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L’art. 2103 cod. civ. si occupa di stabilire il principio dell’immodificabilità in pejus delle mansioni ma allo stesso tempo riconosce una certa flessibilità nell’organizzazione del lavoro, connaturata alle stesse caratteristiche dell’azienda. Proprio per questo motivo, l’articolo prevede in capo al datore di lavoro la facoltà di richiedere mansioni differenti da quelle previste nel contratto al momento dell’assunzione o successivamente, ma con dei limiti ben precisi. La norma specifica infatti tre tipologie di mansioni alle quali il prestatore di lavoro deve essere adibito: quelle di assunzione, quelle corrispondenti alla categoria superiore e quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte. A conti fatti, per quanto riguarda gli spostamenti orizzontali, quello che interessa è il concetto di equivalenza delle mansioni. Si tratta di un concetto di non facile definizione: proprio per questo sia la dottrina che la giurisprudenza hanno avuto opinioni oscillanti a riguardo, a testimonianza della difficoltà di individuare un punto di equilibrio fra le esigenze di flessibilità e quelle di garantismo. Le difficoltà di inquadrare i termini della questione risiedono tutte nell’assenza di riferimenti normativi precisi. L’equivalenza risulta essere una clausola di carattere generale e non è possibile fornirne una definizione aprioristica sul piano astratto: questo per alcuni è un grave limite strutturale della norma, ma per altri è il suo pregio poiché permette, al mutare delle circostanze, un aggiornamento di contenuti immediato e sempre diretto alla tutela

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effettiva del lavoratore72. Cerchiamo adesso di ricostruire il percorso fatto fino a oggi da dottrina e giurisprudenza in tema di equivalenza partendo da un dato di fatto: l’equivalenza è un concetto relazionale e proprio per questo il primo passo da compiere è quello di capire quale sia il suo termine di confronto. In altre parole, occorre capire rispetto a che cosa si possa affermare che una mansione è effettivamente equivalente. In un secondo momento, si cercherà di individuare il parametro di misurazione dell’equivalenza.

L’articolo 2103 cod. civ. individua tre termini di confronto, l’ultimo dei quali direttamente riferito all’equivalenza: le mansioni di assunzione, le mansioni superiori e le ultime mansioni «effettivamente svolte». Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, per « ultime mansioni effettivamente svolte» si intendono quelle inizialmente dedotte nel contratto se siamo all’inizio del rapporto, oppure quelle differenti ma comunque stabilmente eseguite a seguito di un precedente spostamento definitivo73. In altri termini, non si fa riferimento a qualsiasi tipo di mansione occasionalmente svolta, ma a quelle stabilmente effettuate. Se siamo dunque all’inizio del rapporto, bisognerà guardare le mansioni di assunzione(senza distinguere quelle più elevate da quelle meno poiché tutte fanno parte della medesima posizione sostanziale del lavoratore) individuabili grazie al principio di contrattualità delle stesse. La questione principale in questo momento risulta essere quella della individuazione a priori delle mansioni visto che il lavoratore viene assunto non per una singola attività ma per una serie di compiti che andranno a specificarsi solo nel momento dell’effettivo svolgimento della prestazione. Inoltre si

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ROLLO, op.cit. p. 141 e ss. 73

LISO,op.cit. p. 147 Per una posizione diversa e minoritaria vedi ASSANTI,op. cit., p. 146 e ss.

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possono creare due tipi di problemi riguardo le mansioni di assunzione: il primo si ha nel caso in cui manchi un accordo sulle mansioni, il secondo nel caso in cui l’accordo preveda mansioni c.d. “promiscue”. Nel primo caso, prima di giungere alla sanzione della nullità per indeterminatezza dell’oggetto, bisogna far rinvio alla volontà comune delle parti e cercare di individuarla: si guarderanno per esempio le vicende pre-contrattuali ma anche quelle successive, come le comunicazione del datore di lavoro agli organismi che si occupano del collocamento, oppure ancora si guarderà lo svolgimento effettivo ed iniziale delle mansioni. Quello dei compiti c.d. promiscui invece è un problema legato alla mutata realtà organizzativa e alle sempre più pressanti esigenze di flessibilità: ci si domanda se sia legittimo richiedere al prestatore di lavoro più mansioni appartenenti anche a livelli di inquadramento differenti. Per alcuni non è possibile spostare il lavoratore a mansioni di natura inferiore( anche se comprese nel novero delle prestazioni esigibili) se quelle svolte effettivamente per ultimo sono più elevate. Questa linea di pensiero porta a negare la possibilità di richiedere mansioni promiscue sulla base di un criterio temporale e guardando al valore delle stesse74. Una lettura del genere poteva essere ammessa in un periodo in cui la flessibilità era ancora considerata un’eccezione del sistema. Con l’avanzare del tempo però questa tesi ha mostrato sempre più i caratteri della rigidità nei confronti delle nuove esigenze di organizzazione del lavoro e per questo è stata pensata un’altra interpretazione che pone l’accento sul carattere della stabilità e della prevalenza di certe mansioni su altre, e non della successione temporale, evitando così di distinguere sulla base del valore. Stando dunque a questa ultima lettura, che ha trovato anche l’appoggio della giurisprudenza, le parti possono accordarsi anche per lo svolgimento di mansioni promiscue in quanto in nessun modo sono vietate dalla

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legge75. Chiaramente questa lettura asseconda le esigenze di flessibilità della nuova organizzazione del lavoro ma va incontro anche ad alcuni rischi come quello di lasciare troppo spazio all’indeterminatezza dell’oggetto della prestazione di lavoro. Proprio riguardo questo rischio, la dottrina ha dichiarato che la prestazione convenuta sarà lecita solo se risulterà tipica all’interno dell’organizzazione produttiva di quell’azienda76

, rimandando al concetto di “ruolo professionale”,già evidenziato dalla sociologia del lavoro,che indica quanto fatto effettivamente da ciascuno all’interno dell’azienda al fine di raggiungere gli obiettivi programmati, in relazione con le altre componenti del sistema produttivo77.

2.2 IL PARAMETRO DI RIFERIMENTO