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Tra Cinema e Arti Visive. Il Found Footage dagli anni Sessanta a oggi. Between Cinema and Visual Art. Found Footage from 60’ up to present.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Scuola di Dottorato in Storia delle Arti Visive e dello Spettacolo

L-ART/06 Cinema, Fotografia, Televisione

Ciclo di Dottorato XXIII

T

RA CINEMA E ARTI VISIVE

.

I

L FOUND FOOTAGE

DAGLI ANNI

S

ESSANTA A OGGI

.

Tesi di Dottorato di:

Marta Silvi

Relatore:

(2)

Alla mia famiglia Quella di origine, quella che mi ha accolto e quella “in costruzione”.

(3)

I

NDICE INTRODUZIONE ………..………... 6 1. TEORIA………. 14 1.1 Elementi di teoria………. 15 1.1.1 Contaminazioni………... 15 1.1.2 Unheimlich……….. 17

1.1.3 Che cosa è il found footage? Excursus sulle teorie……… 19

- Jay Leyda, Films beget Films………..……….. 21

- William C. Wees, Recycled images: the art and politics of found footage films………. 21

- Eugeni Bonet, Desmontaje: Film, Vídeo/Apropiación, Reciclaje…… 23

- Nicole Brenez, Cartographie du found footage………. 26

- Yann Beauvais e Jean-Michel Bouhours, Monter Sampler L’échantillonage généralisé ……….. 29

- Michael Zryd, Found Footage Film as Discursive Metahistory: Craig Baldwin’s Tribulation 99……….. 30

- Christa Blümlinger, Kino aus zweiter Hand: Zur Ästhetik materieller Aneignung in Film und in der Medienkunst ………. 32

- André Habib, Le temps décomposé: cinéma et imaginaire de la ruine……… 32

- Stefano Basilico, Cut: Film as Found Object in Contemporary Video………. 33

- Rinaldo Censi, Dunja Dogo, Davide Gherardi, Marco Grosoli, Giulio Bursi speciale sul found footage in “Cinergie” n. 14……. 35

- Marco Senaldi, Doppio sguardo………. 37

- Cosetta G. Saba, Unstable Cinema, Cinéma et art contemporain / Cinema and contemporary visual arts……… 38

- Maria Rosa Sossai, Film d’artista. Percorsi e confronti tra arte e cinema……….. 40

- Monica Dall’Asta Film che producono film. Verifiche incerte sul cinema senza macchina da presa ………. 41

1.1.4 Concetti del Postmoderno applicabili al found footage……... 42

1.2 La cultura del frammento e della rovina………. 50

1.2.1 Frammento, Rovina, Memoria……… 50

(4)

1.2.3 Archeologia, Archiviologia, Nostalgia……….... 59

1.3 L’eredità del ready-made………...………. 68

1.3.1 Perché scegliere il found footage ………. 68

1.3.2 L’evoluzione tecnologica e le sue incidenze nella pratica del found footage……… 76

1.3.3 Il contesto storico e culturale delle prime sperimentazioni………. 85

1.3.4 L’eredità del ready-made……….. 90

1.3.5 Ready-made, collage e cover: interferenze col found footage…….. 92

1.3.6 Autore o editore?... 97

1.3.7 Cinema versus Letteratura………..…… 102

2. IPOTESI DI CATEGORIE E STUDI DI CASO………..……..……… 111

2.1 Ipotesi di categorie e studi di caso……… 112

2.2 Ritratti di città……… 114

2.2.1 Jack Chambers, Hart of London, 1970……… 115

2.2.2 Derek Jarman, The Last of England, 1987………. 120

2.2.3 Thom Anderson, Los Angeles plays itself, 2003………. 122

2.3 Uso delle macchine e delle tecnologie. ………. 129

2.3.1Len Lye, Rythm, 1957……….. 129

2.3.2 Arthur Lipsett, 21–87, 1964………. 131

2.3.3 Abigail Child, Mercy, 1989……….. 136

2.3.4 Paul Bush, The Rumour of True Things, 1996………. 140

2.3.5 Christoph Girardet e Matthias Müller, Manual, 2002………. 142

2.4 Looking for Alfred……….. 147

2.4.1 Douglas Gordon, 24Hours Psycho, 1993………. 149

2.4.2 Martin Zet, vertigo, 1999………. 158

2.4.3 Christoph Girardet e Matthias Müller, Phoenix Tapes, 1999……... 160

2.4.4 Cristoph Draeger, Schizo (Redux), 2004………... 164

2.5 Il Presidente, il Senatore, il Leader e la Celebrità……… 167

2.5.1 Bruce Conner, REPORT, 1967……….. 168

2.5.2 Aldo Tambellini, Black TV, 1964-68………. 176

(5)

2.5.4 Bruce Conner, Marilyn Time Five, 1973………. 188

2.5.5 Paolo Gioli, Filmarilyn, 1992……….. 188

3. UN ACCENNO AL DIRITTO D’AUTORE E AL COPYRIGHT ……….. 194

3.1 Una legislazione poco definita………. 195

3.2 Breve storia del diritto d’autore……… 203

3.3 Il fair use americano e la sua applicazione nella legge italiana…. 209 3.4 Il dominio pubblico. Alterazioni Video, Copy Right-No Copy Right, 2008 ……… 215

3.5 La smaterializzazione dei prodotti e l’era dell’accesso……... 225

3.6 Un caso esemplare: un Navet di Maurice Lemaître……….. 230

Conclusioni……… 235

APPENDICI………. 237

Riproduzione fotografica del carteggio originale intercorso tra Maurice Lemaître e Madame Malthête-Méliès……….. 238

Video-Filmografia………. 241

(6)

I

NTRODUZIONE

Quella del recupero è una pratica che si afferma con decisione nel XX secolo. Epoca dell’archivio prima e, con l’avvento del computer, del database poi, il Novecento impiega la catalogazione e la raccolta di dati come una modalità di pensiero e un’economia che si incentra sulla frammentarietà e sulla ricostituzione.

L’immagine in movimento si sostituisce al testo ed è utilizzata, smembrata, e ricomposta come materiale scultoreo. La pellicola, di qualunque natura essa sia, perde il suo significato originario, la sua trama, la sua narratività per lasciarsi fruire in qualità di oggetto, alienato da sé e dal contesto.

L’attenzione al supporto materiale mette in discussione l’intenzione prima con la quale il cinema era nato, ovvero la volontà di duplicare il reale nelle sue coordinate spazio temporali e mnemoniche.

Kulešov (da cui l’effetto prende nome) dimostra nel 1920 che un’inquadratura isolata non ha nessun senso in sé, ma lo prende invece da ciò che la segue o la precede. Lo spettatore non può trattenersi, infatti, dallo stabilire un legame logico tra due riprese che si succedono e che non hanno necessariamente un rapporto diretto. E’ perciò possibile rovesciare il senso di un testo filmico decostruendo la trama narrativa iniziale e guidare lo spettatore nella lettura del nuovo messaggio prodotto. Il montaggio si rivela la chiave di volta dell’intero processo generando possibilità di riflessione differenti sul medesimo materiale.

La presente ricerca, nutrita di apporti teorici imprescindibili e inquadrata in un periodo storico di forti cambiamenti (dagli anni Sessanta ai nostri giorni), mira a costruire una panoramica il più possibile ampia sul recupero, il reimpiego, la riappropriazione, la citazione e la riqualificazione delle immagini in movimento, in particolare nell’uso del found footage, al confine tra arti visive, cinema commerciale e cinema sperimentale. Per la storicità delle sue radici e, allo stesso tempo, per l’attualità delle sue implicazioni, l’argomento merita un’attenzione e un

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approfondimento particolari – motivo essenziale della genesi di questo lavoro - al fine di accrescere la portata degli studi che, a partire dagli anni Novanta, in maniera sistematica a livello internazionale e in maniera più discontinua e frammentata a livello italiano, sta costituendo terreno fertile di riflessione sulla materia, non ancora analizzata in tutte le sue sfaccettature e problematiche. L’apporto originale di questa indagine risiede nell’identificazione di tematiche, impiegate come paradigmi di lettura, in grado di riunire, non solo lavori singoli, ma anche atteggiamenti, interessi, modalità operative e scelte artistiche, nonché di individuare differenze strutturali, tecniche, epocali e di intenti che corrono tra le opere, grazie a una ricognizione trasversale che attinge a diversi periodi storici e che osserva con sguardo attento l’impiego di diverse tecnologie.

