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Nel capitolo I si è già accennato all’importanza rivestita dalla scrittura e dal suo nuovo tramite rappresentato dal libro stampato all’interno della cultura ebraica. Durante il «soggiorno italiano» degli ebrei esuli, anche nelle piccole comunità l’attività tipografica fu uno dei principali canali di radicamento e circolazione di cultura. È indubbio il fatto che l'Italia fu una delle più fiorenti culle della produzione libraria ebraica in epoca rinascimentale, soprattutto grazie alla politica tollerante e avveduta di quegli stessi Stati liberali nel cui territorio odierno la ricerca documentaria registra la massiccia presenza di ebrei esuli di origine iberica. Fra i maggiori stanziamenti di opere e volumi prestigiosi, le raccolte più ricche risultano senza dubbio quelle di Mantova, Livorno e Venezia, giacché i fondi della biblioteca degli Este a Ferrara furono smembrati dopo l’annessione del Ducato allo Stato Pontificio, finendo in parte nella nuova capitale, Modena, in parte in altre importanti biblioteche italiane ed estere (o fondi privati) tramite acquisizioni posteriori.

Se le biblioteche e gli archivi locali raccolgono alcune centinaia di volumi di uso comune, principalmente di precettistica in lingua ebraica, è doveroso ricordare che gli esemplari più pregiati si concentrano invece in tre grandi strutture, la Biblioteca della Comunità ebraica di Mantova190

, oggi interamente confluita nella Biblioteca Comunale, la Biblioteca Casanatense di Roma e il fondo privato dell'Abate De Rossi a Parma, acquisito nel 1816 da Maria Luigia d'Austria e all’epoca annesso alla Biblioteca Ducale – oggi Palatina –, che annovera più di 1600 esemplari di manoscritti e circa 1500 testi a stampa di letteratura sacra ebraica, raccolti e catalogati con rara competenza191

.

MDLXVII», dedicato a Alessandro Farnese, Principe di Parma e Piacenza. Le ultime sue tracce furono a Costantinopoli nel biennio 1594-95. Cfr. Ibidem.

190A questo proposito, scrive Giulio Busi nell’Introduzione ai due volumi del catalogo da lui curato:

«Benché si possa valutare che le perdite corrispondano a circa un quarto del patrimonio originario, la collezione mantovana resta comunque la più ampia e preziosa biblioteca comunitaria conservata in Italia. Altre collezioni pubbliche italiane di libri ebraici si debbono, per la maggior parte, all'opera di ebraisti cristiani (come per esempio Giovanni Bernardo De Rossi a Parma), o all'attività di Istituzioni ecclesiastiche (per esempio il fondo ebraico della Casanatense di Roma), o ancora ad acquisizioni casuali che hanno seguito più il capriccio della storia che non un lucido progetto culturale: (..)». G. Busi, Libri ebraici a Mantova, Le edizioni del 16 secolo nella Biblioteca della comunità ebraica, Biblioteca Comunale di Mantova, Fiesole, Cadmo, 1996, p. 18.

191 Giovanni Bernardo De Rossi fu Professore di Lingue Orientali nella Facoltà Teologica dell'Università

133

Inoltre, per chiunque voglia affacciarsi al problema del censimento degli incunaboli e delle cinquecentine e seicentine ebraiche, esistono due strumenti indispensabili, il Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere192,

compilato dall’insigne orientalista parmense, e un catalogo intitolato Biblioteca

Española-Portugueza-Judaica, a opera di Meyer Kayserling, il rabbino e storico

tedesco che nella seconda metà dell’Ottocento rivolse la sua attenzione e i suoi studi alla storia culturale degli ebrei iberici. In tali preziosi inventari si trovano elencati, nome per nome, molti degli attori di questa particolare congiuntura storico-culturale. Si tratta, allo stesso tempo, di figure già note e di altri personaggi passati in sordina ma di importanza ugualmente cruciale, di cui si riescono a tracciare i trascorsi biografici, le principali opere, in ebraico e in altre lingue, le materie di interesse e le vicende storiche che li hanno visti partecipi, per scelta o loro malgrado. Per quanto riguarda in particolare l'ambito sefardita, il valore degli studi è ancora più manifesto se si pensa alla disastrosa dispersione di cui autori e libri furono vittime in seguito alla diaspora iberica.

