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«A porre fine alla presenza degli ebrei nel paese fu dunque una conversione generale di proporzioni ineguagliate, e realizzata con un incredibile spiegamento di forze»110. Cecil Roth, portavoce di un punto di vista strettamente ebraico, pone dunque la differenza fra conversos spagnoli e cristãos-novos portoghesi nella capacità sostanziale di opporsi: mentre gli spagnoli sembrarono convertirsi più per una questione di convenienza e senza la reale minaccia di un pericolo immediato, giacché per loro la fuga fu una soluzione percorribile, in Portogallo pochissimi giunsero consenzienti al fonte battesimale, dato che le modalità di conversione di massa non lasciarono, di fatto, alcuna alternativa111. Secondo tale prospettiva,

mentre i nuovi cristiani spagnoli sparirono nel corso dei secoli, assimilandosi completamente alla vecchia compagine cattolica, in Portogallo questi soggetti permasero a lungo e divennero nella realtà dei fatti giudaizzanti, passando alla storia come marrani e offrendo all’Inquisizione un vasto campo d’azione.

Come si è potuto evidenziare, in Portogallo le circostanze furono notevolmente diverse che in Spagna. Al momento della cacciata l’inquisizione spagnola esisteva già, dunque fu relativamente agevole organizzarla e dirigerla verso una specifica categoria di eretici; in Portogallo invece la sua istituzione richiese molti anni, durante i quali il marranesimo poté radicarsi con estrema facilità.

Mentre il cripto-giudaismo proliferava nel paese, coloro che non reputavano sicuro o che semplicemente non accettavano di praticare in segreto in patria decisero di fuggire ugualmente, nonostante come baptizados-em-pé fossero ufficialmente autorizzati (per non dire obbligati) a restare: Europa Centrale, Africa, Balcani e Medio Oriente e Italia furono le principali destinazioni di questo flusso di esuli112.

110 Cecil Roth, Op. cit., p. 55. Chiaramente si pose fine alla presenza ufficiale degli ebrei nel paese, che

invece rimasero in larga parte come cripto-giudei.

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Inoltre fu un trattamento che fece poche distinzioni di sorta, né di ceto, né di età, né di prestigio, cultura o peso politico.

112 Lasciare il paese non fu comunque cosa semplice, dato che il Re vi si oppose strenuamente stabilendo

che i nuovi cristiani potevano imbarcarsi solo con una speciale licenza reale: «I nuovi cristiani furono costretti contro la propria volontà a vivere in mezzo a una popolazione estranea, che, già piena di odio e di disprezzo, era gelosa dei loro successi ed era costantemente aizzata contro di loro da un pulpito di un clero fanatico». Ibidem., p. 58

77 L’approdo italiano

Ripercorrendo dunque il processo di fondazione dell’Inquisizione portoghese, nata come riflesso dell’analogo tribunale spagnolo, e preparandosi a seguire il cammino che portò alla fuga dei giudaizzanti dalla Penisola Iberica, si è potuto tracciare, per quanto a grandi linee, il percorso storico che diede origine, già in patria, a quel fenomeno noto come criptogiudaismo iberico. Sono state illustrate le differenze sostanziali che intercorsero fra la direttrice spagnola, dove le prime persecuzioni e rivolte di massa si verificarono alla fine del XIV secolo, e la politica antiebraica portoghese, successiva al 1497, anno della prima conversione forzata ordinata da D. João II, dissomiglianze che dipesero dalla diversa reazione politica alla presenza ebraica nei due paesi. Si pensi solo ai quasi sessant’anni di distanza che trascorsero fra l’istituzione dell’Inquisizione in Spagna – nel 1478 – e la nascita ufficiale del Tribunal do Santo Ofício portoghese nel 1536, che peraltro entrò pienamente in funzione dopo un quinquennio. Tuttavia, se oggi la storiografia ha permesso di individuare e categorizzare due identità «socio-geografiche» ben distinte113, all’epoca dei fatti la confusione, anche

solo terminologica, tra converso, nuovo cristiano, giudaizzante, marrano, cripto-

giudeo, era pressoché totale, senza contare che, di prassi, nei documenti ufficiali

dei porti d’approdo il termine generico «hispano» stava a indicare individui di provenienza indifferentemente spagnola o portoghese.

