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Gli effetti dell’Inquisizione portoghese: esuli in patria

Il sistema messo in atto dall’Inquisizione in Portogallo sembrò avere – e ci si chiede in che misura la strategia fu deliberata – un effetto paradossale: piuttosto che annientare l’eresia incrementò in maniera esponenziale il numero di sospetti di giudaismo. Le famiglie giudaizzanti si moltiplicarono, furono accusati di cripto-giudaismo e processati in contumacia anche coloro che, fuggiti da tempo, non si trovavano più nei confini del Paese. Bersaglio d’eccezione per gli Inquisitori erano i matrimoni misti, fra nuovi e vecchi cristiani, che secondo la visione cattolica corrompevano la fibra dei fedeli sinceri e che erano stato oggetto, negli anni, di una regolamentazione incostante da parte dei sovrani. In realtà, sotto un profilo puramente sociologico, la mescolanza fra le famiglie era prova e indice del grado di assimilazione delle due comunità, quella ebraica e quella cristiano- portoghese, una tendenza che nessun esame inquisitoriale voleva e poteva essere in grado di scorgere. Era impossibile proibire tali unioni: non si trattava, infatti, ufficialmente di matrimoni misti, giacché per la legge i futuri coniugi praticavano la medesima religione e l’unica possibile, quella cristiana. Non vendo la facoltà di abolire le unioni, gli Inquisitori pensarono di aggirare l’ostacolo giudicando i figli nati da matrimoni misti come giudaizzanti e in alcuni casi arrivando ad accusare persino i vecchi cristiani che si erano mescolati ai nuovi, esasperando a tal punto i malcapitati che arrivavano a confessare atti mai commessi.

Il fatto che il fenomeno fosse oggetto di una tale attenzione, oltre che della continua indecisione da parte dei governanti, era il segno tangibile di una tenace volontà discriminatoria, in grado di creare quella che Saraiva ha definito una vera e propria «fabbrica di Ebrei»; presto non fu più una questione semplicemente religiosa, e il discrimen si spostò progressivamente sulla «purezza di sangue». Al fine di permettere alla macchina inquisitoriale di continuare a funzionare, occorreva quindi sostituire alla categoria di «giudaizzante in atto» quella di «giudaizzante potenziale» o «sospetto», in modo da avere facoltà di giudizio sul maggior numero di persone possibile. Inoltre, assumere come indice di colpevolezza la purezza di sangue permetteva al meccanismo mistificatorio di

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funzionare senza intralcio, giacché la popolazione portoghese nei secoli si era mischiata a innumerevoli popolazioni e genti, come celti, mori, romani, fenici, oltre naturalmente ai semiti. In una tale mescolanza risultava difficile stabilire quale fosse veramente la «razza portoghese» e, nel caso dei supposti giudaizzanti, dove finisse il portoghese lasciando spazio al cristão-novo, ampliando ulteriormente il campo d’azione del tribunale inquisitoriale.

Ma vi era anche un altro canale per identificare inesorabilmente i nuovi cristiani, ossia il parametro economico-sociale: in numerosi documenti, sia di carattere amministrativo che di ambito letterario, si trova ampiamente utilizzata la definizione «gente da nação», nient’altro che un modo per indicare in questi individui mercanti e uomini d’affari, «homens de negócio». In questa prospettiva sarebbe possibile inquadrare la questione in termini diversi, più spiccatamente politico-sociali, vedendo il conflitto aperto sui due fronti come una sorta di «lotta fra classi» fra nobiltà e borghesia in piena ascesa.

Se è indubbio, infatti, che molti nobili avevano contratto matrimoni misti, «sporcando» pertanto il proprio sangue, è altrettanto vero che questi casi non solo rimasero in sordina, ma vennero definitivamente taciuti attraverso la pratica della «familiatura do Santo Oficio», ossia lo stratagemma che l’Inquisizione trovò per attirare l’aristocrazia dalla propria parte, permettendo ai nobili di assumere la carica di «familiares» e collaborare quindi all’organizzazione dei processi e delle condanne:

«o diploma de “familiar de Santo Oficio” era uma espécie de superatestado de limpeza de sangue e, concedendo-o aos nobres, a Inquisição fazia deles seus colaboradores e aliados. (...) Expressão visível e simbólica da situação real, que fazia dos nobres os perseguidores e dos burgueses os perseguidos»100.