Riguardo ai temi trattati in questo lavoro, una forte concentrazione di testi pubblicati dalla tipografia Usque emerge da ricerche svolte sia in Italia, nelle zone di massiccia presenza sefardita e nelle Biblioteche che conservano i maggiori fondi ebraici, sia presso alcuni grossi centri europei di conservazione bibliografica, soprattutto nel Regno Unito193. Si tratta in larga maggioranza di

opere in ebraico e in spagnolo, con la sola eccezione – dato rilevante ai fini di questa riflessione – delle tre opere in lingua portoghese già citate in precedenza. Non solo in Italia, dove gruppi di sefarditi iberici circolarono più o meno liberamente per circa un secolo, ma anche nelle maggiori raccolte straniere di libri ebraici non sembrano esservi tracce di altre fonti originali in lingua portoghese risalenti alla prima epoca moderna.

che di riflessione critica, sono ancora indispensabili per chiunque voglia approssimarsi alla disciplina e testimoniano, come afferma Giuliano Tamani: «(...) L'importanza e la vastità della sua produzione letteraria sia nel campo della critica sacra, dove la sua opera rimase definitiva, che in quello della bibliografia ebraica, di cui fu propriamente il fondatore e di cui rimane ancora oggi un maestro insostituibile, (...)». G. Tamani, Il carteggio De Rossi – Pezzana (1804-1829), in AP 52, 1968, pp. 59-91.

192 G. B. De Rossi, Dizionario Storico degli autori ebrei e delle loro opere – Sala Bolognese, A. Forni,

stampa 1978.

193

Si tenga conto che tra la fine del Settecento e i primi del Novecento vi fu una forte ripresa dell'interesse per la letteratura ebraica, soprattutto attraverso il collezionismo privato, di cui inglesi e americani furono i principali promotori; non a caso due dei quattro rarissimi esemplari ferraresi della Consolaçam si trovano negli Stati Uniti.

134 Una voce, molte voci: lingue

È ormai ampiamente dimostrato, come si è cercato di illustrare nel capitolo II, che le politiche portate avanti da Spagna e Portogallo, per quanto differenti in termini di tempi e modalità di espulsione, diedero origine tra il Quattrocento e il Cinquecento a un enorme e continuo flusso di profughi, pur mantenendo gli ebrei un diverso atteggiamento nei confronti dei provvedimenti dei due Stati, sempre in bilico fra abiura ed esilio. Ben presto una grande quantità di gente di provenienza iberica e identificata genericamente come hispana, non intenzionata a rinnegare l’antica fede dei padri, si vide costretta ad abbandonare definitivamente i propri territori per intraprendere un lungo viaggio attraverso l’Europa. Il tragitto degli ebrei fuoriusciti si articolò dunque secondo due direttrici, la prima dalle Fiandre a Costantinopoli, attraverso l'Italia – dove si distinsero vere e proprie «isole di accoglienza» – passando per i Balcani e Salonicco; l'altra invece sul versante meridionale del Mediterraneo, lungo la costa nordafricana fino in Egitto. Bloccati alle porte della Palestina, in entrambi i casi questi esuli rendevano evidente il proposito di assecondare una tensione naturale verso la propria identità geografica e culturale. In un simile quadro, è indubbio che il quotidiano progetto di trasmissione e conservazione delle proprie radici, perseguito entro i confini del Regno, era destinato ad andare in frantumi, ramificandosi con il passare degli anni nei piccoli nuclei di sopravvivenza sparsi per l’Europa.

Al pari di quanto accade con le ricostruzioni biografiche, risulta pertanto difficile seguire con meticolosità le tracce delle correnti di pensiero o dei centri di sviluppo preposti alla sopravvivenza della cultura di origine, che pure era promossa e custodita con pervicacia, in un disegno collettivo e trasversale di tacita comunanza d'intenti. Renata Segre, a proposito della comunità portoghese stanziatasi a Ferrara, mette bene in rilievo la difficoltà di ricostruzione delle tracce:

«(...) la variegata e generosa documentazione di cui disponiamo tende a concentrare un forte fascio di luce sulla punta emergente di un iceberg, la cui base rimane difficile da misurare e da conoscere; ci accade cioè di seguire con buona precisione le vicende personali dei Pinto, dei Pires, dei Mendes, dei Nunes, degli Enriques, dei Gomes, degli Zapaio e di un'altra decina di famiglie medie o preminenti; ma di molti altri incontriamo una sola volta o a tratti discontinui il semplice nome, senza ricostruirne il volto e la sorte; e anche delle loro attività sappiamo, in complesso, poco»194.