Nella prima parte del primo capitolo (TEORIA-Elementi di teoria) si è scelto di approfondire un discorso teorico legato alla storia altalenante e disomogenea del found footage (Contaminazioni), alle analogie con le caratteristiche dell’Unheimlich freudiano, alle teorie (Che cosa è il found footage? Excursus sulle teorie) elaborate finora in ambito internazionale (Jay Leyda, William C. Wees, Eugeni Bonet, Nicole Brenez, Yann Beauvais, Jean-Michel Bouhours, Michael Zryd, Christa Blümlinger, André Habib, Stefano Basilico) e italiano (Rinaldo Censi, Dunja Dogo, Davide Gherardi, Marco Grosoli, Giulio Bursi, Marco Senaldi, Cosetta G. Saba, Maria Rosa Sossai, Monica Dall’Asta, Andrea Bellavita, Federico Rossin) – e ai Concetti del Postmoderno applicabili al found footage.

Le riflessioni attorno al Postmoderno, alle nuove teorie sullo spettatore e l’autorialità sono stimolo a una ricognizione che abbraccia autori, testi e opere di differenti generazioni e provenienti da diversi background. Queste teorie sono lette in filigrana all’interno dell’intera ricerca dando alle volte per scontati alcuni suoi elementi noti, e facendo invece riemergerne in maniera più esplicita altri imprescindibili alla comprensione di determinate dinamiche. La credibilità teorica e artistica dell’esperienza postmoderna è considerata una componente implicita, superando i dibattiti interni e gli attacchi esterni che questo movimento ha subito negli anni, per impiegarne soltanto le reali potenzialità ermeneutiche.

Nella seconda parte del primo capitolo (La cultura del frammento e della rovina) si affrontano questioni legate alla qualità del materiale riutilizzato (Frammento/Rovina/Memoria), le afferenze teoriche con le tecniche impiegate negli altri campi artistici e delle immagini in movimento (Collage/Montage/Interruzione), l’atteggiamento attraverso cui si guarda al materiale stesso (Archeologia, Archiviologia, Nostalgia).

Nella terza parte del primo capitolo (L’eredità del ready-made) si tratta il soggetto dal punto di vista della storia dell’arte, in particolare, in relazione al concetto

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di objet trouvé e alla pratica duchampiana del ready-made, di cui il found footage sembra essere una rivisitazione. Si rintracciano le motivazioni estetiche e pratiche, spesso legate a fattori contingenti, della scelta del materiale di found footage (Perché scegliere il found footage), l’evoluzione tecnologica e le sue incidenze nella pratica del found footage, il contesto storico e culturale delle prime sperimentazioni. Si analizzano, dunque, le influenze del concetto di ready-made ereditato dall’arte (L’eredità del ready-made), i punti di contatto che il found footage mantiene con le pratiche artistiche del collage e della cover (Ready-made, collage e cover: interferenze col found footage) e lo slittamento epocale di ruolo dalla figura dell’autore a quella moderna dell’editor, nel significato inglese di “montatore” come intende Lev Manovich (Autore o editore?), che genera nuovi pensieri su questo tema. Conclude questa sezione un paragrafo dedicato alle interferenze tra le modalità e le figure impiegate nella letteratura e quelle assimilate e traslate da essa nel cinema e, nello specifico, nel found footage (Cinema versus Letteratura).

Visto il continuo scambio di informazioni e di linguaggi tra le Arti (visive e cinematografiche nel nostro caso) avvenuto a partire dalla metà del XIX secolo, si è scelto di non operare distinzioni tra gli autori in base alla loro provenienza e formazione. Lavori di artisti visivi, filmmaker, cineasti e registi, vengono analizzati sotto un’unica lente che inquadri di volta in volta le tendenze rintracciabili nei diversi ambiti delle immagini in movimento. L’attenzione sul percorso degli autori lascia dunque posto a quella sulle problematiche e sulle tematiche affrontate dalle opere stesse, spostando così i riflettori dal soggetto all’oggetto.

Nella parte centrale del lavoro (IPOTESI DI CATEGORIE E STUDI DI CASO) si esplorano alcuni casi scelti, non secondo il grado di riconoscibilità, ma secondo l’attinenza con le suddivisioni per argomento individuate, in modo da creare un paradigma adattabile a più situazioni di studio. Si tralasciano spesso le opere e gli autori più noti nell’ambito del found footage non per noncuranza, ma per dare invece possibilità di lettura anche a lavori meno frequentati. Mentre si sceglie di inserire tra gli altri anche alcuni capisaldi della pratica essendo funzionali alle questioni trattate di volta in volta, cercando comunque di evitare la ripetizione delle interpretazioni già ampiamente divulgate su taluni argomenti.

Essendo impossibile stabilire la quantità di found footage che un film deve contenere per essere chiamato tale, non esiste una metodologia scientifica di classificazione dei lavori. Per questo motivo è fondamentale, una volta chiarite le coordinate teoriche che inquadrano il fenomeno, fissare poi alcune possibili linee guida tematiche sostenute da esempi concreti.

Prendendo spunto dalla suddivisione applicata dal “Lux, Artists’ Moving Image” di Londra alla propria collezione di film e video, una delle più ricche

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d’Europa, si delineano quattro aree specifiche: nella prima si trattano i lavori che costruiscono degli inediti Ritratti di città, attraverso una rappresentazione spesso visionaria e poetica (Hart of London di Jack Chambers, The Last of England di Derek Jarman) che rifugge le descrizioni didascaliche, oppure, che si compiace della raccolta certosina di materiale a soggetto (Los Angeles plays itself di Thom Anderson); nella seconda si affrontano i film che rintracciano nell’Uso delle Macchine e delle Tecnologie, alcuni temi di indagine tra i più diffusi ed esplorati nella pratica del reimpiego, secondo un punto di vista ironico (Rythm di Len Lye), critico e riflessivo (21–87 di Arthur Lipsett, Mercy di Abigail Child, The Rumour of True Things di Paul Bush) e metaforico-nostalgico (Manual di Christoph Girardet e Matthias Müller); nel terzo, Looking for Alfred1, si prendono in esame i film che ammiccano e rielaborano alcune famose sequenze hitchcockiane (Phoenix Tapes di Christoph Girardet e Matthias Müller), oppure che impiegano lavori interi del regista inglese scardinandone e ricomponendone il significato originario (24 Hour Psycho di Douglas Gordon, vertigo di Martin Zet e (Schizo) Redux di Cristoph Draeger); per ultimo si analizzano alcuni film che, attraverso sequenze a soggetto, rintracciano nelle storie epocali e mediatiche de Il Presidente (John Fitzgerald Kennedy in REPORT di Bruce Conner), il Senatore (Robert Kennedy in Black TV di Aldo Tambellini), il Leader (Malcolm X in Perfect Film di Ken Jacobs) e la Celebrità (Marilyn Monroe in Marilyn Time Five di Bruce Conner e Filmarilyn di Paolo Gioli) materiale di interesse sociologico, politico e artistico.

Questa distinzione di soggetti rende l’indagine più fluida e permette contestualmente di individuare dinamiche comuni ad artisti e filmmaker di paesi e generazioni differenti. Il modo di trattare ciascun argomento supera, infatti, le barriere temporali per snodarsi in una ricerca verticale che accolga rappresentanti di diversi periodi storici alle prese con metodologie di lavoro simili per scelta dei soggetti rappresentati ma spesso molto distanti per procedimento tecnico o per linguaggio artistico.

In ciascun sottogruppo si trovano a convivere indistintamente film che reimpiegano materiale cinematografico, materiale televisivo, materiale d’archivio, materiale home movies e materiale girato e rielaborato dall’autore stesso. Tecniche di montaggio differenti sono inoltre ravvisabili in ciascun lavoro, da quelli realizzati in scratch video e cut up, a quelli in cui il found footage appare nel testo del film solo

1 Looking for Alfred è preso in prestito dal titolo omonimo del film di Johan Grimonprez (Roeselare,

Belgio, 1962) del 2005 che racconta il tema del doppio, del sosia e del doppelgänger ispirandosi ai celebri camei che Alfred Hitchcock amava lasciare nei suoi film. Il lavoro è costruito con materiale girato dall’artista e non con sequenze di found footage.

