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Quando, il 28 ottobre del 1958, il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, venne annunciato alla folla festante che si trovava in piazza San Pietro, con il nome di Giovanni XXIII, molti pensarono che il suo sarebbe stato un pontificato breve a causa dell‟età avanzata del papa (aveva infatti settantasette anni). Nessuno avrebbe mai immaginato di trovarsi davanti ad una nuova fase della storia della Chiesa1.

Nato nel bergamasco, da una famiglia di umili origini, egli studia a Roma presso il Seminario Apollinare e qui consegue, nel 1904, il dottorato in teologia, che gli permette di diventare sacerdote e segretario del vescovo di Bergamo, monsignor Giacomo Radini Tedeschi. Il giovane sacerdote, per circa dieci anni, affianca il prelato nel suo lavoro pastorale, contribuendo a numerose iniziative che rendono esemplare la diocesi bergamasca. Contemporaneamente svolge vari incarichi come insegnante nel seminario, dal 1906 al 1914. Sono questi gli anni determinanti per la formazione pastorale, umana e spirituale del futuro Giovanni XXIII, il quale si ispirerà all‟esempio del suo maestro per lo svolgimento dei compiti successivi, sempre pronto a far sentire la presenza della Chiesa nella società2.

I suoi interessi culturali prediligono la figura di san Carlo Borromeo e lo portano a frequentare la Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove entra in contatto con Achille Ratti, il quale, divenuto ormai papa con il nome di Pio XI, nel 1920 lo nomina direttore della Congregazione per la Propagazione della Fede e successivamente lo introduce alla carriera diplomatica, conferendogli una serie di importati incarichi, sia in Italia che all‟estero. Nel 1934 è in Grecia come

1 Cfr. Biografia di Papa Giovanni XXIII, www.vatican.va. 2 Ibidem.

delegato apostolico ed assiste all‟occupazione tedesca degli anni 1941-1944, prodigandosi nell‟assistenza delle famiglie ebree e del popolo greco. Il 12 gennaio del 1953 diventa patriarca di Venezia e si distingue dai suoi predecessori per lo zelo pastorale e per la convinta opposizione al regime comunista. Maturano durante l‟esperienza di vita da diplomatico e patriarca i germi di quello che sarebbe stato poi il Concilio Vaticano II: Angelo Roncalli, infatti, capisce che i tempi sono ormai maturi e che urge una riforma che avvicini la Chiesa alla società3.

Fin dall‟inizio del pontificato si fa notare per la sua personalità umana e sacerdotale. La sua preoccupazione maggiore consiste nel conferire un‟impronta pastorale al suo ministero, sottolineandone la natura episcopale, in quanto vescovo di Roma. Convinto del proprio ruolo diocesano, considerato come parte essenziale del ministero di papa-pastore, rende più numerosi i contatti con i fedeli tramite le visite alle parrocchie, agli ospedali e alle case di detenzione4. Il 25 gennaio 1959, in modo del tutto inaspettato, pochi mesi dopo la sua elezione, propone tre grandi progetti: un sinodo diocesano per Roma, un concilio ecumenico e la revisione del diritto canonico. Il primo incontro preparatorio per il Concilio si svolge a San Giovanni in Laterano dal 24 al 31 gennaio 1960, con la finalità di fortificare la vita religiosa nell‟Urbe5.

Il Concilio Vaticano II rappresenta, inequivocabilmente, il contributo più importante di papa Roncalli alla storia della Chiesa, ormai bisognosa di un cambiamento, soprattutto per quel che riguarda l‟aggiornamento del magistero e della liturgia, e il dialogo con le Chiese protestanti e orientali. Il papa apre le porte dell‟aula conciliare anche ad osservatori esterni provenienti da diciotto Chiese non cattoliche, esortando i vescovi al dialogo costruttivo con le più diverse realtà6.

3Cfr. M. Sànchez Sorondo, Beato Giovanni XXIII, in Idem, I papi e la scienza nell’epoca contemporanea, Jaca

Book, Milano 2009, pp. 145-148: pp. 145-146.

4 Cfr. Biografia di Papa Giovanni XXIII, cit.

5 Cfr. M. Sànchez Sorondo, Beato Giovanni XXIII, in Idem, I papi e la scienza nell’epoca contemporanea, cit., p.

146.