Le fonti sono concordi nell’identificare come borghesi, ossia prevalentemente mercanti, amministratori, professionisti, intellettuali, la maggior parte dei condannati per giudaismo dall’Inquisizione. Infatti questi soggetti, oltre a non rispettare i principi evangelici secondo cui Dio aveva creato la povertà e la ricchezza come stati immutabili, non solo si erano arricchiti grazie alle proprie forze, ma nella Penisola Iberica erano per giunta ebrei, gli «assassini di Cristo», una maledizione perpetua e ben alimentata che provvedeva a tenere questo settore della società totalmente al di fuori della mentalità cristiana.

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A ben vedere, dunque, dopo secoli di pace e armonica commistione, l’ebreo in Portogallo acquisì per un quarantennio il doppio status di «esule in patria», sia sul piano religioso, costretto dal meccanismo perverso del baptismo em pé a vivere in una condizione di clandestinità spirituale, sia sul piano sociale, giacché il suo essere portatore di spinte innovatrici e progressiste, in vista della modernizzazione di un paese strutturalmente arcaico, fu a tal punto contrastato da potersi compiere solo al di fuori dei confini iberici.

Da «esuli in patria » a esuli autentici: mercanti e non solo

L’accezione di «nação portuguesa», riferita alla comunità locale dei mercanti ebrei portoghesi, fu utilizzata per la prima volta fuori dai confini iberici nel 1511, in un documento ufficiale dalla Municipalità di Anversa. In realtà, come si è visto, erano stati gli stessi ebrei portoghesi a darsi tale denominazione e in Portogallo si trovavano registrati in questo modo nei documenti già da tempo, pur con diverse varianti: «os da nação», «gente da nação», «homens de nação», «mercadores de nação». Preferivano utilizzare tale definizione in luogo di «portoghesi», dato che a quell’epoca, per un determinato lasso di tempo, in Europa «portoghese» divenne sinonimo di ebreo tout court, senza alcuna specifica menzione a un’attività fortemente connotativa di un tipo umano e sociale.

Per risalire a questo uso occorre partire da lontano. Il termine «nazione» ricorre già nell’Antico Testamento circa 500 volte, ma sempre in riferimento ad altri popoli, popoli stranieri, diversi dal popolo eletto. Anche nella Roma classica natio designava un gruppo di stranieri, che nello specifico caso dipendevano da uno statuto subordinato a quello che regolava i cittadini romani, così come nel Medioevo, quando i gruppi di stranieri accomunati da una stessa origine erano chiamati «nazioni», per esempio nelle Università. A partire dal secolo XIII invece il termine assunse un significato più ampio e filosofico, ossia cominciò a indicare la comunanza di opinione di una certa collettività, o l’insieme delle autorità di un’élite socio-politica o culturale. Secondo l’opinione di Gérard Nahon101,

l’insigne ebraista francese, l’uso dell’accezione «nação» da parte degli ebrei

101 Per la trattazione di questa parte cfr. gli studi di Gérard Nahon, in particolare G. Nahon, Les hebreux,

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portoghesi esiliati aveva un significato preciso, secondo cui le comunità si consideravano in qualche modo un «corpo ecclesiastico», con un potere esecutivo subordinato a quello legislativo e provvisto di strumenti amministrativi propri. Nel caso delle «Nações» sparse in Europa, esse erano molte ed estremamente disperse, ma ognuna disponeva di un proprio sistema istituzionale, dove le differenze locali erano strettamente rispettate, e dipendeva da una città-madre che fungeva da riferimento per qualsiasi problema o disputa, sia di carattere legale che dottrinario. Per contro, tali enclave possedevano anche importanti tratti comuni, che permettevano a coloro che si trasferivano di città in città (e accadeva spesso, come si vedrà più avanti) di sentirsi il meno possibile spaesati e poter fare riferimento a una rete attiva di collegamenti e aiuti. Le maggiori famiglie erano cosmopolite e questo semplificava notevolmente le difficoltà linguistiche.

Alcune precisazioni sono tuttavia opportune. Il semplice mercante del XVI-XVII secolo non sempre era un uomo ricco, anzi, spesso si trattava di individui completamente in balia degli scherzi della sorte. Coloro che, tra gli ebrei esuli, si rivelarono mercanti fruttuosi, in realtà erano anche molto altro, medici, rabbini, autori di fortunati testi esegetici, religiosi e filosofici. Di fatto la maestria o la predisposizione agli affari nacquero inizialmente come espediente per far fronte alla preclusione a un’infinità di mestieri e all’epoca mantenevano ancora quell’accezione che veniva direttamente dall’antichità classica: commerciare significava primariamente comunicare, e comunicare era essenziale per la sopravvivenza di questi gruppi. Non si dimentichi inoltre che le condizioni di continua precarietà in cui gli esuli erano costretti a vivere, anche solo territorialmente, costringeva questi individui a rendersi dipendenti solo da beni mobili e facilmente trasferibili. La pratica endogamica, oltre a essere un costume culturale e religioso che i giudaizzanti continuarono a praticare anche nella clandestinità, in un contesto così discontinuo, si prestava benissimo alla creazione di vere e proprie reti familiari di commerci e scambi102.

71 Un cammino identitario stravolto

Per quanto sia forse inopportuno parlare di una vera e propria ideologia della gente da Nação, a fronte di tale compagine socio-antropologica è lecito domandarsi se sia esistito un loro atteggiamento comune nei confronti del mondo, una mentalità che li abbia contraddistinti come gruppo in opposizione ad altri gruppi. Il primo dato che emerge, a un iniziale esame delle fonti, è una generale tendenza alla prudenza, di matrice spiccatamente mercantilista, così come alla ponderazione e al buon senso di fronte all’avventatezza e al fanatismo tipici dell’epoca. Secondo il parere di António José Saraiva103, tale inclinazione è

manifesta in alcuni testi seicenteschi di noti nuovi cristiani, come Duarte Gomes de Solis104 o Manuel Fernandes Vila Real105. Essi tentarono di diffondere l’idea

secondo cui uno dei principali danni dell’operato dell’Inquisizione era di natura economica, in quanto ostacolava la maggiore fonte di arricchimento per una società, ossia il commercio106.

Occorre tenere presente un altro aspetto fondamentale, correlato a questa tendenza al pragmatismo mercantilista: la questione etnico-sociologica e quella religiosa rappresentavano tendenzialmente due piani ben distinti e separati per la nuova borghesia nascente. Il prototipo del borghese-tipo è infatti sostanzialmente ateo o agnostico, perché arbiter fortunae suae, demiurgo del proprio destino, favorevole o avverso che sia. Il «portoghese de Nação», mercante e neo-borghese, che apparteneva pertanto a una casta molto potente e ricopriva incarichi ambiti e strategici, catalizzava in questo modo, da entrambi i fronti religiosi, invidie e risentimenti107

.

103

Cfr. A. J. Saraiva, Op. cit.

104 Mercante portoghese, nato fra il 1561 e il 1562 a Lisbona, assunse nell’esilio il nome di Jacob Aboab.

Per approfondimenti cfr. Dicionário do Judaismo Português, Lisboa, Editorial Presença, 2009 alla voce relativa.

105

Scrittore politico e diplomatico portoghese (1608-1652), accusato di pratiche giudaiche e bruciato dall’Inquisizione come impenitente. Cfr. Ibidem.

106 Anche Padre António Vieira, con il suo acume precursore dei tempi, sostenne la medesima

argomentazione a difesa dei cristãos-novos, distinguendo fra le due politiche economiche che un governo può abbracciare, quella del «rendimento dos tributos, que (...) além de ser violento, necessariamente mingua» e quella del commercio, che «a ninguém molesta e sempre vai em aumento». In Obras Escolhidas, vol. IV, «Razões apontadas para El-Rei D. João IV».

107 In Brasile, dove ugualmente molti cristãos-novos emigrarono, essi godettero al contrario di una tale

libertà che avrebbero potuto senza grandi impedimenti fondare comunità ebraiche attive e floride, cosa che non successe. A parte qualche caso isolato, si puó dire che non sia esistita una tradizione marrana in Brasile, sostanzialmente perché l’obiettivo di questi gruppi era un altro, di carattere economico e specialmente commerciale. Cfr. A. J. Saraiva, Op. cit.

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Il problema religioso, pertanto, si può inquadrare in altri termini, giacché, al di là della loro attitudine cosmopolita e tendenzialmente scettica, la conversione forzata e la conseguente persecuzione inquisitoriale avevano posto questi individui in una condizione di sospensione spirituale, come di attesa (da cui poi scaturì necessariamente l’aspirazione messianica di queso particolare frangente). Di fondo vi era un’esperienza traumatica, ossia la conversione forzata, che aveva cambiato le carte in gioco. Quell’esperienza rappresentava l’elemento catartico da cui scaturisce una cesura, un ante e un post, un non-ritorno, che mette un punto teoretico ed emotivo nella continuità storica dell’identità di un gruppo. A partire da quel momento, da un’identità omogenea nacquero identità molteplici e differenti, discontinue e difficilmente conciliabili.

