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Nel libro che porta a battesimo in ambito europeo il concetto di Postmoderno, Jean François Lyotard dipinge la sensibilità “postmoderna” come una incredulità nei confronti delle narrazioni, un momento storico in cui “la funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli e i grandi fini.” 62 La narrazione epica, l’unica capace di affrontare l’universale, la conoscenza e l’esperienza tout court, entra in crisi e si disperde in una nebulosa di elementi linguistici e narrativi. Lyotard annuncia dunque la fine del modello progettuale della modernità, identificandola con un certo stadio di sviluppo del capitalismo monopolistico, e l’avvento di un’epoca di supremazia della “tecnoscienza”, contrassegnata dalla sfiducia nei saperi onnicomprensivi e dalla frammentazione dei gusti e dei valori.

Sempre secondo il filosofo francese, non siamo dinanzi a un sentimento di disincanto o di euforia per la delegittimazione in atto, ma a una presa di coscienza (ieri come oggi) di un momento in cui le scienze e le tecnologie ritrovano esse stesse nel linguaggio il loro verbo. Sin dagli albori i computer hanno fatto uso di linguaggi e codici e la compatibilità fra questi e la macchina è rimasta alla base dell’evoluzione tecnologica, mentre la memorizzazione e le banche dati, l’archiviazione e la catalogazione hanno determinato un nuovo modo di trattare l’informazione.

Per Frederic Jameson, teorico tra i più incisivi a dare senso compiuto al concetto, il mondo postmoderno è composto di rappresentazioni che non hanno contenuti reali e si presentano come superfici pure, contenitori svuotati dei propri contenuti. L’oggetto o l’evento storico è sostituito dal simulacro, da rappresentazioni

62 Jean François Lyotard, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Parigi, 1979, La

di altre rappresentazioni prodotte e conservate dai mass-media. Lo svuotamento dell’oggetto culturale è di fatto riportato a una condizione generale post industriale, dallo stesso Jameson definita appunto “tardo capitalismo”63, in cui negando le logiche di pensiero proprie della modernità, si assiste a un trionfo del capitalismo multinazionale su scala globale. Le modalità di produzione dei beni, caratteristiche di questa nuova era, sono alla base del rivolgimento di percezione in atto. Esse determinano un culto feticistico delle merci e la riduzione del soggetto a mero consumatore, succube delle immagini pubblicitarie. La distinzione tra i diversi saperi e campi di indagine viene portata all’eccesso a causa della messa in discussione del fondazionalismo e della conseguente relativizzazione estrema delle verità costituite e della storia. Tra gli elementi caratterizzanti il Postmoderno, Jameson individua la prevalenza della superficie sulla profondità, della simulazione sulla “realtà”, del gioco sulla serietà. Lo studioso afferma, inoltre, che la parodia (la quale richiede un giudizio morale o un paragone secondo le norme societarie riconosciute) è stata ormai sostituita dal pastiche, ovvero dalla pratica del collage e della giustapposizione che non richiedono una normativa reale né tantomeno un giudizio di valore.

Secondo le parole di Jameson: “Il passato come ‘riferimento’ si trova gradualmente messo tra parentesi e infine del tutto cancellato, lasciandoci con nient'altro che dei testi”64. Il sistema dell'ipertesto crea un paesaggio testuale piatto dove i confini tra testi e commenti iniziano a frantumarsi. E le giustapposizioni tra testi di epoche storiche, livelli d'esperienza e forme d'espressione differenti conducono all'erosione della frontiera tra cultura elevata e cultura di massa, di cui scriveva già Greenberg. Jameson descrive il Postmoderno come:

la cancellazione del confine (essenzialmente moderno-avanzato) tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale, e l’emergere di nuovi tipi di “testi” [texts] pervasi di forme, categorie e contenuti di quell’Industria Culturale tanto appassionatamente denunciata da tutti gli ideologi del moderno […]. Il postmoderno ha infatti subìto tutto il fascino di questo paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto [...]: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente “citati” come sarebbe potuto accadere in Joyce o Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza.65

63 Fredric Jameson, Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism, New Left Review I/146,

luglio–agosto 1984 (NC: Duke University Press, Durham, 1991), Il postmoderno o la logica culturale

del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, trad. it. di Stefano Velotti (Fazi, Roma, 2007, trad. it. di

Stefano Manganelli).

64 Idem, Garzanti, Milano, 1989 trad. it. di Stefano Velotti, p. 66. 65 Idem, p. 10, corsivo nel testo.

L’autore propone contestualmente solo un’ipotesi di periodizzazione, con l’intenzione di presentare il Postmoderno non come uno stile ma come una dominante culturale.