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come una presenza discontinua, dai film in cui il montaggio shot-for-shot e il sonoro costruiscono l’azione, ai film che si presentano come cinema installato.

Attraverso l’analisi di una rosa ristretta di lavori (mai più di cinque per ogni categoria e voce individuata), scelti come modelli di riferimento o come campioni estratti arbitrariamente all’interno di una produzione vastissima, è, dunque, possibile eseguire un’ampia ricognizione nelle pratiche di “riuso”. Le profonde differenze tecniche, di intenti e di formulazione che contraddistinguono le opere permettono, infatti, di evidenziare importanti soglie epocali generate da fattori contingenti: il progresso tecnologico e l’avvento di apparati di riproduzione sempre più sofisticati, la trasformazione dell’accessibilità delle fonti e della cultura in genere (destinata ad essere sempre più raggiungibile e libera), il diverso atteggiamento che le leggi per il copyright hanno imposto all’uso dei materiali.

I punti di questa riflessione costituiscono un paradigma applicabile e interscambiabile tra ciascun gruppo e ciascuna area individuata. L’obiettivo di questa ricerca è, dunque, l’abbozzo di una impalcatura cognitiva, non definitiva, non vincolante, non unica, quanto indispensabile, per la costruzione di una metodologia di lettura dei film appartenenti alla pratica del found footage. La scelta dei raggruppamenti tematici, utili a semplificare la vastità e la frammentarietà dei lavori rintracciabili in questo settore, non comporta volutamente valutazioni semiotiche approfondite ma punta a fornire uno strumento agile e a tutti comprensibile di riflessione e catalogazione.

Come si avrà modo di vedere più avanti, il termine “found footage” non si dimostra mai completamente esaustivo della pratica che descrive, ed è anzi molto spesso contestato e ripudiato dagli autori stessi che lo applicano: esso, infatti, identifica più propriamente un certo tipo di materiale (il metraggio trovato) che non il procedimento tecnico a cui fa riferimento, escludendo, almeno a livello letterale, tutte le altre fonti e metodologie di reperimento. Se ne fa qui uso per ragioni di comodità e uniformità lessicale, ma si tiene comunque a precisare che esso è spesso sostituito da termini equivalenti, o ancor più pertinenti, quali “reimpiego”, “riuso”, “riappropriazione”, “citazione”, “riqualificazione delle immagini”.

Difficile, inoltre, è stabilire la tipologia dei supporti su cui questi lavori compaiono per la prima volta: un conto è parlare di supporto originario (super8 o 16mm per la maggior parte dei film elaborati fino agli anni Ottanta), un conto parlare delle copie in distribuzione e del formato su cui spesso sono stati riversati i film (VHS, DVD, file digitale).

Per scelta si è deciso di trattare quasi esclusivamente film composti interamente di found footage, o comunque film in cui la parte di reimpiego di immagini è preponderante sul girato originale (spesso considerato dallo stesso autore

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materiale di riuso alla stregua di quello trovato o cercato, poiché realizzato in tempi differenti e investito perciò di una certa distanza critica e concettuale).

Non si affrontano in questa sede film realizzati da utenti anonimi senza particolari velleità artistiche con materiale recuperato in internet, perché ciò richiederebbe uno studio a parte. E, pur consapevoli dell’esistenza di film che non usano ma imitano il found footage, si è preferito non trattare l’argomento dal momento che anch’esso potrebbe esigere un approfondimento a sé, evitando così il rischio di espandere esponenzialmente una ricerca già tentacolare per sua natura. Il primo minuto che apre il film A sense of the End di Mark Lewis (1996) è un ottimo esempio di questo genere.

Un capitolo a parte, il terzo, è dedicato, infine, alla questione legale dei diritti d’autore e dell’impiego di immagini già esistenti protette dal copyright o esenti da questo (UN ACCENNO AL DIRITTO D’AUTORE E AL COPYRIGHT). L’evoluzione della legislazione legata a questo tema (Una legislazione poco definita, Breve storia del diritto d’autore, Il fair use americano e la sua applicazione nella legge italiana) permette di seguire di pari passo l’evoluzione dell’accessibilità della cultura e delle attività di riappropriazione delle immagini (Il dominio pubblico e La smaterializzazione dei prodotti e l’era dell’accesso), mettendo in luce le carenze legislative delle norme e gli escamotages che permettono l’aggiramento delle stesse. Chiude l’intera ricerca il caso esemplare di Un Navet di Maurice Lemaître in cui la richiesta di riconoscimento dei diritti da parte di Madame Malthête-Méliès pone l’artista in discussione conducendolo a scavare nella legislazione (francese), coadiuvato da un avvocato preparato, e a reperire quelle eccezioni alla legge grazie alle quali gran parte dei cineasti di found footage possono smettere di considerarsi fuorilegge.

La tesi è corredata, inoltre, da una video-filmografia che riporta le schede dettagliate delle opere prese in esame nonché il luogo di reperimento e consultazione delle stesse.

La ricerca che sta alla base di questo lavoro è avvenuta in momenti differenti spalmati nel tempo e in luoghi diversi, sia in Italia che all’estero, anche grazie all’opportunità di borse e contributi di mobilità messi a disposizione dall’Università di Pisa e da quella di Udine e Gorizia. L’ausilio, poi, di persone, spunti, conversazioni e conferenze ascoltate e seguite in circa quattro anni di studio hanno reso i contenuti più aggiornati e ampliato gli orizzonti di indagine.

Di grande importanza il reperimento di fonti bibliografiche all’interno della “BFI National Library” di Londra, in particolare del volume di William C. Wees sul found footage, del pamphlet di Michael O’Pray sull’estetica junk, di alcuni importanti

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cataloghi di mostre, di monografie su autori anglosassoni e americani, di testi di approfondimento sul cinema sperimentale e underground. Sempre a Londra, la maggior parte dei documenti audio e delle interviste sono state rintracciati presso il “Tate Research Centre” costituito da una biblioteca e un archivio molto forniti, situati all’interno della Tate Britain di Londra. Anche la “Victoria and Albert Museum National Art Library” si è rivelata ricca di materiali di approfondimento.

In Francia, le ricerche all’interno della “BibliothèqueKandinskj” del Centre Pompidou di Parigi sono state, altresì, fondamentali per il reperimento di bibliografia utile alla parte teorica; il catalogo della mostra tematica Monter Sampler. L’échantillonage généralisé curata da Yann Beauvais e Jean-Michel Bouhours allestita nel 2000 nello stesso museo parigino e l’intervista inedita manoscritta, solo parzialmente pubblicata, di Maurice Lemaître individuata nell’archivio storico della biblioteca sono stati di indubbia importanza, non solo per le riflessioni inerenti il found footage, ma anche per quanto riguarda la parte sui diritti d’autore. La lettura del catalogo Desmontaje: Film, Vídeo/Apropiación, Reciclaje curato da Eugeni Bonet per la mostra tenutasi presso l’IVAM Centre Julio González a Valenzia nel 1993 è stata altrettanto essenziale. Molti testi sono stati anche rintracciati presso l’“INHA, l’Institut National d’Histoire de l’Art” di Parigi e la “Bibliothèque Gaston Baty” dell’Università Sorbonne Nouvelle sempre a Parigi, dove sono state consultate anche alcune tesi di laurea sul reimpiego delle immagini seguite dal Professor Philippe Dubois.

In Italia la ricerca è stata sostenuta in larga parte nella “Biblioteca Nazionale Centrale” di Roma, nella “Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte” di Palazzo Venezia, nella biblioteca universitaria “Giulio Carlo Argan” del dipartimento di Storia dell’Arte a “La Sapienza” a Roma e di quella di Storia delle Arti dell’Università di Pisa.

Per quanto riguarda il reperimento e la visione di materiale filmico e video, fondamentale è stato l’accesso alla collezione del “Lux, Artists’ Moving Image” di Londra grazie al supporto operativo di Mike Sperlinger, Assistant Director della struttura, come anche l’accesso alla mediateca del “BFI National Archive” di Londra. A Parigi invece gran parte delle opera sono state visionate all’interno della “New Media Collection” allestita in maniera permanente al quarto piano del “Centre Pompidou”, nell’“Espace Nouveaux Médias” e nella videoteca del “Bifi”. In Italia, essenziale è stata la visione di opere conservate in VHS nella collezione video del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (MUSLAB) de “La Sapienza” di Roma, grazie all’aiuto logistico dell’architetto Polli e l’intermediazione del Prof. Zambianchi. Altri lavori sono stati reperiti nella mediateca del dipartimento di Storia delle Arti dell’Università di Pisa.

