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IL PARAMETRO DI RIFERIMENTO DELL’EQUIVALENZA

Come abbiamo già avuto modo di rilevare, la nozione di equivalenza si presta ad interpretazioni molto ampie proprio per l’assenza di riferimenti normativi precisi. Nello specifico manca anche un parametro di riferimento in base al quale misurare se una mansione è equivalente rispetto ad un’altra. Il dato da cui partire è quello che vede l’equivalenza come un fattore che delimita la mobilità orizzontale: attraverso questo criterio, si restringe il campo delle mansioni esigibili dal datore e di quelle dovute dal prestatore di lavoro. Rimane però il

75 Trib. Livorno 21 Gennaio 1981 in GC,1981,I,1147 con nota di A.V

ALLEBONA: la sentenza conferma quella emessa dal pretore circa l’inesistenza di un divieto di mansioni promiscue. L’accordo sindacale o individuale che prevedano l’adibizione a mansioni promiscue non sono illegittimi. Nel caso di specie due lavoratori erano stati promossi impiegati ma grazie ad un accordo sindacale, le loro mansioni impiegatizie erano integrate con mansioni a carattere manuale. I due chiedevano l’annullamento dell’accordo ma il giudice dichiarò l’inesistenza di una norma di legge che vietasse le mansioni promiscue, rilevando,ai fini dell’inquadramento, la prevalenza di mansioni impiegatizie sulle altre.

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ISO, op. cit. p. 149 77

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rischio di conferire all’equivalenza i più svariati significati proprio in assenza di un criterio normativo: astrattamente sono ipotizzabili moltissimi parametri su cui basare il giudizio di comparazione come ad esempio le competenza, il livello di responsabilità corrispondente a quella data posizione, il patrimonio professionale, ecc. . Il parametro certamente non può essere la retribuzione poiché l’art. 2103 c.c. prevede esplicitamente la garanzia del mantenimento dello stesso livello retributivo anche dopo lo spostamento a mansioni equivalenti, lasciando intuire che all’equivalenza delle mansioni potrebbe corrispondere una retribuzione inferiore Vista l’incertezza, e vista l’importanza della questione dato che moltissimi ricorsi giudiziari hanno ad oggetto la materia in questione, risulta necessario dunque rintracciare un criterio ordinatore più fedele possibile alla ratio storica e politica della norma: la legge è stata pensata per limitare il potere del datore di lavoro in una prospettiva volta a valorizzare la dignità del lavoratore( vedi anche la collocazione della norma stessa nello statuto, nella parte che si occupa della dignità del prestatore di lavoro). Quindi il potere del datore di lavoro, che in questo caso specifico è rappresentato dal potere di organizzazione della produzione, non può non tenere conto delle capacità del prestatore, delle conoscenze e delle sue abilità. In altri termini, il potere organizzativo non può non tener conto della professionalità del lavoratore. La professionalità si sostanzia in un “saper fare” e rappresenta il patrimonio personale del prestatore di lavoro che a sua volta ne individua la dignità. E visto che il mutamento di mansioni potrebbe pregiudicare questo patrimonio, la norma si occupa di garantire il lavoratore dal rischio. Adesso bisogna cercare di capire se la norma tuteli una professionalità solo formale o anche sostanziale. In altre parole, per stabilire che una mansione è equivalente all’altra, basta guardare che entrambe appartengano allo stesso livello di inquadramento, così come prefigurato dall’autonomia collettiva, oppure si dovrà guardare alla sostanza delle mansioni così

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da conferire al giudice la facoltà di sindacare lo spostamento a mansioni considerate equivalenti solo perché appartenenti al medesimo livello di inquadramento ma sostanzialmente peggiorative. La suprema corte ha stabilito in più occasioni che quello che interessa è l’aspetto sostanziale e che ben potrebbe verificarsi il caso di uno spostamento a mansioni appartenenti al medesimo livello di inquadramento ma comunque compromettenti la professionalità raggiunta78. A conti fatti dunque, si privilegia la visione sostanziale poiché si ammette l’eterogeneità che caratterizza le qualifiche all’interno di ciascun livello di inquadramento contrattuale fatto dall’autonomia collettiva. Va segnalato infine che il principio sopra esposto non si applica al pubblico impiego dove viene privilegiato l’inquadramento in sede di contrattazione collettiva anziché l’interpretazione giudiziale; in questo ambito dunque viene preferito

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Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2013, n. 15010 leggibile in

http://www.italgiure.giustizia.it/: con questa sentenza la corte ha avuto modo di

riaffermare quanto già stabilito in precedenti sentenze riguardo la prevalenza di una visione sostanziale dell’equivalenza di mansioni piuttosto che formale. Afferma la corte che « in tema di riclassificazione del personale, la parte datoriale non può limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di un’equivalenza convenzionale tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate a seguito (…)dovendo, per contro, procedere ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito e di un’effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del dipendente. (…) È stato anche precisato che l’equivalenza delle mansioni(…) costituisce oggetto di un giudizio di fatto che deve essere dal giudice di merito operato volta per volta.(…)» La corte cita se stessa quando rimanda alla sentenza del 30 luglio 2004, n.14666 (leggibile integralmente in http://www.foroitaliano.it/banche-dati) che aveva già affermato che « il divieto di variazione in pejus opera anche quando, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente.(…) In particolare, le nuove mansioni possono considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore(…)». La tesi ha ricevuto conferma definitiva anche dalle Sezioni Unite della corte con la sentenza 24 novembre 2006, n. 25033 che aveva stabilito che «Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente.»

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l’approccio formale a quello sostanziale tanto che il giudice non potrà sindacare le attribuzioni fatte nel contratto collettivo.

2.3 EQUIVALENZA PROFESSIONALE: VISIONE STATICA E