La decisione di indire il Concilio Vaticano II è frutto di una riflessione personale, maturata dopo le consultazioni private con alcuni prelati di fiducia e con il cardinale Tardini, Segretario di Stato. Pertanto, quando, nel discorso di

apertura dell‟11 ottobre 1962 il pontefice delinea le finalità assegnate al Concilio, introduce una grande novità, frutto della sua personale sensibilità: per la prima vola nella storia della Chiesa l‟esigenza dell‟assise non nasce dalla necessità di definire nuove verità teologiche o dogmatiche, ma dal bisogno di ripresentare la dottrina tradizionale in modo più adatto alla sensibilità moderna. Giovanni XXIII invita i vescovi ad un nuovo aggiornamento, che privilegi la misericordia e il dialogo con il mondo, piuttosto che la condanna e la contrapposizione, e li esorta ad una rinnovata consapevolezza della missione ecclesiale, che deve abbracciare tutti gli uomini. Si tratta, quindi, di una apertura universale a tutte le confessioni cristiane, invitate anch‟esse a partecipare al dialogo, per dare inizio ad un cammino di avvicinamento, ad una forma di ecumenismo, in cui tutti possano esprimersi e confrontarsi7.

Convinto della necessità di un ammodernamento che permetta alla Chiesa di non entrare in contrasto con il pensiero moderno, ma di riformulare se stessa, Giovanni XXIII invita l‟episcopato cattolico ad interrogarsi sulla libertà religiosa, sulle relazioni con le altre religioni, sul ruolo e sulla condizione della Chiesa nella società contemporanea. La grande adunanza dei vescovi metterà soprattutto in luce una nuova sensibilità, poiché la prospettiva di aggiornamento non si volge all‟aspetto dogmatico, quanto piuttosto a quello pastorale ed ecumenico: si tratta di approfondire i rapporti tra Chiesa e società e di coinvolgere i laici, modificando il linguaggio per migliorare la comunicazione e il dialogo costruttivo8.

La modernità impone, infatti, alla gerarchia ecclesiale un nuovo criterio ermeneutico, invitandola ad entrare in rapporto dialettico con le altre scienze,

7 Cfr. Biografia di Papa Giovanni XXIII, cit.

nel rispetto delle loro autonomie metodologiche, senza, però, rinunciare al suo precipuo compito di cogliere il senso di ogni manifestazione del creato.

Il Concilio riformula, inoltre, l‟idea di creazione, sottolineando che la creatura senza il Creatore non può esistere, e mettendo contemporaneamente in risalto che ogni atto di Dio è un atto d‟amore, che lascia la creatura libera e autonoma, senza interferire con essa. La grande ambizione della Chiesa di quegli anni è, quindi, quella di creare un equilibrio fondato, da un lato, sul rispetto e sull‟autonomia di ciascun ambito scientifico e, dall‟altro, sul ruolo attivo di Dio, che crea continuamente l‟uomo e la natura. Anche la concezione della gerarchia viene modificata: se prima si dava massima importanza al clero, ora si sottolinea l‟esistenza della comunità dei credenti come “popolo di Dio”, al cui interno le differenze sono solo di ruolo, non di dignità o autorevolezza9.

In effetti il Concilio Vaticano II conclude il periodo del Vaticano I, che aveva affermato il primato del clero, chiudendosi al mondo moderno, e avvale, invece, il primato del “popolo di Dio”. La Chiesa, intesa come compagine di tutti i credenti, si apre al dialogo con la modernità, si interessa più della concreta spendibilità dei valori evangelici che del loro rapporto con la trascendenza10. Molto importante diventa il ruolo dei laici, i quali, come già aveva ampiamente sostenuto Pio XII, devono essere testimoni del messaggio evangelico nella società11.

I padri del Concilio sviluppano numerose questioni teologiche riguardanti la rivelazione; la definizione del modo in cui si debba divulgare il messaggio evangelico, affinché sia compreso dalla società; la pace internazionale; il ruolo dell‟educazione e dei mezzi di comunicazione; il dialogo ecumenico e interreligioso; la missione della comunità ecclesiale nella società, ma fondamentale in tutti i documenti conciliari è l‟integrazione della teologia

9 Cfr. A. Torres Queiruga, Il Vaticano II e la sua teologia, «Concilium», anno XLI, fascicolo 4 (2005), pp. 32-

48.