Sebbene in apparenza sembri ovvio, è necessario in prima istanza fare una precisazione di carattere lessicale: a seconda dei contesti, alcuni termini venivano considerati equivalenti. Nel mondo cattolico dire converso o nuovo cristiano era analogo, come per il mondo ebraico era equivalente parlare di giudaizzante,

marrano o cripto-giudeo. Il problema nacque quando in Portogallo l’accezione cripto-giudeo diventò pretestuosamente sinonimo di nuovo cristiano, poiché si

intendeva deliberatamente dubitare della sincerità della conversione. I due contesti si mescolarono, dando adito di norma a spontanee sollevazioni di massa, in alcuni casi anche duramente punite dai governanti, e parallelamente a una precisa

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Oggi generalmente la storiografia ufficiale tende a identificare l'ebreo spagnolo non con il cosiddetto giudaizzante o marrano, ma piuttosto con colui che incorreva nel peccato di apostasia rinnegando in toto l'antica fede dei padri; egli in patria assumeva a tutti gli effetti una nuova identità, veniva battezzato per rinascere a nuova vita diventando un nuovo cristiano. Cfr. Renata Segre, Una comunità marrana, in Storia d'Italia – Annali. Gli Ebrei in Italia, vol. I, Einaudi, Torino, 2002.

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politica di persecuzioni e repressione. La questione del contesto è focale: per tutti gli ebrei esuli il Levante ottomano diventò una nuova patria putativa, ultimo bastione di speranza e di approdo, oltre che per la sua vicinanza al Medioriente, sostanzialmente perché la differenza fra cripto-judeo e cristão-novo non aveva ragione di essere, non avendo il battesimo alcun valore per le autorità musulmane. Al contrario, durante il soggiorno italiano, la differenza restò cruciale, e se la tradizione storiografica ha mutuato una tacita corrispondenza fra i binomi cripto-

judeo/cristão-novo e ebreo portoghese/ebreo spagnolo, è perché il riferimento nei

documenti ufficiali a non meglio specificati «portuguesi» stava a indicare necessariamente individui che avevano ricevuto il battesimo ma erano già informalmente rientrati nel giudaismo. È pur vero che anche negli stati italiani la mescolanza di genti aveva portato spesso a identificare il marrano con lo spagnolo tout court, identificazione probabilmente dovuta all’impiego diffuso di quel termine generico di cui riferivamo prima, «hispano» e al fatto che la lingua «pubblica» delle comunità sefardite trapiantate fuori dalla Penisola Iberica era il castigliano, anche per i portoghesi. Ma le comunità erano composte naturalmente da ebrei di provenienza mista, in larghissima misura portoghesi, tra cui alcune delle famiglie più influenti dell’epoca, che venivano chiamati «levantini», probabilmente poiché dopo l’esodo dalla Penisola Iberica e prima di approdare in Italia avevano trascorso diversi anni nel levante ottomano. Quale che fosse la provenienza, tuttavia, una volta approdati in terra italiana da Occidente o dal Levante, l’apertura, per non dire in molti casi disponibilità, dei governanti nei loro confronti e il collegamento all’arrivo con i nuclei di giudei preesistenti, permettevano a molti un lento e prudente ritorno all’ebraismo, potendo scegliere se dichiararsi apertamente ebrei oppure fingersi in un primo tempo nuovi cristiani per poi passare all’antica religione.

Scandagliando le fonti storiche, ci si accorge facilmente come in realtà spesso la confusione fra spagnoli e portoghesi fosse voluta, e si vedrà poi come la questione identitaria supererà gli originari confini geografici appigliandosi a ragioni di carattere prettamente religioso e culturale.

Durante l’arco dei quarant’anni successivi al 1492 si verificò dunque un lento ma costante esodo di sefarditi verso l’Italia, tendenza che si intensificò dopo l’istituzione dell’Inquisizione in Portogallo nel 1536. Generalmente, nel viaggio degli esuli la prima tappa era Anversa, città portuale all’ombra della corona

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spagnola e con accesso ai traffici di tutto il mondo, in particolare con le vecchie e nuove indie. Ad Anversa e da Anversa arrivavano e transitavano i più importanti scambi commerciali: spezie dall’Africa e dall’Asia (chiodo di garofano, noce moscata, pepe, cannella tra le più comuni, e poi caffè e tabacco), sale dalle saline di Setúbal e Cadice, argento dal Nuovo Continente, zucchero di canna dai Caraibi e dal Brasile, tessuti (specialmente lino e canapa) dalle provincie fiamminghe, lana dai Paesi Baschi e dall’Inghilterra, grano dalle regioni baltiche, e poi legname, carne, bestiame, armi, polvere da sparo e artiglieria pesante. Per il ricco e fuggiasco ebreo portoghese, tradizionalmente identificato con la figura del grande mercante internazionale, questa era senza dubbio la zona migliore dove trovare opportunità per i propri interessi, commerciali e religiosi114.

La questione religiosa restava però un problema: Anversa era una delle principali città dell’Impero, pullulante di guardie spagnole inviate direttamente da Carlo V a presidiare la strategica piazza. Non era certo un luogo dove vigesse la libertà di culto o la tolleranza verso gli eretici; anzi, secondo molte testimonianze anche qui era obbligatorio condurre una vita da cristiani, frequentando le chiese, prendendo i sacramenti e professando i riti ebraici in segreto.

Già a partire dagli anni trenta del Cinquecento fu Ancona a offrire un approdo ai sefarditi iberici provenienti dalle Fiandre o direttamente dalla Penisola Iberica. Il Papato aveva promosso una politica tollerante che aveva spinto varie compagini di turce, iudeii vel alii infideles a raggiungere il porto adriatico per ragioni di commercio e scambio. In realtà la situazione per lungo tempo non raggiunse una stabilità, a causa delle resistenze dei maggiorenti della città e dei mercanti dei centri vicini (fiorentini, lombardi, veneziani), fino al culmine raggiunto, dopo l’ascesa sul soglio pontificio di Paolo IV, con il terribile auto-da-fé celebrato nel 1556. L’aspirazione di fare della Toscana una potenza marittima indipendente e l’apertura di Papa Paolo III verso gli ebrei levantini115

avevano spinto anche i Medici, nel 1548, a invitare i sefarditi spagnoli e portoghesi a stanziarsi nelle loro terre, specialmente a Pisa e Livorno. Si tentò di realizzare il progetto in varie fasi, tutte senza successo, di nuovo a causa dell’ostilità di Paolo IV che portò al rogo del 1556. Cosimo dÈ Medici aveva offerto asilo a piccoli gruppi di famiglie sefardite portoghesi, specialmente alla casata degli Abravanel, poiché l’istitutrice

114 Cfr. l’analisi di António Carlos Carvalho in Op. cit., 1999.

115 È ormai storiograficamente accettato che le accezioni di levantini e portoghesi indicano lo stesso

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di sua moglie, Eleonora di Toledo, portava questo cognome. Insieme agli Abravanel anche i Mendes e gli Enriques frequentarono la corte medicea, «trattati come nobili et cittadini», con privilegi nei commerci e tutelati dall’Inquisizione116.

Dopo circa mezzo secolo, nel 1593, fu Ferdinando dÈ Medici a istituire la «Livornina», la maggiore colonia sefardita in Italia. Egli infatti era deciso a fare di Livorno un grande porto commerciale e a tale scopo invitò i mercanti ebrei portoghesi che costituivano un’importante classe di mercanti affermati in tutta Europa. L’espansione di Livorno fu fulminea e con la popolazione crebbe anche la comunità ebraica, costituendo il 20% circa della popolazione totale. Nel giro di mezzo secolo la città divenne un porto più importante di Venezia, Genova e Napoli, dove si scambiavano le merci provenienti dal Nord e dalle colonie con quelle provenienti dal Levante e dal Nordafrica117.

La comunità veneziana

Nel composito panorama degli Stati Italiani, tuttavia, il centro più favorevole dove coltivare i propri interessi commerciali, sia dalla madrepatria, sia dal primo rifugio di Anversa, fu la Serenissima Repubblica di Venezia, e questo per molteplici ragioni di convenienza politica ed economica118.

116 I documenti redatti da Cosimo non furono mai resi ufficiali; del testo originale (del 1548), affidato ai

portoghesi, non fu lasciata traccia nel suo archivio.

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Sulle comunità di Livorno e Ancona cfr. Jean Pierre Filippini, La Nazione Ebrea di Livorno, in Storia d'Italia – Annali. Gli Ebrei in Italia, vol. II – Ed. Einaudi, Torino, 1997; Giuseppe Laras, I marrani a Livorno e l’Inquisizione, in Livorno e il Mediterraneo. Atti del Convegno «Livorno e il Mediterraneo nell’età medicea», 23-25 settembre 1977, Livorno, 1978; Cristina Galasso, Alle origini di una comunità, Ebree ed ebrei a Livorno nel Seicento, Firenze, Leo Olschki, 2002; R. Segre, Nuovi Documenti sui marrani d’Ancona, in «Michael», IX, 1985