Contrariamente ai dogmi di coerenza, di equilibrio e purezza sui quali il modernismo si era fondato, il Postmoderno rivaluta l’ambiguità, la pluralità e la coesistenza degli stili, d’accordo con Marc Augé che descrive la cosiddetta “surmodernità” come “l’effetto combinato di un’accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini.”66

Umberto Eco affronta l’argomento tracciandone con disincanto i confini e le potenzialità:

Malauguratamente “post-moderno” è un termine buono a tout faire. Ho l’impressione che oggi [1983] lo si applichi a tutto ciò che piace a chi lo usa. D’altra parte sembra ci sia un tentativo di farlo slittare all’indietro: prima sembrava adattarsi ad alcuni scrittori o artisti operanti negli ultimi vent’anni, poi via via è arrivato sino a inizio secolo, poi più indietro, e la marcia continua, tra poco la categoria del post-moderno arriverà a Omero.

Credo tuttavia che il post-moderno non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio postmoderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo (tanto che mi chiedo se postmoderno non sia il nome moderno di Manierismo come categoria metastorica).67

Se la modernità è stata caratterizzata dal trionfo della funzionalità, fedele allo slogan “form follows function” (Louis Sullivan, 1896), la post-modernità (sur-

modernità secondo la definizione di Augé o Manierismo metastorico secondo quella di Eco) è senza dubbio caratterizzata dalla pratica del consumo e della spettacolarità, dove l’affermazione funzionalista viene sostituita dalla contestataria “form follows fiasco” (Peter Blake, 1977), e dall’odierna “form follows fiction”68. Ambiguità, pluralità e coesistenza degli stili - caso esemplare in architettura è l’AT&T Building di Philip Johnson sulla Madison Avenue a New York (1978-84), diventato il simbolo di Postmoderno per antonomasia – rendono la contaminazione tra memoria storica e

66 Marc Augé, Le temps en ruines, Éditions Galilée, Parigi, 2003, Rovine e macerie. Il senso del tempo,

Editore Bollati Boringhieri, Collana Variantine, Milano, 2004, p. 49.

67 Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, in, id., “Il nome della rosa”, Bompiani, Milano, 2006

(1980), p. 528, originariamente in “Alfabeta” n. 49, giugno 1983, corsivo nel testo.

68 Dal titolo della mostra Form Follows Fiction presentata al Castello di Rivoli, Torino, a cura di

mito della novità una costante del processo artistico non solo in architettura, ma anche nelle arti visive tradizionali e, inoltre, nelle nuove forme di espressione generate, a partire dai primi anni Settanta, dall’uso del video e, nel decennio successivo, delle metodologie digitali. La forma dialogica gioca un ruolo preponderante nella scelta di elementi dedotti da tradizioni diverse, appiattiti nel tempo e privati della loro storicità. In un contesto così delineato, la citazione diventa la più potente figura postmoderna, l’arma scelta per la democratizzazione e comprensione del messaggio. “Dal 1965 a oggi si sono definitivamente chiarite due idee. Che si poteva ritrovare l’intreccio anche sotto forma di citazione di altri intrecci, e che la citazione avrebbe potuto essere meno consolatoria dell’intreccio citato” 69, afferma ancora una volta Umberto Eco.

Srotolare, infatti, un testo visivo già masticato dal largo pubblico facilita la comunicazione, permettendone una divulgazione più ampia e meno ostica rispetto ai concettualismi e agli esperimenti volutamente polemici delle neo-Avanguardie. Nel paragrafo 206 de La Société du Spectacle, Debord cita Kirkegaard come grande dispensatore di “appropriazione indebita”, ma anche strenuo contestatore della stessa, riportandone un’affermazione tratta da Briciole di Filosofia: “Ma in tutti i tuoi giri e rigiri, come la marmellata finisce sempre in dispensa, riesci sempre a far scivolare qualche paroletta che non è tua e che turba con il ricordo che risveglia.”

Così come avevano agito gli artisti della Pop Art tra gli anni Cinquanta e Sessanta, impadronendosi dei prodotti dell’industria per rielaborarli secondo la propria sensibilità e la propria ricerca, contestandoli o semplicemente conferendo loro dignità di oggetto d’arte, anche l’arte postmoderna si insinua nella produzione di massa per analizzarla e sovvertirla. Questo procedimento, però, non si autocelebra solo come forma di contestazione nei confronti del consumo, ma anche e soprattutto come riflessione sui meccanismi che lo determinano, come esperimento di dialogo con un pubblico allargato che coinvolge finalmente i non addetti ai lavori. Il rischio di una lettura semplicistica dell’operazione di sincretismo messa in atto, più o meno consapevolmente, dagli artisti/filmmaker che per comodità chiameremo “postmoderni”, potrebbe però generare false speranze di una soluzione rapida e indolore della questione. Dietro l’apparente ricerca di semplicità espressiva, si celano ovviamente numerose e complesse problematiche che i cineasti si pongono attraverso l’impiego del già visto. La difficoltà, quindi, di penetrare queste opere, risiede appunto nel rischio di fermarsi a una prima e frettolosa lettura, non concedendosi il tempo di scandagliare in maniera più approfondita le ragioni e gli assunti di una tale scelta estetica. Eco sancisce viene ancora una volta in aiuto: “[…] raggiungere un pubblico vasto e popolare i suoi sogni, significa forse oggi fare avanguardia e ci lascia

ancora liberi di dire che popolare i sogni dei lettori non vuole dire necessariamente consolarli. Può voler dire ossessionarli.”70

