di allargare la base del cattolicesimo nei territori bulgari tramite la conversione dei cosiddetti pauliciani, eredi di antiche tradizioni dualistiche. Di una prima ricognizione in tal senso fu incaricato nel 1581 il francescano Girolamo Arsengo, il quale doveva approfondire le notizie, giunte a Roma, che lungo il Danubio, tra Nikopol e Russe, vi fossero dodici paesi di lingua bulgara la cui popolazione, pur mantenendo usanze eretiche, si riteneva appartenente alla Chiesa romana

42. Nella sua relazione fra Girolamo, bollando i pauliciani come ‘manichei’, è categorico nell’affermare che non c’è alcuna speranza di una loro conversione al cattolicesimo. La sua conclusione sarà presto smentita da altri francescani venuti dalla Bosnia e ricchi dell’esperienza di conversione dei patareni che, per dirla con padre Girolamo, sempre ‘manichei’ erano. La conversione di non pochi dei pauliciani bulgari, però, inizierà poco più tardi, quando a Čiprovci si stabilirà la prima missione francescana permanente.