135

Per quanto riguarda l'Italia, dove lo Stato Pontificio, più o meno indirettamente, poneva un problema religioso pressante anche ai Principi liberali, le comunità presenti erano quasi sempre costrette a un regime di semi-clandestinità. Nonostante in questi nei territori gli esuli godessero di uno status protetto, la precarietà si trasformava in clandestinità vera e propria quando singole persone o piccoli gruppi erano costretti spostarsi da un territorio all'altro. Emblematico è il caso, riportato nel capitolo II, del primo trasferimento «di massa» dalle Fiandre all’Italia che vide partecipi anche le sorelle De Luna e il loro seguito. In generale, anche per gli spostamenti più brevi, si faceva ricorso ad espedienti di varia natura, primo fra tutti lo sfruttamento a proprio vantaggio di un'identità ambigua fatta di diversi nomi, diversi mestieri, diverse lingue, che allora come oggi va a sommarsi alla primitiva mescolanza creatasi con la fuga degli Spagnoli in Portogallo195.

Questa costituisce senza dubbio la prima causa della notevole disomogeneità linguistica che caratterizza il compendio delle opere riconducibili agli ebrei della diaspora iberica. Ci si trova di fronte ad opere scritte in ebraico, latino e volgare (spagnolo o portoghese che sia, anche se ci sono differenze non trascurabili, come si vedrà più avanti), spesso del medesimo autore o stampatore, il quale a sua volta è rintracciabile sotto più nomi, quello ebreo, quello cristiano (talvolta espresso in latino) e quello iberico. Per quanto riguarda in modo specifico le comunità portoghesi e le relative fonti documentali, la questione linguistica complica oltremodo il quadro, giacché nella «macro-comunità» sefardita iberica si era stabilito di utilizzare universalmente il castigliano, sia come segnale di riconoscimento tra i vari gruppi ebraici, sia per accorciare le distanze fisiche e politiche tra questi e il mondo cristiano.

La lingua rappresentava innegabilmente lo strumento principe di testimonianza per un popolo così duramente provato, dunque i diversi idiomi assumevano ruoli e pregnanza diversi; se l'ebraico (del quale era necessaria un’ampia opera di recupero) aveva il compito di conservare per i posteri la tradizione delle origini, il volgare spagnolo era una sorta di «lingua franca». La scelta del castigliano aveva infatti due obiettivi precipui: grazie al suo prestigio universalmente riconosciuto, poteva dare espressione alle capacità creative e artistiche e al tempo stesso permettere la pratica liturgica pubblica anche in terra straniera. Esso

195 Anche le sorelle De Luna, come molti altri personaggi della diaspora degli ebrei iberici, erano

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rappresentava insomma un veicolo unanime, della cui importanza sono esempio, oltre naturalmente alla famosissima Biblia Española edita a Ferrara nel 1553, le traduzioni in spagnolo dei Sonetti del Petrarca ad opera di Salomon Usque196 e

dell’anonimo Lybro de Oracyones de todo el año, un testo indispensabile per la pratica liturgica sinagogale e di cui non esiste versione portoghese a oggi censita197

. Come afferma Margherita Morreale a proposito della famosa Biblia

Española e dell’espressione «nuestra lengua española» presente nel colophon:

«lo spagnolo era considerato degno dei libri sacri anche dagli ebrei portoghesi sopraggiunti a Ferrara in una seconda più numerosa ondata, e in tale lingua l’Usque stampava la maggioranza dei suoi ventinove titoli»198.

L'uso della lingua portoghese non era abolito, ma le era riservato uno spazio più intimo e familiare, nella pratica religiosa orale o al massimo in ambiti tecnici relativi ai mestieri, un uso per suo carattere più resistente alla conservazione rispetto a quello collettivo-rituale o letterario. Sembra comprovata l’esistenza libri di preghiere a uso familiare in lingua portoghese199, ma si trattava probabilmente

di manoscritti, e se erano stampati la fattura non era tale da permettere la loro conservazione a lungo termine200.

Vi erano ovvie ragioni di opportunità politica nel mantenere un certo livello di confusione riguardo alla propria provenienza201, e anche ragioni di «praticità»

nella scelta di utilizzare lo spagnolo come lingua veicolare tra una comunità rimasta in Fiandra e una dislocata a migliaia di chilometri di distanza nei Balcani. Esisteva anche, per contro, il prepotente desiderio di mantenere vive le proprie radici tornando a insegnare la lingua ebraica alle nuove generazioni che non avevano potuto conoscerla, arrivando in parte a sacrificare quella «identità acquisita» che la secolare permanenza in Portogallo aveva permesso di costruire202. Tuttavia in Italia non era praticabile, come invece era nell’Impero

196 In realtà portoghese, come si è già evidenziato e come indica l’appellativo Salusque Lusitano, che lui

stesso utilizzava per firmare le sue opere.