Da una parte vi era quella minoranza che, sotto il velo della conversione, era rimasta fedele alla religione del gruppo natio di appartenenza, minoranza che, in patria, si era gradualmente estinta, o con la morte o con l’emigrazione. Al capo opposto si poneva chi era diventato un cristiano fanatico e intransigente, persecutore a sua volta degli antichi confratelli. Nel mezzo stava una grande massa di persone per le quali, a partire dal battesimo di massa, era iniziato un lungo percorso obbligato di inquietudine e instabilità spirituale, che avrebbe portato, di fatto, ad assumere un atteggiamento critico e dinamico, secondo due direttrici principali.

Coloro che, passando attraverso due fedi, quella ebraica e quella cristiana, avevano finito per disprezzare l’aspetto rituale proprio della dimensione religiosa, perché eccessivamente precario e mutevole, erano passati a ricercare un’esperienza spirituale più vera e personale, libera dall’artificio coattivo dell’esteriorità (come nei casi esemplari di alcuni noti mistici spagnoli, per esempio Santa Teresa, originaria di una famiglia conversa). Chi, ugualmente disilluso dalla fugacità dei riti, aveva fatto propria, anche sul piano religioso, quell’attitudine tendenzialmente scettica e sostanzialmente aporetica, tipica della neo-borghesia mercantile, aveva scelto di abbracciare la dottrina materialista averroista che definiva «impostori» i fondatori delle tre principali religioni monoteiste, tutte storicamente presenti nella Penisola Iberica. Vi è infine un altro elemento da prendere in considerazione, ossia l’effetto che ebbe l’azione del Sant’Uffizio nella progressiva mutazione identitaria dei cristãos-novos: «Até onde

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chegou e que efeitos teve o processo de dissimulação com que a Inquisição procurou inverter a assimilação, em curso, da antiga comunidade judaica?»108.

Esistono sono forti probabilità che, a fronte della minaccia inquisitoriale, le famiglie in odore di eresia (o perché avevano antenati ebrei, o perché avevano parenti passati sotto processo) tendessero a isolarsi, a non entrare in contatto con i vecchi cristiani, tra cui si annidavano innumerevoli potenziali accusatori, formando quindi dei nuclei chiusi e autoreferenziali, dove il seme del giudaismo poteva tornare a germogliare. La persistenza e la fisionomia di questi gruppi «occulti» variavano considerevolmente a seconda del contesto geografico e sociale in cui si formavano. Nelle città e negli agglomerati più popolosi, dove tutto è, per sua natura, mutevole e nulla riesce a essere davvero persistente, non c’era estremo bisogno di celarsi o isolarsi, poiché la dinamicità e la varietà di incontri e occasioni aiutavano a confondersi. Nei piccoli centri, al contrario, in cui peraltro la mentalità era connaturatamente meno incline alla mondanità borghese e dove era molto difficile sfuggire al controllo e agli sguardi indagatori dei vicini, si sviluppò e si radicò l’attitudine «marrana» che contraddistinse il cristão-novo iberico e che ancora oggi risulta difficile storicizzare.

Entrambi i gruppi, tuttavia, sia i cristãos-novos dei villaggi che quelli cittadini, si trovarono di colpo nella paradossale situazione del prigioniero potenziale, ossia di colui che, sebbene fuori dal carcere, ha puntato addosso lo sguardo indagatore dell’opinione pubblica, della politica, della religione, del popolo, dai quali è già stato preventivamente condannato. Tale status, che il marrano, o presunto tale, viveva quotidianamente, lo poneva su un piano differente da quello dell’uomo comune, gli consegnava una coscienza diversa del suo proprio cammino nella Storia, lo portava a problematizzare la propria realtà contingente: «a persistência do cristão-novo é um problema de relação e de situação, não um problema de substância congenital»109

.

È lecito chiedersi, allora, che genere di coscienza questi uomini acquisirono progressivamente. Se essi si resero conto della propria forza come borghesia nascente, come classe che aveva le carte per scalzare le vecchie oligarchie e sostituire ad esse una forza mutevole perché dinamica, progressista, aperta e propositiva. Oppure se riuscirono, contestualmente a quanto stava accadendo, a

108 Ibidem, p. 226

109 Ibidem, p. 229. Questo è ben evidente anche nella reazione giubilante del popolo alle atrocità degli

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inquadrare anche l’Inquisizione come portatrice di una palese contraddizione intrinseca, dove la persecuzione di un’intera classe sociale, minaccia sempre meno potenziale e sempre piú effettiva dello status quo, veniva beffardamente mascherata da redenzione o punizione di tante singole coscienze individuali. Quello che è certo, pur restando aperti tali interrogativi, è che in alcuni fortunati casi seppero sfruttare le potenzialità della propria condizione per portare a termine obiettivi altamente aleatori, riuscendo a conservare, perlomeno in nuce, anche la propria identità religiosa.

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