Se molti studiosi ritengono che il messaggio artistico sia giunto - dopo la parabola ostica del Concettuale, dell’Arte Povera e della Land Art - alla fine di ogni ideologia, alla negoziazione della propria sparizione (parafrasando Jean Baudrillard), alla rinuncia dell’eroismo e del purismo moderni in nome del kitsch e del cattivo gusto (Greenberg in una conferenza del 1980), proclamando ormai spacciata ogni operazione artistica degli ultimi vent’anni, interessa, invece, dimostrare in questa sede come uno studio sincero e analitico possa mettere in luce gli elementi di originalità delle operazioni di recupero, e, ovviamente, anche le loro anomalie. Dopo il silenzio di Cage, la pagina bianca, il monocromo, si torna all’immagine, al racconto, alla narratività, sebbene una narratività priva di spunti epici e universali, un racconto fatto di piccole cose. Se la coscienza postmoderna è determinata dalla fine della fede nel futuro, il recupero e la meditazione del già visto attingono al passato come a un repertorio ricchissimo di forme. Il prefisso post suggerisce d’altronde il rifiuto o l’impossibilità di un riferimento positivo, lasciando aperto il quesito su cosa sia davvero il non-moderno. Secondo quanto afferma Campagnon, la rottura col Moderno significherebbe la rottura moderna per eccellenza, creando così uno dei cinque paradossi della modernità che danno nome al suo libro.71 D’altra parte, in questo particolare momento storico l’ambivalenza costituisce il terreno fertile per ogni manifestazione artistica: il Postmoderno si riappropria delle tradizioni locali, ma anche della tecnologia, dando vita a un prodotto schizofrenico. A differenza delle Avanguardie che si erano logorate nel tentativo, non esattamente riuscito, di rendere democratica l’arte di élite, il Postmoderno cerca piuttosto di legittimare la cultura popolare.

Augé definisce il “luogo” secondo tre caratteristiche principali: identitario, cioè tale da contrassegnare l’identità di chi vi abita; relazionale, ossia capace di individuare i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; storico, poiché ricorda all’individuo le proprie radici. Uno spazio che non può definirsi come identitario, relazionale e storico viene da lui denominato “nonluogo”.72 Il lavoro di accumulo di citazioni e di materiale già repertoriato può essere letto secondo quest’ottica, ovvero come un coacervo di passaggi ed elementi

70 Idem, p. 531.

71 Antoine Campagnon, Les cinques paradoxes de la modernité, Parigi, Seuil, 1990, I cinque paradossi

della modernità, il Mulino, Bologna, 1993.

72 Marc Augé, Non-lieux: introduction à une anthropologie de la surmodernité, Édition du Seuil,

Parigi, 1992, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993 (Bollati Boringhieri, Torino, 2006).

che non sono più in grado di trasmettere una identità unitaria e specifica. L’impiego di componenti apparentemente familiari ma che accostate perdono in realtà qualsiasi riferimento reale al mondo come si è conosciuto, determina un gioco simultaneo di ritrovamento e perdita di riconoscibilità.

Umberto Eco, d’altra parte, mentre introduce e delimita le competenze del Postmoderno, spiega puntualmente l’utilità e l’impiego della citazione secondo la sensibilità dell’epoca:

Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perchè la distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore.73

Con questa metafora colorita quanto chiarissima Eco spiega la condizione inaspettata dell’artista che si trova a vivere in un mondo in cui tutto è già stato detto. La perdita di innocenza nei confronti del sapere e la conseguente necessità di ricorrere all’ironia per mascherare questa mancanza sono cifre distintive di un momento che non sembra ancora terminato. Il lettore/spettatore/destinatario del messaggio veste qui i panni di quella donna colta “che sa che lui sa”: esso non è più ricettore passivo, elemento secondario del discorso, ma fattore indispensabile, complice fondamentale alla realizzazione del messaggio stesso.