197

A quanto stabiliscono il Dizionario del De Rossi e il catalogo di Kayserling e in mancanza di studi più recenti in grado di contraddirli.

198 M. Morreale, La “Bibbia di Ferrara” 450 anni dopo la sua pubblicazione – Roma, Accademia

Nazionale dei Lincei, 1994, p. 180.

199

Cfr. Muzzarelli, Op. cit.

200

Data la tradizionale identificazione del portoghese con il cripto-giudeo, è anche possibile che questi volumi di non grande pregio siano stati intenzionalmente distrutti.

201 Scrive Renata Segre: «Quell'identificazione tra spagnoli e portoghesi che per diversi anni i documenti

ufficiali estensi hanno postulato come scontata, era dunque un espediente politico, privo di rispondenza nella realtà: (...)», Op. cit., p. 834.

202 «Talvolta i portoghesi sono stati costretti a servirsi (...) di un tipo particolare di ebreo 'antiquo', il

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Ottomano, il ripristino dell’alfabeto ebraico (anche nell’uso del ladino), a causa dei continui arrivi di esuli che conoscevano solo spagnolo e portoghese. Dunque era necessario i testi base fossero subito accessibili e fruibili nei volgari iberici e in alfabeto latino. Come è stato ampiamente rilevato, i libri liturgici apparvero non in portoghese, ma in spagnolo; tuttavia, a parere di Yerushalmi, la spiegazione comune secondo cui lo spagnolo, al contrario del portoghese, era la lingua universale sia secolare che religiosa, è semplicistica. È un fatto che né la liturgia, né la Bibbia furono mai stampate in portoghese fino al XX sec. e se è vero che traduzioni portoghesi in manoscritto circolarono, per contro nel 1556 un giudaizzante portoghese che aveva voluto tradurre il Pentateuco e il Libro dei Giudici nella sua lingua fu bruciato sul rogo203. Tuttavia, secondo lo studioso:

«an extensive Jewish literature would be created in Portuguese (the Consolaçãm is its first monument)»204.

A quanto pare, dunque, gli ebrei portoghesi esuli decisero di riservare al tratto più evidente della loro identità, ossia la loro lingua, una sorta di luogo privilegiato, al di fuori dei canali convenzionali, affidandole un messaggio mistico e intimista allo stesso tempo e un ruolo di trait-d’union fra l’espressione ancestrale in ebraico e quella imprescindibile in castigliano. Sembra, in questa artificiosa operazione, di poter rintracciare i segni della criptoidentità che si era creata e di un'ambiguità volutamente creata e perseguita.

Se gli studi storici permettono di identificare ormai con sufficiente precisione le zone di stanziamento degli esuli provenienti dalla Penisola Iberica, le notizie intorno alla fattura e al traffico librario, a parte i centri d’eccellenza, non disegnano un quadro altrettanto esaustivo e sicuro. Gli esuli si trovavano ad agire in una condizione di quasi totale dipendenza dalle politiche incostanti degli Stati in cui erano ospiti, costretti a promuovere la propria cultura all'interno di confini geografici tanto vasti da essere, di fatto, invisibili. Le uniche, parziali certezze riguardano l'attività tipografica e di diffusione delle prime opere a stampa 'quatuor hebraica verba' cui Amato [Lusitano] confessava fosse ristretta la sua conoscenza dell'ebraico. Per celebrare il culto, al quale stanno pubblicamente tornando nel sicuro asilo di Ferrara, e per trasformare la loro 'nazionÈ in un'università ebraica, questi uomini non hanno lesinato sforzi, e l'edizione della Biblia e dei libri di preghiera in volgare ne è stato uno dei più suggestivi punti d'arrivo». Ibidem., pp. 835-836.

203 Y. H. Yerushalmi riporta che si trattava di Dr. Gil Vaz Bugalho, un giudice della corte d’appello che

apparentemente era un vecchio cristiano. Cfr. L. Azevedo, História dos cristãos-novos portugueses, 91f. e gli estratti dalla sua sentenza.