10 Cfr. R. Tucci, Una storia del Concilio Vaticano II, «La Civiltà Cattolica», quad. 3640 (2002), pp. 360-365: p.

362.

dogmatica e tradizionale con la nuova concezione della Chiesa. Si fa strada, pian piano, il concetto di “ecclesiologia di comunione”, con una concezione antropologica nuova, che dà molta importanza alla storia concreta. Per parlare all‟uomo, Giovanni XXIII fa riferimento al concetto di “pastoralità”, partendo dall‟assunto che non si possono annunciare le verità del Vangelo senza avere idealmente presenti i destinatari del messaggio: per evangelizzare occorre “parlare la stessa lingua” di chi ascolta12. La Chiesa, per comunicare con il mondo contemporaneo, deve, dunque, affrontare il problema della riformulazione della propria cultura. Si può leggere a proposito il passo della Costituzione pastorale Gaudium et spes del 1965, che rappresenta il punto di arrivo delle concertazioni dei padri conciliari:

Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall‟evoluzione del genere umano. L‟esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell‟uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa.

Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: e ciò allo scopo di adattare il Vangelo, nei limiti convenienti, sia alla comprensione di tutti, sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere la legge di ogni evangelizzazione. Così, infatti, viene sollecitata in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo, e al tempo stesso viene promosso uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli. Allo scopo di accrescere tale scambio, oggi soprattutto, che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha il bisogno particolare dell‟apporto di coloro che, vivendo nel mondo, ne conoscono le diverse istituzioni e discipline e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti13.

Questo è l‟approdo del Concilio.

Di questa nuova “idea” di Chiesa si fa portavoce papa Roncalli, i cui interessi, appunto, non si orientano in senso dottrinale e filosofico. Il suo magistero, infatti, si concentra sulle tematiche sociali: l‟enciclica Ad Petri cathedram (29 giugno 1959) invita all‟unità e alla pace tra cattolici e non cattolici; l‟enciclica

12 Cfr. C. Theobald, Le opzioni teologiche del concilio Vaticano II, «Concilium», anno XLI, fascicolo 4 (2005),

pp. 112-138.

Mater et magistra (15 maggio 1961), sulla scorta del magistero sociale di Leone

XIII e di Pio XI, auspica la collaborazione di tutti i popoli per il bene comune; l‟enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963) sprona tutta l‟umanità alla pace, attraverso il rispetto dei diritti di tutti e l‟esercizio del dovere di ognuno, invitando il mondo comunista e quello occidentale alla pacificazione contro la guerra fredda14.

Altro punto nevralgico del magistero di Giovanni XXIII è il dialogo con il mondo intero, anche, addirittura, con coloro che non condividono il credo religioso cattolico e che politicamente compiono delle scelte avverse alle indicazioni della Chiesa15. La ricezione di Dante da parte di papa Roncalli si lega a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Nel corpus degli scritti del pontefice, che pure aveva frequentato per ben quattro anni la Cattedra di studi danteschi presso il Seminario Romano16, non si conserva in verità una memoria dell‟Alighieri cospicua e significativa. Giovanni XXIII, infatti, della fonte dantesca si serve relativamente poco, e solo nelle allocuzioni dai contenuti più divulgativi. Questa tendenza è confermata anche nella scrittura privata e non destinata alla pubblicazione, come emerge dagli sporadici riferimenti presenti nel suo diario, che rappresenta la testimonianza più autentica del suo percorso intimo e spirituale, dal 1895 al 1963. La pagina che porta la data del 5 giugno 1898 racchiude l‟ammissione di colpa per un peccato di superbia; pentito, il giovane seminarista si rivolge a Dio chiedendo maggiore umiltà e pregando per chi, riferendo tutto ai superiori, aveva permesso che fosse rimproverato. Lungi dal manifestare astio nei confronti di chi lo aveva messo in grave imbarazzo, il giovane Roncalli vede in costui uno «strumento nelle mani di Dio» utile a fargli «prendere la diritta via». L‟allusione dantesca alla condizione esistenziale del poeta, smarrito nella selva oscura (cfr. If I 3), in

14 Cfr. M. Sànchez Sorondo, Beato Giovanni XXIII, in Idem, I papi e la scienza nell’epoca contemporanea, cit.,

p. 147.