Renato Barilli, a distanza di circa vent’anni, spiega l’atteggiamento accomodante nei confronti del passato inquadrandolo in un momento storico particolare:

“Citiamo il passato”. Questo senza dubbio è uno dei tratti caratteristici del Postmoderno. Il passato, invece che dover essere distrutto, demonizzato, diventa un serbatoio di elementi, di stilemi che può essere utile recuperare perché viviamo, vivevamo già allora, in una società del benessere, in una società che voleva rilassarsi e quindi non vivere nel culto dell'economia, della funzionalità come era quella di mezzo secolo prima, delle avanguardie pure e dure dei primi del Novecento; era arrivata l'ora di concedersi una distensione e quindi di scoprire che il passato aveva un suo fascino, nel momento in cui il passato ritornava grazie a tutte le immagini rese possibili dall'industria culturale: le dispense illustrate, i videodischi, i cd-rom.74

E poco più avanti:

In proposito si può anche ricordare quel gioco che si fa da ragazzi quando si scaglia un ciottolo piatto su una superficie d’acqua e ci si diverte a vederne i rimbalzi, i “ricochets”, come dicono i francesi.

Dal revivalismo tra fine del Settecento e inizio Ottocento a Charles Jencks, e cioè al Postmoderno patentato, quanti rimbalzi abbiamo visto, anche con la caratteristica principale dei rimbalzi, che all’inizio fanno dei bei balzi in alto e poi diventano sempre più fiacchi, diciamolo pure, più estenuati, infatti l’ultimo rimbalzo è quello del Postmoderno ufficiale di oggi che si è imposto soprattutto nei supermarket.75

La citazione delle immagini messa a segno dagli artisti visivi sembra ripercorrere a grandi linee questo sentiero di balzi, prima alti e decisi, dalle prime sperimentazioni consapevoli degli anni Sessanta e Settanta, poi sempre più estenuati e meno credibili, dagli anni Ottanta ai nostri giorni. Come è fisiologico per ogni novità che prima o poi tende a ricollocarsi nella tradizione, anche i film di found footage vivono nella loro parabola evolutiva momenti alterni di euforia, popolarità, sistematicità e studio approfondito. La proposta provocatoria di Barilli è che “si chiami tutto il ciclo che va dalla fine del Settecento ad oggi col termine di Postmoderno”.

Anche Gianni Vattimo, che apporta un contributo importante alla diffusione in Italia del pensiero postmoderno, legge la postmodernità semplicemente come una diversa maniera di pensare i rapporti fra tradizione e innovazione, imitazione e originalità, che non privilegi più per principio il secondo termine. Secondo il filosofo,

74 Renato Barilli, Tre ipotesi per il Postmoderno, in “Fucinemute”, 1 giugno 1999, www.fucinemute.it,

ultimo accesso: 11 giugno 2012, trascrizione di un intervento presentato al convegno: Postmoderno?, tenuto a Trieste il 28 e 29 dicembre 1998 e organizzato dall’Istituto Gramsci F.-V.G. e da “La Cappella Underground”.

non c’è più una storia unitaria, portante, ma solo diverse storie, diversi livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e nell’immaginario collettivo.76 La segmentazione della realtà, indotta soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa e dalle tecnologie multimediali, ha fatto sì che la Storia da flusso unitario razionale sia diventata – come scrive lo stesso Vattimo in Filosofia al presente – “una quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in casa, molti televisori in una casa”. 77

Il tratto ricorrente dello stile postmoderno è, infatti, il collage o il pastiche, che consiste nell’imitazione e nell’ibrida riproposizione degli stili e degli elementi del passato, senza un’identità estetica ben definita, in cui l’opera d’arte si presenti non più come prodotto finito ma come entità vettoriale e dialogica tra mittente e destinatario. Ancora una volta Eco ne spiega le dinamiche e ne dà diretta testimonianza:

Quando l’opera è finita, si instaura un dialogo tra il testo e i suoi lettori (l’autore è escluso). Mentre l’opera si fa, il dialogo è doppio. C’è il dialogo tra quel testo e tutti gli altri testi scritti prima (si fanno libri solo su altri libri o intorno ad altri libri) e c’è il dialogo tra l’autore e il proprio lettore modello. […] Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco. […] Volevo che il lettore si divertisse. Almeno quanto mi stavo divertendo io.78

L’artista che opera a partire degli anni Sessanta sembra incarnare la forma dell’Angelus Novus, o Angelo della Storia, di benjiaminiana memoria con lo sguardo rivolto verso le rovine del passato ma con le ali intrappolate nel vento travolgente del futuro.79 I frammenti, la storia e i suoi reperti attraggono l’artista/filmmaker in una rivisitazione, non innocente, ma ricca di fascinazione, dove le tecnologie, che mano mano evolvono e intervengono in suo aiuto, trascinano la sua ricerca in sperimentazioni sempre più ardite e schizofreniche, in cui archeologia e innovazione convivono in una sola risultante.

76 Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 (1991). 77 Gianni vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano, 1990, p. 17. 78 Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, cit., p. 522; 523; 525.

79 Walter Benjamin, Angelus novus: saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi,

Einaudi, Torino, 1962, pp. 76-77. “L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa

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