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1.4 LO JUS VARIANDI

1.4.1 LA TEORIA “PANCONSENSUALISTA”

Uno degli autori che maggiormente ha sostenuto tale teoria è stato Giuseppe Suppiej che ha richiamato quattro argomenti principali a sostegno della sua tesi45: come primo punto vengono analizzati i lavori preparatori all’emanazione dello statuto e più in particolare all’emendamento che portò alla nascita dell’articolo 13. Tale emendamento fu presentato da alcuni parlamentari che già avevano portato anche una proposta di statuto basata appunto sull’abolizione dello jus variandi. Da questo ragionamento viene fatto discendere che anche la ratio dell’emendamento in questione fosse la stessa, nonostante l’assenza di motivazioni ufficiali al riguardo. Un ulteriore argomento a favore della soppressione del potere deriva dalla stessa lettera dell’articolo in cui sarebbe sparito ogni riferimento alla facoltà dell’imprenditore di spostare il prestatore a mansioni differenti, a differenza della precedente disposizione. Ancora, viene portato a sostegno della tesi l’argomento a contrariis secondo il quale non si capirebbe perché, considerato che l’intero statuto è volto a limitare i poteri del datore di lavoro, dovrebbe continuare a sussistere un potere

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unilaterale così forte, e come questo si concilierebbe con l’intero impianto della legge e con le finalità di tutela degli interessi dei lavoratori. A tale affermazione si accompagna anche il fatto della soppressione dei vecchi limiti dello jus variandi,contemplati nel precedente 2103 cod. civ. senza che a questi abbia avuto seguito l’inserimento di vincoli nuovi e magari più penetranti. Secondo questo argomento, lo stesso nuovo limite dell’«equivalenza delle mansioni» non sarebbe più restrittivo dei precedenti. Infine , anche all’ultimo comma della nuova norma viene data una lettura tutta orientata verso l’abolizione dello jus variandi: se nella vecchia disciplina erano ammessi accordi consensuali derogatori del potere unilaterale del datore di lavoro,sia nel senso di limitare tale potere che di estenderlo, per quale motivo la nuova disciplina li vieta del tutto, eliminando così anche la possibilità di deroghe migliorative a favore del lavoratore? E questo come si spiega nell’ottica di fondo dello statuto volta alla tutela degli interessi del prestatore di lavoro? Se invece si accoglie la tesi della cancellazione dello jus variandi, la norma avrebbe un senso chiaro e preciso e cioè quello di vietare qualsiasi patto che eventualmente riproponesse uno jus variandi di fonte consensuale. Più recentemente la tesi “panconsensualista” è stata nuovamente riproposta46,anche se in completa controtendenza con l’orientamento maggioritario che invece propende ormai verso il mantenimento del potere unilaterale del datore di lavoro. A sostegno di questa nuova riproposizione si è detto che la tesi opposta, nel sostenere l’esistenza del potere, finisce spesso per considerare il consenso un dato essenziale per la legittimità di certi spostamenti, come nel caso di quelli definitivi o ancora di più nello spostamento a mansioni superiori( si è già detto che si prevede la necessità di un consenso o, quanto meno, di un comportamento concludente per la progressione in carriera, posto che il prestatore di lavoro potrebbe non essere

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interessato ad un aumento di responsabilità e dei rischi correlati alla promozione). Inoltre la tesi opposta avrebbe al suo interno una grande varietà di opinioni che rileverebbero una tendenziale incapacità di giustificare veramente l’esistenza dello jus variandi. A livello di giurisprudenza abbiamo poche pronunce piuttosto risalenti ,per lo più di corti di merito,che si ispirano alla teoria “panconsensualista”47

. Nell’esperienza pratica dunque, si considera tramontata l’idea che sia sempre necessario il consenso del lavoratore per gli spostamenti, nonostante questa si presentasse in sintonia con le regole generali del diritto privato riguardo l’immodificabilità unilaterale del contratto. La teoria del consenso cede il posto a quella della sopravvivenza dello jus

variandi anche se si guarda alla stessa collocazione della nuova

disciplina nel codice civile: il legislatore non ha lasciato la norma solo nel dettato statutario, ma l’ha inserita laddove era l’altra, segnando un dato di continuità con il passato. Inoltre è molto difficile sostenere che il legislatore, volendo apportare un cambiamento così rivoluzionario nelle facoltà del datore di lavoro, lo abbia fatto tacitamente, senza palesare l’avvenuta abrogazione del potere o mantenendosi nell’ambiguità. Nello stesso articolo viene disciplinato anche il trasferimento del lavoratore e viene previsto in capo al datore di lavoro il potere di mutare il luogo della prestazione senza il consenso del prestatore di lavoro: a maggior ragione si ritiene che, così come il datore può mutare il luogo della prestazione senza consenso, così potrà anche mutare l’attività lavorativa. Anche l’argomentazione sintattica perde spessore se si analizza nuovamente l’articolo: a differenza del passato, è vero che viene messo in primo piano il

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Pret. Roma 31 dicembre 1974 in Riv. Giur. Lav., 1977, II, p. 229. Per tale pronuncia, dopo l’abrogazione del vecchio 2103 cod. civ. e la sua sostituzione con l’art. 13 dello statuto dei lavoratori, non sussisterebbe più alcun potere di imporre al prestatore di lavoro uno spostamento di mansioni senza il suo consenso. Affermato ciò, se ne deduce che, analogamente, il prestatore di lavoro non può imporre un mutamento di mansioni al datore di lavoro non consenziente, nonostante la sua affermata inidoneità fisica a quella determinata mansione. Il datore di lavoro non sarà quindi tenuto alla ricerca di mansioni equivalenti che il lavoratore ben potrà svolgere.

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lavoratore e la sua dignità, ma questa differenza ben si concilia con il mantenimento del potere: oggi infatti la lettera dell’articolo indica non più i poteri, ma i limiti degli stessi( il riferimento all’equivalenza ne è la dimostrazione: lo spostamento a mansioni equivalenti non crea pregiudizi per definizione e per questo il consenso non serve perciò non si può negare che il potere ci sia e risulti legittimo). Da ultimo, ma non meno importante, non si può trascurare nemmeno la disciplina collettiva che, per il mutamento di mansioni, non considera il consenso imprescindibile. Si arriva ancora di più a comprendere il fallimento di questa teoria, se si guardano gli attuali scenari aziendali, sempre più volti alla flessibilità: in una cornice simile, appare un’interpretazione eccessivamente rigida quella di richiedere il consenso del lavoratore per ogni cambiamento di mansioni.

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