15 Ibidem. Sull‟importanza del dialogo in Giovanni XXIII cfr. B. Sorge, Gli ultimi papi tra cronaca e storia, «La

Civiltà Cattolica», quad. 3127 (1980), pp. 48-52: p. 50.

16 Si legga la pagina 125 dell‟opera di Roncalli: Il Giornale dell’Anima. Soliloqui, note e diari spirituali, a cura

questo contesto viene rovesciata di segno: se Dante perde la «diritta via» a causa del peccato, Angelo Roncalli la ritrova grazie all‟intervento di chi lo aveva denunciato17.

Simile, nella sua utilizzazione, è anche l‟allusione ad If XXXIII 49, che figura alla data del 25 settembre del 1898. Il futuro pontefice manifesta il suo disperato dolore per la morte improvvisa dell‟amato parroco Francesco Rebuzzini:

Questa mattina le mie povere gambe non mi reggevano più, un chiodo mi era fitto nel cuore, i miei occhi non davano o davano poche lacrime.

Io non piansi, sì dentro impetrai. Al vederlo lì in terra in quello stato18.

Il giovane Roncalli, sulla spinta emotiva del tragico evento, esprime la propria condizione, di incredulità e insieme di dolore estremo, con le parole che il conte Ugolino pronuncia in If XXXIII 49. Ovviamente il contesto è del tutto differente, ma l‟evocazione della frase denota una latente presenza di Dante, che pur agendo raramente, non è del tutto assente nella “memoria” del futuro Giovanni XXIII. Con il traditore infernale, il seminarista condivide una situazione emotiva che si fa carico di un dolore inesprimibile, che pietrifica e inaridisce fino al punto da impedire le stesse lacrime. Quando, infatti, il dannato pisano si rende conto della pena che è stata riservata a lui e ai suoi cari, poiché in sogno ha avuto la predizione dell‟orrendo castigo, e nota il dolore dei suoi figli, non proferisce alcuna parola, pietrificato dalla sofferenza:

«Già eran desti, e l‟ora s‟appressava che ‟l cibo ne solëa essere addotto,

e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti‟ chiavar l‟uscio di sotto a l‟orribile torre; ond‟io guardai

nel viso a‟ mie‟ figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”

17 Ivi, p. 53. 18 Ivi, p. 78.

Perciò non lagrimai né rispuos‟io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l‟altro sol nel mondo uscìo.»

(If XXXIII 43-54).

Un‟allusione alla lupa dantesca compare in un appunto scritto di getto il 26 ottobre del 1901. Raccolto in preghiera, Angelo Roncalli medita sul Sacro Cuore di Gesù e sulla precarietà sociale delle persone più sfortunate. A mancare non è solo il cibo materiale, ma anche il cibo spirituale che coincide con il Cuore di Gesù. Per questo, per migliorare le condizioni della società, bisogna partecipare alla mensa eucaristica e non cercare riparo in movimenti politici. Dice, infatti, che «quando la mente e il cuore sono nutriti il corpo non ha bisogno di nulla»; in questo modo «la questione economica è già sciolta di per sé avendo la giustizia e la carità il loro libero corso. Il male è tolto alla radice. Non mi parlate di socialismo, il quale sarà sempre come la lupa di Dante»19.

Curioso e originale è l‟accostamento del movimento socialista alla fiera che impedisce l‟ascesa del poeta verso il monte della salvezza:

Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch‟uscia di sua vista, ch‟io perdei la speranza de l‟altezza

(If I 49-54).

Più che all‟apparizione della bestia, io credo che il futuro papa faccia riferimento al successivo discorso di Virgilio. Infatti l‟animale, allegoria della cupidigia, non solo si caratterizza per uno smodato desiderio di possesso che priva gli altri di ciò che è necessario, ma anche per la sua peculiarità di distruggere tutto ciò che tocca, come afferma, appunto, la guida di Dante: