Il frammento nutre i contenitori della grammatica filmica strutturando un nuovo linguaggio. D’accordo con la distinzione elaborata da Omar Calabrese tra dettaglio (che richiede un’operazione di focalizzazione di un soggetto su un oggetto) e frammento (che pur essendo parte di un testo preesistente non ne contempla la compresenza), definiremo l’operazione di ripristino del found footage una pratica del frammento.
Sempre Calabrese afferma che “solo frammentando ciò che è stato già fatto se ne annulla l’effetto”, ed elabora la teoria detta “della de-archeologizzazione”,80 secondo cui le opere del passato vengono frammentate per estrarre da esse materiali che compongano una nuova tavolozza di colori. Rispetto alla messa in evidenza di una parte su un tutto, la frammentazione del tutto per la parte gioca, in accezione performativa, un significato differente: il soggetto frantuma il testo di partenza per spogliarlo dei suoi significati primordiali e investirlo di nuovi contenuti. L’appartenenza del frammento al terreno originario è così superata: esso si manifesta singolarmente come oggetto in sé senza dover abdicare più a una totalità che lo rende orfano e al tempo stesso libero.
Lo studioso André Habib, che, come ricordato precedentemente, nel 2008 ha presentato una tesi di dottorato proprio sull’immaginario della rovina nel cinema, mette in luce la componente fortemente performativa delle tendenze che, a partire dagli anni Sessanta in particolare, si riappropriano del materiale cinematografico.
80 Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Bari 1989, cit. in Nicola Dusi, Lucio Spaziante, a cura
Citando l’esempio del lavoro del giovane Karl Lemieux81, Habib coglie la volontà da parte degli artisti di innescare processi di “rimediazione” nei confronti del repertorio in loro possesso. Le immagini vengono ri-elaborate a mano, ri-stampate, ri-filmate. C’è un ritorno evidente alle pratiche che contraddistinguevano la figura dell’operatore/proiezionista del cinema delle origini che, attraverso la manovella del proiettore, dirigeva la proiezione del film come un direttore d’orchestra, velocizzando, rallentando e sospendendo lo scorrere delle immagini a seconda della colonna sonora eseguita dal vivo e della narrazione. Un elemento di improvvisazione che ora sembra tornato di attualità e che spinge gli artisti a riportare allo scoperto il meccanismo di produzione delle immagini e a disvelare gli apparati di funzionamento delle stesse, nonché le caratteristiche connaturate nel dispositivo. Habib, commentando la performance Western Sunburn (2006) di Lemieux - che prevede determinati momenti di pausa nella proiezione del film (vecchi western scovati al banco dei pegni) provocando bruciature su alcune parti della pellicola a causa dell’esposizione prolungata alla luce - individua un senso di timore, disagio e melancolia comune al lavoro di numerosi filmmaker. In essi si avverte la volontà di giocare con la natura medesima del cinema, con il suo essere effimero per la materia stessa di cui è composto.
Ces images sont, en effet, le théâtre d’un étrange combat entre des séries de forces contraires, maintenues en tension, entre l’image et la matière de l’image, tension entre l’impression et sa décomposition, entre l’histoire et la nature, entre la narration et sa ruination, ou la monstration de sa ruine - elles sont, à l’agonie, précisément puisqu’elles oscillent entre la vie et la mort, sur le seuil tendu entre leur survivance et leur disparition. Il y a donc un combat entre l’image et le support dans lequel elle est prise - et sur lequel elle n’a pas toujours prise.82
I filmmaker enfatizzano il gesto di riappropriazione come un atto di creazione e distruzione al tempo stesso, approfittando della stratificazione di
81 André Habib, Performing the ruin: experimental cinema and contemporary performances (remarks
on the work of Karl Lemieux), in Philippe Dubois, Frédéric Monvoisin, Elena Biserna (a cura di), Extended cinema. Le cinéma gagne du terrain, Zeta Cinema n. 25, inglese e francese, Campanotto
Editore, Pasian di Prato (UD), 2010, p. 255.
82 André Habib, Les films de Bill Morrison. Notes sur l’imaginaire de la ruine au cinéma, cit.. “Queste
immagini sono, in effetti, il teatro di una strana battaglia tra una serie di forze contrarie, mantenute in tensione, tra l’immagine e la materia dell’immagine, tra la stampa e la sua decomposizione, tra la storia e la natura, tra la narrazione e la sua rovina, o la dimostrazione della sua rovina – esse sono all’agonia, proprio perché oscillano tra la vita e la morte, sulla superficie tesa tra la loro sopravvivenza e la loro scomparsa. Vi è dunque una lotta tra l'immagine e il mezzo attraverso il quale viene catturata – e sul quale essa non ha più presa.” (traduzione mia), corsivo nel testo, gioco di parole tra narration-ruination e prise-reprise non traducibile in italiano.
temporalità che si viene a generare. Proprio come accade con i reperti, il frammento ritrovato viene rispolverato e riportato alla luce, pezzo unico di un momento ben determinato della storia. Passato il massimo splendore di un’epoca imbevuta di “riproducibilità tecnica”, di cui il cinema incarna il prodotto sintomatico, gli artisti, a partire dagli anni Sessanta, si riappropriano del film nella sua accezione materiale e lo trattano come un reperto, considerandone la preziosità intrinseca e riflettendo sulla deperibilità della sua natura. La pellicola, infatti, oltre a essere facilmente distruttibile e infiammabile, richiede condizioni particolarmente idonee alla sua conservazione. La 35mm standard (istituzionalizzata nel 1908-1909) è, fino all’inizio degli anni Cinquanta, una pellicola di cellulosa di nitrato, uno strato di gelatina, e un’emulsione di sali d’argento sensibili alla luce. Un supporto fatto di materia organica altamente instabile e infiammabile, che nel 1951 è bandito, per essere sostituito da una pellicola sintetica, detta di sicurezza, composta di cellulosa di acetato. Le pellicole di nitrato, residui repertuali stoccati in bunker isolati a temperatura controllata, non possono ormai essere maneggiate che da persone esperte e ovviamente nemmeno proiettate. Il problema non risiede solo nel rischio elevato di infiammabilità (ad appena 40 gradi della scala Celsius esse prendono fuoco consumandosi in pochi istanti), ma anche nella velocità con la quale si deteriorano andando incontro alla sparizione totale. Un destino che può essere rallentato, certo, ma non impedito.
Il ritrovamento di footage datato innesca perciò due pensieri paritetici: da una parte la volontà di conservare e preservare il materiale, e dall’altra la possibilità di rendere ad esso giustizia riattivandolo e riproponendolo sotto una veste rinnovata.
D’accordo con Habib:
Da una prospettiva mediatica o intermediatica, questi film e queste performance sono particolarmente interessanti perché si presentano come uno dei tanti ‘sintomi’ di un momento transizionale, se intendiamo ciò che Cerchi Usai chiama ‘Epoca Buia digitale’. Essi sono parte di un più ampio movimento di pensiero, che tende a re-infondere l’‘aura’ al film, l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’“unica” esperienza filmica sul film.”83
D’altra parte, Habib prosegue ripercorrendo e smontando la sua stessa tesi, mettendo in luce il fatto che, comunque, la condizione attraverso cui questi lavori diventano accessibili e fruibili al pubblico, disattende la sfida all’idea stessa di unicità
83 Idem, p. 258, (traduzione mia), corsivo nel testo. “But from a mediatic or intermediatic perspective,
these films and these performances are also interesting precisely because they can appear as one of many “symptoms” of a transitional moment, as we enter what Cerchi Usai of course calls “the digital Dark Age.” They are part of a larger movement of thought, that tends to re-infuse aura to film, the hic and nunc, the here and now of the “unique” film experience on film.”
e di auraticità del pezzo. Circolando in formato digitale o attraverso la rete “questi film, che sono ‘espressione’ dell’aura e dell’autenticità del medium, di un certo ‘valore culturale’ del cinema, […] molto spesso ci raggiungono […] attraverso mezzi che giustappunto confermano quel tramonto e sparizione dell’aura predetta da Benjamin.”84
Il cinema è di per sé un potente creatore di ricordi, dal momento che impiega esso stesso operazioni tipiche della nostra memoria. La percezione della storia è, infatti, raffigurabile con una linea che alle volte aderisce e alle volte prende le distanze da quella della Storia “ufficiale”: da una parte, c’è quindi la “storia privata” che riguarda la nostra vita in relazione agli eventi universali, esperita in prima persona, dall’altra la “storia condivisa”, tempo, fatti, significati, di cui abbiamo conoscenza non sempre diretta. I film di recupero simulano molto spesso il meccanismo memoriale umano: l’assenza di vena narrativa, se non quella sincopata da spezzoni e stralci che accennano alla possibilità di una storia senza però compiacerne mai i presupposti, sembra trovare affinità profonde con le dinamiche del sogno e del ricordo. Episodi, fatti, eventi galleggiano sulla superficie della Storia (con la S maiuscola) senza più legami evidenti con essa, ma in attesa di essere riattivati e resi immortali dalla mente di colui che li ha generati o, ancor meglio, che li ha ritrovati. I brani cinematografici irrompono su questa medesima superficie, costituendo a loro volta dei ricordi potenziali che poco differiscono da quelli reali. Esperienza vissuta e immagini viste sullo schermo si rimescolano fino a confondersi in un improbabile contenitore unico di souvenir. Essi, sembrano dirci i filmmaker che li impiegano, una volta che non esisteranno più sopravvissuti a raccontare il passato, costituiranno l’unica traccia capace di testimoniare la realtà di quegli avvenimenti. Gli
stock di pellicole e di girato reimpiegato non costituiranno solo la prova dell’esistenza
di un mondo ormai scomparso, ma si presenteranno come ricordi generati da quello stesso mondo, sostituendosi probabilmente ai ricordi reali dell’esperienza diretta. I cineasti, infatti, usano spesso il materiale visivo sopravvissuto come si trattasse di propri ricordi personali. Le immagini girate prendono il posto di quelle presenti nella memoria confondendo ciò che fa capo alla nostra esperienza con ciò che non può. Il processo di montaggio tiene spesso conto di queste dinamiche favorendo le connessioni afasiche, la mancanza di omogeneità e di narratività consequenziale. Una forma di narratività, tuttavia, perdura ancora sebbene non si avvalga più delle regole di composizione classica.
84 Idem, p. 260, (traduzione mia), corsivo nel testo. “In other words, these films, which are
“expressions” of aura and the authenticity of the medium, of cinema’s “cultural value” up to a certain extent, […] very often reach us […] through medias that in fact confirm the waning and disappearance of aura which Benjamin had predicted.”
La costruzione di un film tradizionale implica comunque la stratificazione di differenti tipologie di memoria: quella dell’autore, quella dei personaggi, quella del pubblico, quella della Storia comune. Deleuze spiega in modo efficace la questione affermando che “la memoria non è in noi, ma siamo noi che ci muoviamo all’interno di una memoria-Essere, una memoria-mondo:”85 Se consideriamo, infatti, il ricordo come una reminiscenza del passato vissuta da un singolo uomo, allora, si produrrà di fronte a noi una moltitudine di storie che non potranno essere ricomposte in maniera omogenea. Al contrario, si può considerare il passato come preesistente alla percezione umana, come un dominio in gran parte anteriore alla nostra esistenza, e del quale i nostri ricordi non sono che dei frammenti strappati a una grande totalità.
Una concezione che trova riscontro nel concetto di “archivio” come luogo fisico o mentale dove tutti questi brani sono conservati ed esperiti in una forma di bene comune. La memoria cinematografica del mondo si erge a categoria assoluta alla stregua della memoria tout court. L’immagine in movimento, così come la fotografia, possiede contemporaneamente un carattere di istantaneità e di eternità, che difficilmente il ricordo umano ordinario può annoverare. Essa ricrea, durante il tempo della proiezione, dei mondi scomparsi, ridando loro solo una parvenza di vita e reinserendoli all’interno di una temporalità che lo spettatore può nuovamente sentire. L’immagine in movimento rappresenta la più disperata obiezione all’oblio dell’epoca contemporanea. Come afferma Arturo Mazzarella, parlando del mezzo fotografico, è la fotografia a “produrre” l’evento, che altrimenti non esisterebbe. 86 In un’epoca in cui il passato si è invertito col presente, l’unica chiave di accesso al reale l’abbiamo attraverso la finzione. Il medium diventa luogo di “configurazione” che dà senso alla storia. Mazzarella richiama dunque l’etimo originario del termine finzione”: “fingere” dal latino vuole dire plasmare, modellare, forgiare, dare forma e figura, ovvero, esattamente il contrario di ciò che significa oggi. Solo successivamente, nella sua declinazione metaforica ha assunto dunque il significato di immaginare e quindi simulare, inventare, dimostrare ad arte ciò che non è. Il processo di resistenza di questo modo di fare medium acquista così ancora più senso. Come ricorda Andrea Cortellessa87, in ogni fotografia (che noi trasleremo qui in film) esiste un “inconscio
85 Gillez Deleuze, Cinema II. L’Image-temps, Les Éditions de Minuit, Parigi, 1985, L’immagine tempo.
Cinema II, Ubulibri, Milano, 1989, trad. it. di Liliana Rampello (2010), p 129.
86 Arturo Mazzarella in un intervento il 13 dicembre 2011 nel contesto di una tavola rotonda intorno
alla mostra di Monica Haller The Veterans Book Project, presso il Macro di Roma, con la partecipazione di Andrea Cortellessa, saggista e critico letterario, lo stesso Mazzarella, storico e teorico della letteratura, Tommaso Pincio, narratore e saggista. La tavola rotonda è stata introdotta e moderata da Stefano Chiodi alla presenza dell’artista, (appunti miei).