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I bookshop più forniti e aggiornati a cui si è attinto sono quello della Tate Modern, della Hayward Gallery, della Whitechapel e del BFI British Film Institute a Londra, del Centre Pompidou e del Palais de Tokyo a Parigi.

Fondamentale è stata anche la partecipazione, sia come uditore che come espositore, alle conferenze organizzate nell’ambito della Paris Spring School “Cinéma, Art Contemporain, Patrimoine” svoltasi dal 21 al 30 aprile 2008 a Parigi, della manifestazione internazionale “Arts et Médias: Penser / Chercher / Ecrire le Contemporain” svoltasi dal 2 al 7 giugno 2008 presso Villa Finaly a Firenze, della Paris Summer School “Cinéma & Art Contemporaine 2 - Oui, c’est du cinéma!” dal 28 giugno all’11 luglio 2009 a Parigi, della VIII MAGIS – Gorizia International Film Studies Spring School Gorizia “Cinema and Contemporary Visual Arts V, Cinema and visual art across performance, installation, architecture, public space” svoltasi dal 19 al 25 marzo 2010 a Gorizia e della Paris Summer School “Cinéma & Art Contemporaine 3 - Oui, c’est encore du cinéma!” dal 28 giugno al 9 luglio 2010 a Parigi. La maggior parte degli interventi presentati in queste occasioni sono stati, poi, resi reperibili nelle pubblicazioni della Collana “Zeta Cinema” edita da Campanotto Editore e della rivista “Cinema & Cie” edita prima da Il Castoro, poi da Carocci.

Molta bibliografia, articoli, interviste, documenti audio e video nonchè alcuni film sono stati rilevati anche in rete, dove, grazie a licenze Creative Commons, è stato possibile l’accesso e lo scaricamento di libri integrali, mentre siti di archivio video-filmico specializzati come Ubuweb, CineReciclado, VideoDataBank, NFB, MUBI e lo stesso Youtube hanno permesso la visione domestica di alcuni lavori, anche tra quelli difficilemnte reperibili.

Un ringraziamento particolare alle persone che mi hanno accompagnato in questi anni stimolando alcuni punti critici della ricerca e coadiuvandomi nel reperimento di fonti e materiali: la Professoressa Sandra Lischi, il Professor Claudio Zambianchi, Andreina Di Brino, Marco Bertoncini, Sarra Brill, Maria Rosa Sossai, Cristiana Perrella, Silvano Manganaro, Pip Chodorov.

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1.1 Elementi di teoria

1.1.1Contaminazioni

Molti sono i fattori coinvolti nell’estetica junk (spazzatura): la nostalgia per le cose e i film appartenenti al passato, l’economicità del processo (il found footage necessita solo di un tavolo di montaggio), lo humour di una giustapposizione perversa e ironica, l’esplorazione di forme originali della cultura e l’interesse per la pratica del

ready-made consacrato dall’arte del Novecento. 2

Come afferma William C. Wees - nel suo libro del 1993, una delle prime ricognizioni teoriche sull’argomento - nei film di found footage (secondo la distinzione che egli stesso disegna tra found footage film, composti solo ed esclusivamente da footage e film with found footage, dove il footage compare come inserzione all’interno del girato) la ripetizione delle scene richiama l’attenzione non tanto sull’immaginario e il soggetto del film, ma soprattutto sul corpo e la struttura del film stesso.

Whether they [the found footage films, n.d.r.] preserve the footage in its original form or present it in a new and different ways, they invite us to recognize ita as found footage, as recycled images, and due to that self-referentiality, they encourage a more analytical reading (which does not necessarily exclude a greater aesthetic appreciation) than the footage originally received.3

2 Cfr. Michael O’Pray, Paul Taylor, Junk aesthetics: found footage film, Film and Video Umbrella,

Londra 1986.

3 William C. Wees, Recycled images: the art and politics of found footage films, Anthology Film

Archive, New York, 1993, p. 11, “Sia che [i found footage film, n.d.r] preservino il footage nella sua forma originale o che lo presentino in una nuova veste totalmente modificata, essi ci invitano a riconoscerlo quale found footage, quale immagini riciclate, e grazie alla sua autoreferenzialità, essi

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I film di found footage non raccontano ma analizzano, costruiscono e simultaneamente decostruiscono, aprono momenti di riflessione sul mezzo, sulla durata, sulla necessità o meno di una trama, sulla capacità spettatoriale di elaborare pensieri intorno al materiale visivo. Del cinema conservano gli strumenti (piani sequenza, suono, parlato, montaggio), che sono però sottoposti a una centrifuga apparentemente priva di regole, ripuliti fino a perdere il proprio senso letterale per acquisire un livello di astrazione superiore.

Il found footage film spezza per sempre la magia di Méliès e la veridicità dei Lumière per condurre lo spettatore su un piano di lettura/ricezione differente. L’uso esasperato del montaggio diventa la costante di questo lavoro. Il progresso tecnologico e l’affinamento delle apparecchiature messe a disposizione determinano conseguentemente l’evoluzione di questa pratica nel tempo.

L’arte usa le immagini, le pellicole, i film come materia da cui prelevare, sradicare, smontare. Attraverso vari livelli di contaminazione l’arte si impadronisce delle forme del cinema invalidando il suo meccanismo e consegnando allo spettatore un’apertura e una libertà espressiva che il cinema da solo avrebbe difficoltà a raggungere a causa delle sue regole più o meno stabilite e dei suoi riti.

E’ importante precisare che con “arte” si intende qui parlare non solo di ciò che è stato musealizzato o di ciò che ha trovato dimora all’interno del cubo bianco delle gallerie e della scatola nera della sala cinematografica, ma anche di tutti quei prodotti ottenuti dalla ricerca sperimentale e alternativa che hanno preso distanza dal circuito espositivo ufficiale (musei, cinema, biennali) per intraprendere in autonomia sentieri differenti. Come già accennato, non si sono volutamente tracciate distinzioni tra chi è considerato artista a tutto tondo e chi (filmmaker e cineasti underground) ha operato al di fuori degli spazi espositivi tradizionali. Tutti sono considerati alla stessa stregua “produttori di immagini”. In un mondo globalizzato e globalizzante, è indispensabile astrarsi dalle etichettature standardizzate per volgersi alla ricerca di definizioni più fluide e osmotiche.

A proposito di contaminazioni, Stefano Chiodi spiega efficacemente in un testo dedicato agli anni Ottanta apparso di recente su “Doppiozero”, come la combinazione tra differenti strati e stati della cultura determini, sul finire del secolo scorso, il prodotto culturale per eccellenza.

A partire da questi anni [gli anni Ottanta] l’industria culturale si dimostrerà capace di superare la vecchia contrapposizione tra avanguardia e kitsch su cui la cultura novecentesca aveva a lungo confidato: il remake, il

incoraggiano una lettura più analitica (che non esclude necessariamente un buon apprezzamento estetico) rispetto a quella che il film ha ricevuto originariamente.” (traduzione mia), corsivo nel testo.

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sequel, il pastiche, diventano strategie comuni all’arte, al cinema, alla letteratura, alla musica, nel segno di una mescolanza tra high e low, di un remix che avrà profonde ripercussioni tanto sui linguaggi “colti” che sull'immaginario collettivo.4

1.1.2 Unheimlich

I film di found footage operano proprio in questa direzione. Adottando e impadronendosi di forme e contenuti già esistenti perché appartenenti ad altri campi di indagine, ne modificano struttura, messaggio e fruizione regalando al pubblico una visione nuova sul già visto. Essi innescano un meccanismo simile a ciò che Sigmund Freud definiva perturbante5. Questo si verifica quando una cosa, una persona o un fatto è avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo provocando angoscia unita a una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. Il conflitto determinato dalla presunta familiarità con gli oggetti manipolati e la totale perdita di punti di riferimento rispetto alla cornice di presentazione degli stessi induce un senso di spaesamento. Diventa Unheimlich tutto ciò che un tempo è stato considerato patrio (in tedesco heimlish) e familiare mentre il prefisso un- diventa il segno della rimozione, del processo interno di negazione. Il perturbante dunque insorge quando viene mostrato ciò che era tenuto nascosto, quando il rimosso torna a ridestare complessi infantili sopiti. La formula più conosciuta di perturbante è l’incontro con il sosia, ovvero l’incontro con il proprio se stesso come altro da sé. Freud traccia una serie di tematiche - l'animazione dell'inanimato, il doppio, la ripetizione ossessiva, il ritorno dei morti, la sepoltura dei vivi- che rendono il perturbante una delle grandi categorie estetiche del '900, categoria che oggi genera molteplici ripercussioni nel cinema e nelle arti visive.

Nel film di found footage gli elementi freudiani si manifestano tutti o quasi: le pellicole sono spesso disseppellite e riesumate (Dal Polo all’Equatore, 1981-1986, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Workers Leaving the Factory in Eleven Decades, 2006, di Harun Farocki, Into the unknow, 2009, di Deimantas Narkevicius6,

4Stefano Chiodi Anniottanta. Un’introduzione, “Doppiozero”, http://doppiozero.com, 5 aprile 2011,

ultimo accesso: 29 febbraio 2012, corsivo nel testo.

5 Nel saggio Das Unheimliche, pubblicato per la prima volta nel 1919 nella rivista “Imago” (Sigmund

Freud, Il perturbante, Cesare L. Musatti (a cura di), Theoria, Roma, 1984) l’autore spiega che il sentimento del perturbante nasce da un conflitto di giudizio nel momento in cui ci si presenta una realtà inconsueta, nuova, non familiare, incredibile, in una dimensione che, tutt'a un tratto e per un momento, appare possibile, familiare, credibile. Un contrasto che genererebbe inquietudine e spaesamento.

6 Per un approfondimento su questo lavoro e sull’uso del materiale di archivio, cfr. Marta Silvi, The

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per fare degli esempi), riattivate come copie di se stesse e ripetute ossessivamente (Pièce Touché, 1989, di Martin Arnold, Home Stories, 1990, di Matthias Müller, Tribulation 99, 1990, di Craig Baldwin, tra i più conosciuti). I film di found footage, seppure secondo diverse inflessioni di messaggio (ironico, drammatico, parodico, documentaristico, ecc.), innescano un processo di identificazione con il materiale usato che viene ri-conosciuto come familiare, ma, allo stesso tempo, anche di allontanamento da esso per via del montaggio che rompe il sogno cinematografico. L’identificazione dello spettatore nel sogno finzione lascia posto dunque al riconoscimento della scena e del brano visivo, esposto e sezionato come su un lettino operatorio.

Scrive De Bernardinis:

Il cinema […] è il luogo di un sentire, un sentire innanzi tutto “artificiale” perché della macchina, e anche “impersonale” perché il cineasta non penetra affatto il mondo immaginandolo nel proprio genio, ma egli si fa, per così dire, un tramite della macchina stessa, un'eco di pietra del campo estetico che il dispositivo cinematografico del set produce intorno. Il cinema, così, è innanzi tutto arte meccano-performativa, apparato tecnologico in azione, immagine prodotta in movimento che scandaglia il mondo e i suoi infiniti particolari, obiettivamente, senza che tale interiorizzazione pervenga a deformare l'apparenza delle cose.7

Nella pratica del found footage l’aspetto “macchina” che De Bernardinis riconosce nel sentire “artificiale” proprio del cinema è preponderante e mai nascosto, sinceramente esibito come componente imprescindibile, senza che essa neghi spazio alla creatività. Nell’estetica del found footage il cinema, disabilitato della sua presunta e peraltro discussa autenticità e fedeltà al dato reale, si trasforma in meta-cinema e la narrazione in meta-narrazione, in altre parole il cinema racconta se stesso impiegando il medium e le pratiche che gli sono proprie.

Slock, Philippe Dubois (a cura di), Cinema, critique des images, Zeta Cinema, inglese e francese, Campanotto Editore, Pasian di Prato (UD), 2011.

7 Flavio De Bernardinis, Ossessioni terminali. Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Costa &

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1.1.3. Che cosa è il found footage? Excursus sulle teorie

L’etimologia della parola footage richiama “la cifra impressa sulla machette del film negativo a ragione di un’unità per piede (33 cm circa).”8 Ma è sicuramente più semplice rintracciare una definizione liquida di questa pratica attraverso l’esclusione di ciò che non è: il found footage non è una corrente, né una teoria, non è un movimento artistico o cinematografico, né tantomeno un genere che distingue un’epoca storica. Found footage è semplicemente il sostantivo inglese che indica il metraggio (la lunghezza della pellicola cinematografica espressa in metri) ritrovato, e che dà ormai comunemente nome a tutti quei film realizzati parzialmente o interamente con pellicola impressionata preesistente, successivamente riassemblata in un nuovo contesto. La parola si è, altresì, snaturata nel momento in cui è stata estesa anche al video, senza particolare riguardo alla tipologia e alla tecnica dell’opera. Come anticipato nell’introduzione, si tratta di un termine spesso impiegato con scarsa pertinenza, caricato nel tempo di significati impropri. Molti sono gli artisti e i cineasti che, di fatti, lo rifiutano a priori, proponendo diverse definizioni e terminologie alternative. Resta che la diffusione della parola e la sua riconoscibiltà immediata ne ha amplificato l’impiego rendendola un vero e proprio genere cinematografico, una categoria capace di accogliere un bacino enorme di opere e infinite possibilità di espressione. Per questo motivo si è scelto di usarla come campanello di richiamo, punto di riferimento a cui far ritorno, sempre coscienti delle sue molteplici sfumature.

E’ interessante notare come anche sul web l’inquadramento di questo sostantivo sia ancora poco omogeneo. Ne è esempio significativo il fatto che le pagine relative all’argomento in Wikipedia, l’enciclopedia libera più consultata al mondo, siano per lo più vaghe e spesso contraddittorie. Digitando la parola found footage nel campo ricerca della versione italiana e di quella francese, si ottengono infatti solo pagine definite “di abbozzo”. Eppure, scorrendo la cronologia compilativa delle stesse, si nota con sorpresa che entrambe sono state create diversi anni fa. Per l’esattezza, la pagina italiana è stata messa on-line per la prima volta nel 2009 e quella francese addirittura nel 2004 (e questo la dice lunga anche sul ruolo precursore degli studi francofoni sull’argomento) con successive e frequenti integrazioni sino ai nostri giorni. Entrambe d’accordo sulla definizione di base della pratica, indicata come riappropriazione di pellicole già impressionate allo scopo di generare un nuovo film, nessuna delle due si dilunga su genesi e storia ma lascia parlare la lunga lista di cineasti che impiegano questa tecnica. Solo la pagina italiana allude però, oltre ai cineasti, alla “categoria” degli “artisti visivi” quali operatori effettivi.

8 Dunja Dogo, Sul vero e sul falso: lo strano caso dell’archive footage, in “Cinergie, il cinema e le altre

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Se si esegue la medesima ricerca sul Wiki inglese lo scenario cambia radicalmente. Nessuna pagina di bozza, bensì, alla prima riga, una precisazione essenziale: “Questo articolo riguarda l’uso effettivo di found footage. Per film assemblati con footage di questo tipo, vedere ‘Collage film’. Per film di finzione che danno solo l’impressione di essere stati realizzati con found footage, vedere ‘Found Footage (genere)’.”9 La distinzione è eloquente. Apre già al lettore diverse possibilità di ricerca in un sottobosco di forme che nelle pagine delle altre lingue non esiste. Anzi, il testo italiano tiene proprio a precisare la vicinanza ma la non coincidenza di questa tecnica con i cosiddetti “film-collage”, operazioni che la pagina inglese ritiene invece intercambiabili. Seguendo il link del “Collage Film” si approda in una pagina piuttosto ricca di contenuti, completata da un’ottima tabella* che riassume tutte le forme e le teorie della riappropriazione nelle arti. Una particolarità: il sito inglese non definisce gli autori né cineasti, né registi, né tantomeno artisti visivi, bensì più genericamente “practitioners”, praticanti, professionisti.

*Tabella presente nella pagina: http://en.wikipedia.org/wiki/Collage_film

I tre differenti approcci al tema appena citati sono utili a comprendere impostazioni di pensiero e di metodologia cognitiva che si rintracciano ancora più evidentemente nelle pubblicazioni e nei saggi di diverse provenienze geografiche dedicati a questo argomento.

9 (Traduzione mia), corsivo mio. “This article is about actual found footage. For films assembled from

such footage, see Collage film. For fictional films that give the appearance of being made from found footage, see Found footage (genre). http://en.wikipedia.org, ultimo accesso: 8 maggio 2012.

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Uno dei primi teorici in materia è il filmmaker americano Jay Leyda che nel 1964 scrive Films beget Films,10 in cui ripercorre la storia dei “compilation film” (film di montaggio di cronaca). Egli sostiene che il genere documentario sia strettamente legato, almeno in una fase iniziale, all’uso dei materiali provenienti dai cinegiornali. Interessante l’excursus temporale che propone individuando tre diversi momenti storici di elaborazione: gli anni Venti, di cui cita l’esempio del lavoro di Esfir Shub che riedita il footage dei cinegiornali secondo spunti presi dalle teorie sovietiche sul montaggio, o di Hans Richter che sperimenta attraverso i suoi “abstract films”; gli anni della Seconda Guerra mondiale, in cui i footage di fonti militari amiche e nemiche vengono ricomposti in film di propaganda (Why we fight, 1942-45 di Frank Capra), o si producono importanti innovazioni tecniche (Len Lye e Alberto Cavalcanti); infine il dopoguerra in cui il materiale di documentazione sull’Olocausto è rielaborato in forma di testimonianza feroce (i film presentati al Processo di Norimberga), oppure all’interno del cinema d’autore (il film di Resnais Nuit et brouillard, 1955). Leyda definisce i film di montaggio come prodotti di “idea” e “propaganda”, legandoli al concetto di “cinema intellettuale” preso in prestito dal linguaggio ejzenštejniano.

Solo molti anni dopo (circa trenta) compare un nuovo importante contributo sul tema, il libro di William C. Wees, americano di nascita e canadese di adozione, Professore Associato alla McGill University di Toronto e filmmaker lui stesso, Recycled images: the art and politics of found footage films,11 1993, che cita d’altra parte più volte il testo di Leyda come riferimento indiscusso. Secondo una categorizzazione prevalentemente diacronica, Wees traccia un percorso storico che va dal Modernismo al Postmoderno, dal collage all'appropriazione e dall'Avanguardia alla televisione, sottolineando il legame tra la storia e le forme filmiche. Il found footage che, attraverso montaggio, collage e sovrimpressioni, integra materiali precedentemente girati in nuove produzioni, è inquadrato come un sottogenere specifico del cinema sperimentale postmoderno. Nell’introduzione l’autore tiene a specificare che la sua ricerca si soffermerà in modo particolare sulla produzione nordamericana con limitati esempi europei, ammettendo subito l’impossibilità di studiare e citare tutti gli esempi esistenti di una pratica così diffusa.

Fondamentale la distinzione che lo studioso elabora tra found footage film e film with found footage: mentre i primi sono costituiti soltanto o quasi di materiale recuperato, i secondi sono film girati ex novo con inserzioni parziali di footage. Wees dedica il suo testo quasi esclusivamente alla prima categoria: in essa distingue i film in cui l’intervento sul footage è minimo, definiti “perfect left alone” (tra gli altri,

10 Jay Leyda, Films Beget Films, George Allen & Unwin, Londra, 1964.

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Perfect Film, 1986, di Ken Jacobs e Works and Days, 1969, di Hollis Frampton), e quelli dove l’autore si compiace in una rielaborazione massiccia (tra gli altri, Eureka, 1974, di Ernie Gehr e Pièce Touchée, 1989, di Martin Arnold). Per quest’ultimo gruppo sono individuate alcune sottocategorie che rispecchiano la tipologia di intervento: dilatazione, cambiamento nell’ordine delle sequenze, recupero da una sorgente singola o multipla. Il montaggio determina un’ulteriore linea spartiacque: esso può creare associazioni shot-for-shot, oppure successioni di sequenze concettuali, metaforiche o tematiche. Esistono perciò, nella visione di Wees, tre tipi di montaggio found footage: la compilation, il collage e l’appropriazione. Di queste l’autore offre una visualizzazione chiara che ne spiega le premesse, le dinamiche e gli esiti12:

METHODOLOGY SIGNIFICATION EXEMPLARY GENRE AESTHETIC BIAS

Compilation Reality Documentary film Realism

Collage Image Avant-garde film Modernism

Appropriation Simulacrum Music video Postmodernism

Un terzo gruppo di footage film è quello in cui le pellicole sono fisicamente stressate, tagliate, perforate, piegate, dipinte, ovvero alterate.

L’arco temporale esaminato da Wees, come fa notare Federico Rossin, viene sì diviso in due generazioni di filmmaker, quella coetanea a Bruce Conner e quella più giovane che lavora negli anni Ottanta, ma senza mai la volontà di distinguere gli autori secondo una lettura ieraticamente impostata e diretta da fattori temporali. L’analisi è affrontata invece secondo schemi generali applicabili a più lavori e a più epoche storiche. Il libro si chiude, poco prima della parte dedicata ai singoli autori, con una lunga quanto interessante apologia del “collage” e del “collage epico”, nelle sue declinazioni filmiche, definito come “il mezzo dell’Avanguardia tra i più efficaci a sfidare i presupposti tradizionali sulla natura della rappresentazione nell’arte.”13 Se nel collage cubista si realizzava non tanto la rappresentazione visiva dell’oggetto quanto la sua presenza letterale in qualità di frammento prelevato dal mondo reale, nel collage film il mondo reale è rappresentato dai mass-media che mettono a disposizione un rifornimento di immagini senza fine, pronte a essere catturate e dislocate. Mentre il collage ha un’accezione critica, l’appropriazione è accomodante;

12 Idem, p. 34.

13 Idem, p. 46, (traduzione mia). “[…] collage proved to be the avant-garde’s most effective means of

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mentre il collage sonda, mette in evidenza, crea contrasti, l’appropriazione accetta, livella, omogenizza. 14

Bruce Conner, testimonianza fondamentale all’interno del libro, in realtà smonta la proposizione del found footage come categoria e prospetta piuttosto una definizione atipica per questo termine: quella di “descrizione”. Allo stesso tempo nega la possibilità di accostare il found footage alla tecnica del collage, definito semplicemente “porre strati differenti di carta su una superficie piana”, e tantomeno a quella dell’assemblage, termine da lui considerato troppo onnicomprensivo, e suggerisce invece una definizione tecnica che rimanga aderente alla pratica delle origini, ovvero quella di montage.

In ultima analisi, la pubblicazione di Wees è sicuramente una tra le prime a muoversi in maniera sistematica tentando di scandagliare la superficie di un argomento ancora adesso piuttosto articolato; oltre a raccogliere alcune fondamentali riflessioni teoriche, essa ha il pregio di fornire al lettore approfondimenti e letture su numerosi lavori più o meno conosciuti, nonché presentare dei ritratti piuttosto precisi di alcuni tra i più importanti esponenti di questo procedimento.

Un'altra riflessione interessante sul tema è rappresentata dal catalogo della mostra Desmontaje: Film, Vídeo/Apropiación, Reciclaje curata da Eugeni Bonet nel 1993 presso l’IVAM di Valenzia.15 Alla stregua di Wees, anche Bonet non è digiuno in fatto di pratica filmica: anche lui regista sperimentale oltre che curatore e teorico su questioni legate al video e all’arte contemporanea, attraverso un linguaggio fresco e poco accademico, perlustra i territori della riappropriazione regalando spunti molto interessanti. Nello statement introduttivo Bonet dichiara immediatamente gli intenti della sua ricerca. Trattandosi di una mostra, e non solo di uno scritto, il suo approccio si rivela molto più puntuale nel riferimento diretto agli esempi e dinamico nella presentazione. L’autore giustifica la presenza massiccia di lavori e registi provenienti dagli Stati Uniti perché questi sono considerati il più vasto impero dell’audiovisivo nel mondo. La sua ricognizione sfiora comunque anche le ricerche di Spagna, Italia, Germania e paesi dell’est, consapevole, come lo stesso Wees nella sua prefazione, dell’esistenza di una lista immensa di nomi e titoli che difficilmente troveranno soddisfazione sotto un unico sguardo. Bonet prosegue con un’indagine dei termini “appropriazionismo” e “plagiarismo”, sottolineando la necessità di ricorrere a una serie di parole chiave in grado di spiegarli. Collage e montaggio, in primis, da cui fa discendere poi una serie di derivati: assemblage, decol/age, de-collage, détournement, decostruzione, fino ai concetti espansi di installazione, multimedia e media art.

14 Idem, pp. 46-47.

15 Eugeni Bonet, Desmontaje: Film, Vídeo/Apropiación, Reciclaje, IVAM Centre Julio González,

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Stimolante la riflessione sulla proprietà come furto ereditata dal pensiero di Proudhon16 , nella quale il diritto di proprietà è definito come una “finzione legale”, un nonsense, perché la proprietà di per sé è antitetica al diritto. Proprio per sfuggire qualsiasi implicazione legale del termine “riappropriazione”, qui inteso solo in maniera metaforica, Bonet ricorre anche a quello di “riciclare” col significato di recuperare, salvare, riportare alla luce. Prendendo in prestito la definizione riportata in un articolo dedicato agli Archival Art Film dalla filmmaker Sharon Sandusky, l’autore descrive i film di montaggio come il prodotto di diverse pratiche: quella archeologica, quella psicoanalitica, quella dialogica e quella ecologica.17 Archeologia nel senso di recupero di sedimenti grattati dallo strato superficiale del magma pulsante di tutte le immagini in circolazione; psicoanalisi come ricerca e psicoterapia culturale realizzata attraverso l’arte della memoria e del disseppellimento (comune all’archeologia) di tutte quelle cose, non solo dimenticate, ma rimosse e represse dalla coscienza attiva; dialogo nel senso di confronto tra le immagini e adozione di un metalinguaggio che permetta di farle interagire al di sopra di ogni schema; ecologia nel senso metaforico di reindirizzamento del materiale preesistente verso un nuovo utilizzo, senza la garanzia di onestà e purezza del prodotto finito che il termine richiede in ambito scientifico.

Anche Bonet si rifà al caposaldo di Jay Leyda concorde con lui nell’affermare che “non sapremo mai chi per primo ha rieditato e manipolato spezzoni di notiziario per propositi personali […] ma possiamo essere sicuri che la pratica è tanto antica quanto gli spezzoni di notiziario stessi.”18 La manipolazione può essere di varia natura a seconda del montaggio e del sonoro utilizzato: di propaganda ma anche

16 Idem, p. 138. Rif. a Pierre-Joseph Proudhon, Lettre à M. Blanqui sur la propriété : deuxième

mémoire, Prévot, Parigi, 1841, tradotta in inglese nel catalogo: “If I were asked to answer the following

question: ‘What is slavery?’ and I should answer in one word, ‘Murder!’ my meaning would be understood at once. No further argument would be required to show that the power to take from a man his thought, his will, his personality, is a power of life and death, and that to enslave a man is to kill him. Why, then, to this other question: ‘What is property?’ may I not likewise answer ‘Theft’?” “Se mi fosse stato chiesto di rispondere alla seguente domanda: 'Che cosa è la schiavitù', avrei risposto con una sola parola 'Omicidio!', e il mio pensiero sarebbe stato capito subito. Nessun altro argomento sarebbe necessario per dimostrare che il potere di prendere da un uomo il suo pensiero, la sua volontà, la sua personalità, è un potere di vita e di morte, e che ridurre in schiavitù un uomo significa ucciderlo. Perché, allora, a questa altra domanda: 'Che cos'è la proprietà?' Non posso rispondere allo stesso modo 'furto'?” (traduzione mia).

17 Idem, p. 141-142. Rif. a Sharon Sandusky, Towards an Introduction to the Archival Art Film, nel

catalogo “European Media Art Festival ’91”, Osnabrück, 1991, originariamente pubblicato in tedesco sulla rivista “Blimp”, no. 16, Graz, Estate 1991.

18 Idem, p. 144, “we’ll never know for sure who first re-edited or manipulated pieces of newsreel for

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di attacco politico e di satira. L’autore dedica un paragrafo importante, For and against cinema, TV and video, alla distinzione tra opere in pellicola e in video, sottolineando non solo le differenze sostanziali del mezzo, quanto quelle dei soggetti presi in esame. Bonet individua perciò due procedimenti fondamentali: la compilation (La Verifica Incerta, 1964-65, di Baruchello e Grifi, Hors Opera, 1970, di Charles Levine, The Airplane Kiss, 1973, di Betty Ferguson, tra gli altri) e l’inspection (Marilyn Time Five, 1969-1973 di Bruce Conner, Tom Tom the Piper’s Son, 1969-71 di Ken Jacobs, The Politics of Perception, 1973, di Kirk Tougas, tra gli altri), oltre ad alcuni temi ricorrenti all’interno delle opere video che mostrano spesso lo sguardo rivolto al cinema (stereotipi, miti, sottotesti, storia e sottostoria, fonti e iconografie cinematografiche). Il catalogo curato da Bonet ospita inoltre un intervento di Wees, Found Footage and Epic Collage, (ovvero l’ultimo paragrafo del suo libro sul found footage che esce poco dopo nello stesso anno) e un testo ironico quanto interessantissimo di John Wyver, A Poached Text, costituito unicamente di estratti e citazioni presi in prestito da altri libri che riguardano ovviamente il tema affrontato nel catalogo, in cui l’autore si eclissa dietro le virgolette che accompagnano i testi per riapparire solo impercettibilmente nelle parentesi che completano le informazioni mancanti (nomi, date, puntualizzazioni). Questo contributo, attraverso l’impiego tautologico della pratica stessa che desidera spiegare (collage, riuso, montage), mette in luce, più di ogni altro testo teorico sulla questione, due dati importanti: il primo è la presenza autoriale che, sebbene sfaccettata e sfilacciata, si staglia ancora prepotente dietro un’operazione di questo genere e che, sebbene neghi l’artefatto (nel senso di produzione materiale di un prodotto originale sortito dall’ingegno), esalta la “scelta” quale fattore imprescindibile dell’opera d’arte, il secondo è la dimostrazione che, sebbene sia possibile parlare per pure citazioni, visto che il testo letto tutto di seguito appare coerente e di una certa logicità, la presenza (funzionale quanto fastidiosa) delle virgolette induce a perdere la concentrazione sul contenuto per astrarsi su una visione a blocchi di concetti seguiti dalle note esplicative a fondo pagina. Le parole assumono una forma quasi scultorea, come i tasselli di un mosaico che per quanto perfetto non si trasformerà mai in una pennellata continua. Le virgolette asseriscono la differenza: la deportazione di contenuti da fonti esterne è suggellata da quegli apostrofi che aprono e chiudono frammenti di discorsi riportati.

Un altro ospite illustre di questa ricca pubblicazione è Yann Beauvais, anche lui filmmaker, critico e curatore, che dalla fine degli anni Ottanta scrive a proposito di cinema sperimentale con una particolare predilezione per il found footage. Il suo intervento, Inside out-takes19, offre una panoramica ad ampio raggio che abbraccia

19 Si tratta una versione rivista e ampliata di un saggio pubblicato in tedesco sotto il titolo Found

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registi di varie generazioni, dagli anni Venti (Adrian Brunel, Esfir Schub, Dziga Vertov) agli anni Trenta (Henri Storck, Germaine Dulac), saltando poi agli anni Cinquanta e Sessanta (Kenneth Anger, Ken Jacobs, Martin Arnold, Len Lye, Guy Debord, Maurice Lemaître), e passando per i Settanta (Al Razutis, Craig Baldwin, Ernie Gher, Malcom Le Grice, Artavazd Pelechian). Egli dedica poi una lunga ricognizione all’uso del found footage da parte del Lettrismo fino ad arrivare agli anni Ottanta e Novanta con gli esperimenti di Paolo Gioli, The Schmelzdahin group, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Caroline Avery e Cécile Fontaine. In questo modo Beauvais traccia una linea temporale ed evolutiva della pratica, scorgendo differenze sostanziali tra i primi esperimenti di certo cinema strutturale e quelli più contemporanei di seduzione e rielaborazione molecolare del film. In chiusura di saggio l’autore fa un accenno interessante all’impiego del found footage in contesti particolari come quelli delle minoranze etniche o sessuali, per i quali la riappropriazione e il détournement si rivelano tecniche di forte impatto nella dinamica di ribaltamento di situazioni e valori precostituiti.

Il catalogo di Bonet assolve dunque a una funzione fondamentale, quella di dare voce a punti di vista differenti di esperti del settore su una materia tanto dinamica quanto sfuggente. Un catalogo che più che illustrare semplicemente le proprie scelte espositive, raccoglie testimonianze e riflessioni generali e sostanziali su una pratica che proprio negli anni Novanta sembra essere particolare oggetto di studio, indagine e cura. Non si dimentichi, infatti, che nel 1992 si tiene a Lucerna il primo festival di “Found Footage Film”, curato da Cecilia Hausheer e Christoph Settele che per l’occasione pubblicano anche un catalogo nutrito di apporti altrettanto interessanti e inediti, tra gli altri quelli di Standish Lawder, James Peterson, Phil Solomon, William C. Wees e uno statement di Craig Baldwin.

Qualche anno più tardi, nel 2000, Nicole Brenez, nel saggio indispensabile Cartographie du found footage,20 lavora invece alla costruzione di una cartografia formale, fornendo un inventario accurato dei differenti tipi di riuso, senza alcuna gerarchia cronologica. Come accade per le ricognizioni elaborate da Leyda, Wees e Bonet, ci troviamo anche qui di fronte a una categorizzazione soggettiva, opinabile, arbitraria che non trova riscontro in nessun presupposto, per così dire, “scientifico”, ciò dovuto alla quantità di materiale a disposizione e alla complessità dell’argomento

anche frammenti di un altro testo più tardo, Lost and Found, originariamente pubblicato in Cecilia Hausheer, Christoph Settele ( a cura di), “Found Footage Film”, Lucerne: VIPER/zyklop verlag, 1992. Il titolo originale, Plus dure sera la chute, esprime un gioco di parole tra il rimando al titolo di un film e il riferimento a “chutes”, nel senso di “out-takes” ovvero scarti di film, ma anche “caduta”.

20 Nicole Brenez, Pip Chodorov, Cartographie du found footage, “Exploding”, Hors Série, 2000 (testo

contenuto nella pubblicazione che accompagna il film di Ken Jacobs, Tom Tom the Piper’s Son, Re:voir, Parigi, 2000).

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trattato. Tutti gli studi sul found footage portano, infatti, inevitabilmente con sé l’originalità del punto di vista personale, il background, il taglio critico e la scelta dei lavori da analizzare di chi li compie.

Pochi anni prima Brenez scrive il libro De la figure en général et du corps en particulier, l’invention figurative au cinéma, 1998, 21 nel quale formula un metodo (l’analisi figurale) capace di identificare nel film stesso gli strumenti utili per la propria analisi (la figura e il corpo). Ogni film è definito, infatti, come la traiettoria di un corpo (figure) che entra in relazione con gli altri corpi, con il film e con la cultura che lo ha prodotto e lo ha recepito, generando una mappatura che esula dall’intreccio e dalla storia raccontata. Il cinema è analizzato da Brenez secondo dinamiche di rapporti più che secondo entità specifiche o analisi strutturali. All’autrice è riconosciuta la capacità e l’abilità di creare una metodologia e un vocabolario inedito di studi figurativi per il cinema.

La Cartografia appare due anni dopo la sua uscita (2002) anche sotto il titolo di Montage intertextuel et formes contemporaines du remploi dans le cinéma expérimental22. In questo lungo articolo Brenez si cimenta in una categorizzazione interessante e originale sul reimpiego delle immagini. A differenza degli autori che l’hanno preceduta negli studi legati al found footage, l’autrice non conta un background da filmmaker, ma si presenta piuttosto come una studiosa a 360°. Le sue intuizioni sono, infatti, costruite secondo uno schema cognitivo magistralmente orchestrato che ricalca con determinazione l’impostazione categoriale a grappolo tipica della scuola francese. Mentre le categorie enunciate da Wees e Bonet risultano fluide quanto parziali e sfumate, quelle di Brenez si presentano come possibili ritratti da manuale. La scelta del termine “cartografia” lascia da subito intuire le intenzioni dell’autrice: costruire un insieme di conoscenze verosimilmente scientifiche, tecniche e artistiche finalizzate alla rappresentazione simbolica ma veritiera di informazioni intorno a un determinato argomento e, comunque, in relazione al luogo geografico nel quale si realizzano. Alla cima della piramide la studiosa distingue tra reimpiego intertestuale (definito in re) e riciclaggio (o reimpiego in se). Di riciclaggio parla sia come endogeno (trailer, autosintesi, versione) che come esogeno (stock-shot, film di montaggio, meta-documentario e infine found footage). Nella grande famiglia del found footage Brenez individua cinque “usi” differenti: elegiaco, critico, strutturale,

21 Nicole Brenez, De la figure en général et du corps en particulier, l’invention figurative au cinéma,

De Boeck Université, Bruxelles, 1998.

22 Nicole Brenez, Montage intertextuel et formes contemporaines du remploi dans le cinéma

expérimental, Cinémas: revue d'études cinématographiques / Cinémas: Journal of Film Studies,

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materiologico, analitico23.

Nell’uso elegiaco Brenez riconosce l’interesse feticistico nei confronti di alcuni passi scelti di un determinato film che, rimontati insieme, sono in grado di innescare un atteggiamento celebrativo nei confronti di un attore o di un aspetto specifico del film di origine: Rose Hobart (1936) di Joseph Cornell, Her Fragant Emulsion (1987) di Lewis Khlar, per fare degli esempi.

L’uso critico è quello più diffuso e consiste nell’impiego di sequenze cinematografiche o estrapolate da filmini di famiglia deviate e stravolte secondo uno stile molto spesso dissacratorio. Nell’uso critico si riconoscono diverse soluzioni formali: l’anamnesi (anamnèse), ovvero la raccolta e il montaggio di immagini di natura simile che mostrano nient’altro che loro stesse, eludendo significati ulteriori e sovrasensi (Crossing the Great Sagrada, 1924, di Adrian Brunel, L’Histoire du soldat inconnu, 1931, di Henri Storck, Va te faire enculer, 1999 di Yves-Marie Mahé), il détournement, in cui spesso è l’accostamento arbitrario di immagini e sonoro eterogenei a determinare la deviazione (La dialectique peut-elle casser des briques?, e Les Filles de Kamaré, 1972, di René Viénet, Come Out, 1966, di Steve Reich), il cambiamento/esaurimento (la variation/l’épuisement), che sulla base di un medesimo testo filmico introduce variazioni plastiche, visive e sonore (Lettre de Sibérie 1958 di Chris Marker, The Politics of Perception, 1973, di Kirk Tougas), il ready-made, che sposta completamente il senso dell’oggetto senza però toccare lo stesso (Perfect Film, 1986, di Ken Jacobs, Bad Burns di Paul Sharits, Chutes e Une oeuvre, 1968, di Maurice Lemaître, Ruines arrangées, 1984, di Dominique Païni, Terre Adélie, 1999, di Émeric de Lastens).

L’uso strutturale si rifà invece ai meccanismi del cinema strutturale, appunto, che non si attarda su immagini e sequenze specifiche, ma si concentra sui processi autoriflessivi che riguardano il cinema in qualità di mezzo (Clouds, 1969, di Peter Gidal, Silver Surfer, 1972, di Mike Dunford, e Pièce touchée, 1989 di Martin Arnold).

L’uso materiologico concerne l’esplorazione della pellicola nelle sue qualità chimico-fisiche: la chimica dell’emulsione (Rien que les heures, 1927, di Alberto Cavalcanti), gli strati del fotogramma (Dellamorte Dellamorte Dellamore, 2000, di David Matarasso e gran parte degli esperimenti di Cécile Fontaine), le tecniche di lavorazione (Standard Gauge, 1984, di Morgan Fisher) e il raccordo filmico (Homage

23 Ibidem, “Quels sont les principaux usages du found footage ? On en proposera cinq, que les oeuvres

singulières approfondissent, associent ou complètent: élégiaque; critique; structurel; matériologique; analytique.” p.55. “Quali sono I principali usi del found footage? Se ne proporranno cinque, che le opere d’arte approfondiscono, associano o completano: elegiaco; critico; strutturale; materiologico; analitico.” (traduzione mia).

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