118 Per la trattazione di questa parte cfr. AA.VV., Venezia centro di mediazione tra oriente e occidente, secoli 15-16, aspetti e problemi. Atti del 2º Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana, Venezia, 3-6 ottobre 1973, Firenze, Olschki, 1977; Roberto Bonfil, Cultura e mistica a Venezia nel Cinquecento, in Gli Ebrei e Venezia (secoli XIV-XVIII), a cura di G. Cozzi, Milano, Comunita, 1987; Aaron di Leone Leoni, La presenza sefardita a Venezia intorno alla metà del Cinquecento. I libri e gli uomini, in La Rassegna Mensile di Israel, 2001, vol. 67, no 1-2; Brian Pullan, Ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, ed. Il Veltro, Roma, 1985; Giuliano Tamani, L’attività tipografica a Venezia fra il 1516 e il 1627, in Venezia ebraica, a cura di U. Fortis, Roma, 1982. Di Pier Cesare Ioly Zorattini cfr. Processi del S. Uffizio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti, Firenze, Leo Olschki Editore; Fra tre Inquisizioni: i Dias tra il Sant’Uffizio di Pisa, Milano e Venezia, in Continuità e discontinuità nella storia politica, economica e religiosa. Studi in onore di Aldo Stella, Vicenza, Neri Pozza, 1993 e Ebrei sefarditi, Marrani e Nuovi Cristiani a Venezia nel Cinquecento, in E andammo dove il vento ci spinse: la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, a cura di G. N. Zazzu, Genova, Marietti,1992

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In primo luogo, nel Cinquecento, la città rappresentava il principale polo di smistamento e passaggio di uomini e merci verso l’Oriente, piazzaforte con cui i marrani portoghesi avevano già acceso un contatto da tempo e che volevano rimanesse attivo. Inoltre, nel secolo di affermazione della stampa, Venezia rappresentava il più fiorente centro di editoria ebraica, non solo per il numero di pubblicazioni realizzate, ma anche e soprattutto per l’eccellente livello qualitativo raggiunto dalle varie tipografie attive, del fiammingo Daniel Bomberg, di Aldo Manuzio, dei Parenzo, padre e figlio. Considerando le sue strategiche prerogative in campo editoriale e l’attrattiva rappresentata per la meritata fama di ospitalità e tolleranza, che la distingueva già da due secoli, non a caso Venezia acquisì particolare rilievo fra i rifugi strategici nel processo di accoglienza e integrazione dei gruppi di sefarditi esuli in Italia. Non bisogna infine dimenticare, a corollario di questa cornice, già di per sé bastante a chiarire l’importanza del ruolo di Venezia nella «questione ebraica» nell’Europa del Cinquecento, che proprio in questo particolare frangente storico ebbe origine il termine con cui nei secoli a venire furono abitualmente chiamate le zone di reclusione degli ebrei fra le mura cittadine. Il «geto», foneticamente storpiato in «gheto» per l’origine askenazita – ossia dall’Europa Centrorientale – dei primi ebrei che vi trovarono posto, non era che un’area della città nel quartiere di Cannaregio in cui erano situate le fonderie, appunto «geti» in veneziano. Per cercare di contenere e organizzare la presenza ebraica in territorio cittadino il Senato della Serenissima aveva stabilito con un decreto del 1516 che gli ebrei di qualsiasi natione dovessero risiedervi tutti ed esercitare le proprie attività, e aveva denominato la zona circoscritta Gheto Novo (a cui si aggiungeranno il Gheto Vechio nel 1541 e il Gheto Novissimo nel 1633). Vi erano varie sinagoghe funzionanti concentrate nella zona ebraica, situate fra il Gheto Vechio e il Gheto Novo, chiamate Scholae e divise a seconda della provenienza e del rito seguito dalle rispettive comunità. All’inizio del Seicento, quando la situazione degli ebrei cominciava ad assumere dei tratti più o meno stabili, anche dal punto di vista della distribuzione territoriale, esse erano il fulcro della vita comunitaria dell’Ebraismo della diaspora. Ancora oggi a Venezia le maggiori e più imponenti sono sopravvissute, testimoni architettonici della varietà di genti e riti: la Schola Grande Tedesca per gli askenaziti, la Schola Italiana per gli ebrei veneziani, e le due magnifiche sinagoghe sefardite, la Schola Ponentina (o Spagnola) e la Schola Levantina poste l’una di fronte all’altra nel Gheto

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Vechio, la cui immagine esteriore voleva essere – e appare evidente, giacché si sono perfettamente conservate – lo specchio dell’importanza delle omonime comunità119.

Molti membri della prestigiosa e influente enclave sefardita erano discendenti di

conversos iberici, poiché alle generazioni post-esodo Venezia era sembrata il

luogo e l’occasione ideali per mettere in atto quel ritorno all’ebraismo atteso e preparato con tanta cura. Tuttavia occorre tenere presente che per gli ebrei portoghesi di stanza a Venezia il riferimento non era la Schola Ponentina, edificio culto dei fratelli spagnoli, bensì la Schola Levantina, tradizionalmente identificata con la comunità orientale, greca e turca. Come si è già accennato più indietro, certamente i portoghesi venivano accomunati agli ebrei orientali perchè molti di loro, prima di approdare in Italia, avevano trascorso alcuni anni nel Levante ottomano, con lo scopo di mantenere vivo e attivo il legame con l’Impero di Solimano. Ma vi era anche una ragione più strutturale, relativa alla naturale inclinazione delle enclave portoghesi, tradizionalmente più «nomadi» rispetto ai confratelli spagnoli, proprio per quelle caratteristiche socio-antropologiche messe in evidenza nel I capitolo.

Anche per quanto riguarda gli arrivi occorre fare un discorso distinto. Mentre «i ponentini» erano stati accolti a Venezia senza grosse difficoltà, tanto che già negli anni quaranta si poteva registrare la presenza di un discreto numero di spagnoli, un primo tentativo di afflusso negli stessi anni da parte di sefarditi portoghesi provenienti da Anversa era stato bloccato in nuce da un provvedimento direttissimo emanato dai Dogi. Il provvedimento aveva varie ragioni d’essere: essendo i portoghesi ricchi mercanti, si voleva evitare la concorrenza con i locali imprenditori patrizi. Inoltre vi erano troppi rischi di agevolare i legami fra i sefarditi e gli storici nemici ottomani, oltre alle possibili ritorsioni da parte dei governi iberici, impazienti di poter accusare Venezia di benevolenza verso eretici e apostati120. A quell’epoca appariva ancora più vantaggioso alla Serenissima

combinare affari con i marrani a distanza. Dunque, per quanto il dialogo con Venezia rimase aperto e pur se qualcuno riuscì a fermarsi, la maggior parte dei

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Riguardo alla Comunità Levantina, infatti, essa aveva avuto il suo battesimo ufficiale non prima del 1589, grazie alla Condotta ottenuta tramite la costanza e intraprendenza del marrano portoghese Daniel Rodrigues. Il documento aveva permesso ai marrani di presentarsi a Venezia come Ebrei e costituirsi ufficialmente nel ghetto come Comunità, Kahal Kadosh Talmud Torah. Cfr. Aaron di Leone Leoni, Op. cit., 2001.

120 Non si dimentichi il diverso status con cui spagnoli e portoghesi circolavano in Europa. I portoghesi

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sefarditi portoghesi decise, per il momento, di puntare sulla vicina Ferrara, dalla quale i marrani erano già da tempo corteggiati.

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Ferrara

Fu negli anni quaranta che si formò a Ferrara la più durevole, numerosa e fiorente comunità sefardita italiana del Cinquecento, comunità che per ragioni politiche e storiche, dagli inizi degli anni sessanta tornò definitivamente a puntare su Venezia. L’afflusso degli ebrei iberici nella capitale estense avvenne in due ondate: la prima, perlopiù di spagnoli e subito successiva all’esodo del 1492, fu accolta da Ercole I; la seconda invece vide la massiccia presenza di cristãos-novos portoghesi in arrivo a piccoli gruppi dalle Fiandre a partire dal 1538.

Fin dall’arrivo dei primi nuclei di esuli, successivo all’editto di espulsione promulgato dai Re Cattolici, gli ebrei spagnoli avevano potuto godere in città di un «trattamento speciale» fatto di Statuti e Privilegi distinti da quelli degli ebrei italiani. La loro posizione li esentava principalmente dalle restrizioni imposte agli ebrei locali in fatto di attività professionali: essi infatti non avevano l’obbligo di gestire banchi di prestito su pegno, l’unico mestiere concesso ai membri della comunità ebraica autoctona. Oltre a ragioni di interesse economico, vi erano cause di evidente convenienza politica nella scelta di Ferrara come approdo provvisorio: la città era un raro esempio di perfetta corte signorile, priva di un tessuto imprenditoriale ma ricca di botteghe artigiane, appetibile luogo di consumo per gente colta e benestante. Il Duca era consapevole che la città aveva esaurito il suo ruolo di avamposto militare e che doveva ora puntare sul suo futuro mercantile, promuovendo la nascita di manifatture e collegandola ai porti vicini. Ercole II fu un grande statista e mecenate, oltre che un abile mercante e amministratore. Poiché aveva particolarmente a cuore lo sviluppo commerciale del suo territorio, intraprese iniziative di grande impatto strategico, anche con la collaborazione dei mercanti ebrei portoghesi, spinto da un vero e proprio animo pionieristico e spirito di progresso, oltre che per il mero obiettivo economico.