87 Facendo riferimento, all’interno della medesima tavola rotonda, al Piccolo saggio sulla fotografia
ottico”, un conflitto tra tre differenti personalità: la volontà di chi commissiona, quella di chi esegue e quella del soggetto rappresentato. A ognuna di queste personalità mancherà sempre una parte del tutto, su quella fotografia specifica, essendo in grado di esperire solo la propria visione particolare. La macchina fotografica diventa protesi, strumento di prolungamento del braccio e dell’occhio umano. Ma nel suo “inquadrare la scena” viene meno a ogni possibilità di obiettività sull’evento, perché ciò che è escluso dall’obiettivo è perso per sempre e sprofondato nell’oblio. Così per il film: la macchina da presa ritaglia e non concede.
A questo proposito ha senso citare la spiegazione che Fabio Mauri diede in una conversazione del 2007 interrogato sul perché non abbia mai voluto girare un film di suo pugno:
Me lo hanno chiesto per molto tempo, e di solito la mia risposta è stata “Perchè ogni volta che metto l’occhio dentro la macchina da presa, lo sposto subito per vedere che c’è intorno.” Preferisco osservare tutta la gente che assiste due attori che recitano sotto un albero, piuttosto che i due attori stessi. E allora ho capito che non sono un regista, perchè ai registi è proprio quell’imbuto lì che li interessa, perchè isola dal mondo.”88
Allora ci si può domandare, come Chris Marker nel film Sans Soleil (1983), come “fa la gente che non filma, che non fotografa, che non registra, come faceva l’umanità per ricordare…”89
I ricordi cinematografici si sovrappongono ai ricordi del mondo promuovendo una oggettività apparente quanto ingannevole. A partire dal XIX secolo la meccanica delle immagini (la fotografia prima e il cinema poi) ruba terreno a ogni forma pregressa di registrazione mnemonica (disegno, pittura, scrittura) conquistando per sé il titolo di “obiettivo”, sebbene poi non sia realmente in grado di onorarlo. E’ lecito dire che esistono differenti mezzi di registrazione e che ognuno di essi ha accesso a differenti strati di Storia: il mezzo filmico è indubbiamente il più sensibile e dinamico in termini di comunicazione e velocità del messaggio. L’ambiguità è generata però dalla sua stessa natura: il film registra ma inevitabilmente esclude, impressiona ma rimane imbrigliato in una volontà specifica (quella del regista o del suo committente), attraverso il montaggio concentra, riassume e racconta ma non si esime dal commentare.
Queste riflessioni generiche sul mezzo, sono, d’altra parte, utili a inquadrare la natura e la valenza delle immagini prese in esame dai nostri practitioners. Le
88 Marta Silvi (a cura di), Conversazione con Fabio Mauri, pp. 108-113, in Maria Rosa Sossai, Film
d’artista. Percorsi e confronti tra arte e cinema, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2008.
immagini d’archivio, soprattutto quelle di propaganda e quelle di momenti storici particolari, sono difficilmente considerate testimonianze attendibili dell’epoca in cui sono state girate. Questo perché committenza e scopo sono una presenza costante: esse raccontano, sì, il periodo storico in cui sono state realizzate, ma non permettono una lettura innocente dei fatti raccontati. Un esempio aiuterà a spiegare il concetto: si tratta della scena cult di Lettre de Sibérie (1958) di Chris Marker, film documentario di 62’, in cui il regista propone la ripetizione, per tre volte, di una sequenza tratta da documenti d’archivio girati nella città di Iakoust, capitale della Repubblica socialista sovietica di Yakoutie, durante il periodo comunista. Per ognuna di esse Marker elabora un diverso commento e una diversa colonna sonora, formulando la prova inconfutabile che, lasciato invariato il testo filmico, è comunque possibile plasmare e invertire il significato e il messaggio originali. Ciò dimostra che qualsiasi lavoro sulle immagini d’archivio e su quelle documentarie presuppone di per sé una forzatura, più o meno dichiarata, nei confronti del materiale originale, una rilettura e una reinterpretazione che non può che essere soggettiva. Qual è la verità di un’immagine? Ne esiste veramente una? E’ possibile utilizzare le stesse immagini indifferentemente per enunciare propositi contrapposti, ieri apologia del comunismo, oggi condanna feroce dello stesso? I film di found footage sembrano dare risposta a questi domande: essi, infatti, non si servono mai delle immagini come semplice prova storica ma ne mettono in luce la qualità del supporto. Lo sguardo che essi proiettano sul passato non ha perciò niente a che vedere con una prospettiva puramente diacronica, ma offre una possibilità di lettura metastorica. I film di found footage costituiscono perciò un ponte che mette in collegamento l’istante in cui le immagini sono state girate e il momento in cui qualcuno le ha riscoperte e recuperate.