204 Y. H. Yerushalmi, Op. cit., 1989, p. 84. Riteniamo che sia improprio, alla luce di quanto emerso fino a

138

ebraiche che fra Quattrocento e Cinquecento, fino presumibilmente agli anni sessanta del XVI secolo, si concentrò a Venezia e a Ferrara, centri nevralgici sotto molti aspetti: per la politica liberale promossa dai rispettivi governi, per il loro ruolo pionieristico nella promozione della stampa ebraica, per i traffici direttamente o indirettamente controllati dal clan Mendes – de Luna nell'arco di un decennio. Le maggiori officine tipografiche preposte alla stampa dei testi rabbinici e delle opere relative alla vita culturale delle famiglie ebraiche nacquero infatti proprio a Venezia, dove il ricco fiammingo Daniel Bomberg fu il primo ad attuare un vasto programma di stampa in lingua ebraica. Fra il 1515 e il 1549 la sua stamperia ebbe un'attività serratissima, arrivando a produrre oltre 180 preziosi volumi con lo specifico obiettivo di perpetuare quel sistema culturale strenuamente ostacolato dall’egemonia cristiana. Tuttavia per i sefarditi portoghesi fu Ferrara a giocare il ruolo principale, anche per quanto riguarda la produzione libraria; qui essi intrapresero una delle più consistenti iniziative per diffondere il proprio patrimonio, curandosi di preservare in questa occasione la propria identità sia ebraica che lusitana. Affidarono dunque il compito ad Abraham Usque, di cui abbiamo spiegato la vicenda biografica e bibliografica, editore di volumi sia in ebraico sia nelle lingue volgari, tra cui le tre opere in lingua portoghese: Menina e Moça di Bernardim Ribeiro, la cui editio princeps ad opera di uno stampatore ebreo esule in Italia è ancora oggetto di molti interrogativi, la Consolaçam às Tribolaçoens de Ysrael di Samuel Usque e l’ecloga Crisfal, di un autore ignoto che si firma Cristóvão Falcão. Poiché il clan Mendes – de Luna, con tutto il suo variegato seguito, a partire dalla metà degli anni cinquanta del Cinquecento, si spostò progressivamente verso la Turchia, occorre aspettare il secolo successivo per veder riaffiorare la voce degli ebrei portoghesi in Europa, tornati a cercare asilo al Nord, in Olanda. L’analisi delle fonti documentali relative al XVI secolo non sembra infatti fornire notizie inedite sul reperimento di testi ebraici in lingua portoghese, pur aggiungendo preziosi dettagli alle informazioni già conosciute.

139 La Biblia Española e l’Ecclesiastes de Salamam

Si è già detto come il progetto di stampa della Biblia Española di Ferrara avesse coinvolto una serie di personaggi centrali nella vita dei sefarditi clandestini e si fosse verificato in un contesto piuttosto favorevole, sotto la protezione di Ercole II. In Ferrara la convivenza fra vecchi e nuovi cristiani e fra ebrei italiani e portoghesi da tempo era moderatamente pacifica. Gli affari, che erano la principale ragione di permanenza dei portoghesi nella città, portavano questi uomini ad avere rapporti correnti con i pubblici ufficiali (giudici, notai), giacché lo status ufficiale di battezzati li autorizzava a fungere da testimoni senza impedimenti legislativi. La prassi delle famiglie abbienti prevedeva che l’ufficiale giudiziario venisse chiamato a casa e che alla stipula di ogni atto partecipassero membri della nação. Nei casi in cui le formalità non si chiudevano con il giuramento ebraico, solo la presenza di personaggi noti può oggi ricondurre alla natura giudaica dell’atto. I contatti fra popolazione cristiana e ebraica erano del resto assidui, in circostanze pubbliche organizzate o incontri occasionali per strada; in città si respirava a tutti gli effetti quell’aria di pacifica convivenza e di tolleranza per il concittadino giudeo dettata dalla politica ufficiale del Duca. I rapporti fra ebrei e cristiani erano dunque certamente spinti dalla necessità per la comunità marrana di avvalersi di professionisti locali per le esigenze date dai loro affari, ma avevano anche ragioni di amicizia, simpatia e stima. Oltre che per le loro competenze in ambito commerciale i sefarditi erano molto apprezzati anche per il loro elevato livello culturale testimoniato dalla presenza di giuristi, medici e letterati. Le discriminazioni, così frequenti nelle altre città in epoca di Controriforma, qui si erano manifestate solo in occasione della peste del 1549 e la diffidenza di stampo religioso non si consumava nei confronti dei marrani, ma