In principio mi sono domandata in che modo l’operatore si avvicina al rifugiato che si trova ricoverato in un ospedale ticinese, quali le attitudini messe in gioco, la presa a carico, i bisogni a cui deve rispondere e come vi risponde, quali le difficoltà incontrate. La scelta tematica è stata dettata principalmente dalla volontà di poter diventare in futuro co-narratrice di storie in divenire, inclusa la mia. Alcuni ideali hanno da sempre abitato la mia persona e ritengo che come soggetti e come professionisti, spetti ad ognuno essere aperto al bisogno, alla domanda e al desiderio dell’“Altro” (dei rifugiati, nello specifico): non fare nulla è contro l’humanus. L’approfondimento teorico e lo studio della pratica infermieristica quotidiana svolto mediante interviste, hanno permesso il raggiungimento parziale degli obiettivi inizialmente prefissati e di rispondere alla domanda di ricerca, anche se nel corso di stesura non sono mancate modifiche strutturali e di contenuto. Attraverso la ricerca sul campo ho potuto indagare e riflettere sulle attitudini che gli infermieri dovrebbero sviluppare per permettere un’assistenza interculturale, e ho potuto sviluppare una visione più dettagliata del fenomeno nella realtà ticinese. Dal lavoro svolto emerge chiaramente la necessità da parte del campione intervistato di approfondire (a livello ospedaliero) la tematica sulla migrazione e sulla presa a carico di pazienti rifugiati in ospedale.
Emerge, in quasi tutti i soggetti di studio, l’importanza di dar voce alle fragilità del paziente rifugiato, ai suoi bisogni assistenziali e umani (es. ascolto della storia, necessità di consultare un mediatore culturale), alle problematiche che possono presentarsi (es. comportamentali) o che già pre-esistono (es. lingua). Quello che appare chiaro a tutti è che si potrebbe fare di più (es. corsi di formazione) e si dovrebbero potenziare i mezzi e le risorse di cui già si è in possesso (es. centralino di interpretariato 24/7, miglioramento della presa a carico dell’isolamento). Gli intervistati mi hanno permesso di comprendere quanto la tematica relativa ai bisogni dei rifugiati venga sentita nella presa a carico ma anche di quanto spesso essa venga considerata secondaria a causa della difficoltà di ricoprire un ruolo interculturale se non si posseggono le giuste conoscenze e competenze cliniche e comunicative. Il ruolo infermieristico, va tuttavia riconosciuto, è mutato nel tempo: oggi il focus prioritario rimane la centralità del paziente. Vi è stata dunque un’evoluzione delle pratiche di cura che si rivolgono principalmente al Care, oltre che al Cure. Il risultato finale di questo lavoro di Bachelor mostra prevalentemente coerenza tra i dati sostenuti nel quadro teorico e quelli raccolti attraverso le interviste. I risultati ricerca sottolineano la priorità di conoscere la storia del paziente, interrogare i vissuti sia per permettere al soggetto di ricreare una continuità biografica che per comprendere le motivazioni che spesso stanno alla base di determinati comportamenti e di conseguenza poter prevenire o meglio gestire la pratica assistenziale di alcune situazioni complesse.
Tutto questo è fondamentale soprattutto considerando che l’infermiere è la figura che all’interno dell’ospedale ha la possibilità di creare e mantenere la connessione tra il lato umano della cura e quello prettamente medico-tecnico. Gli infermieri sono figure con conoscenze medicali ma anche e soprattutto con conoscenze comunicative e relazionali;; sono coloro che passano e che hanno la possibilità di investire più tempo con il paziente.
Grande importanza viene data ai momenti di incontro in équipe che, come riportato nelle interviste, dovrebbero ampliarsi come numero di incontri e di argomenti trattati.
Rispetto a quanto ascoltato e analizzato, mi sento di poter affermare che vi è da parte degli infermieri, e da parte del sistema, il desiderio di attuare tutto quanto sia possibile per migliorare le condizioni di benessere del rifugiato: soggetto che ha vissuto un’esperienza migratoria condizionata e che può presentare disturbi nella sfera psichica (come il DPTS) manifestati mediante comportamenti devianti, soggetto che si trova a non avere più una casa senza averne ancora una nuova (escluso sia dal luogo di provenienza ma anche da quello di accoglienza) (Sayad, 2002). A partire da queste considerazioni mi sono interrogata su quale identità viene conservata e riconosciuta quando il curante si trova a non conoscere neanche il nome del paziente (come riferito nelle interviste, succede che non si riesca a risalire alla raccolta dati del paziente a causa della barriera linguistica). I risultati mostrano che quello che si cerca di fare è dar voce ai bisogni dei pazienti rifugiati con l’intento di rimuovere le barriere (situazionali, professionali, personali), ricreando un senso di coesione umanitaria, ridando forma alla dignità di ogni individuo, senza distinzione di provenienza. Gli operatori sanitari interculturali (infermieri che si trovano a contatto con il rifugiato ma che ancora non hanno acquisito competenze transculturali) si devono orientare sempre più alla facoltà di “far fiorire” offrendo esperienze in cui poter vivere, cure che preservano la vita quando essa viene minacciata da un viaggio, da una nuova realtà o da una storia traumatica, cure che si orientano a riparare le fessure di sofferenza che si possono presentare (L. Mortari, 2006). Un approccio salutogenico che miri dunque, anche, all’utilizzo dei ruoli SUP.
Come riportato nelle interviste vi sono sicuramente ancora molte migliorie da attuare, è un processo in continuo divenire, difficile e che richieste impegno da parte di tutti gli attori della cura. La componente interculturale presente nei luoghi di cura ha permesso un confronto con una casistica nuova, portatrice di caratteristiche sociali, culturali, personali e relazionali eterogenee. Ha inoltre permesso una collaborazione con altre figure professionali provenienti da altre discipline (es. sociologia): la figura del mediatore culturale permette di interpretare determinate richieste che magari non rispecchiano la reale necessità, permette di comprendere come determinate emozioni portino a determinati comportamenti, può aiutare il paziente rifugiato a far chiarezza sui ruoli che spesso appaiono come disordinati e complessi e aiutare il curante a comprendere le rappresentazioni di salute e malattia proprie del paziente, così come le eventuali somatizzazioni culturali (Bertini et al., 2018). Prepararsi alla cura dell’altro non significa diventare delle macchine, bensì essere in grado di attuare strategie che permettano una presa a carico olistica, riuscire ad uscire dai propri schemi mentali precostituiti (un’osservazione della realtà differente e un’attribuzione di significati esperienziali differenti) rivolgendosi con empatia, ricettività e responsività (L. Mortari, 2009) al benessere psico-fisico del paziente rendendolo protagonista della propria cura (autoefficacia): saper leggere oltre il verbale per poter comprendere comportamenti o richieste specifiche. Le pratiche di cura unite alle pratiche infermieristiche transculturali, permetterebbero di lavorare nell’ottica dei pari diritti di accesso alle cure, nel rispetto della dignità di ogni essere umano, permettendo così anche di uscire dalla concezione ancora vigente e separatista di condizione eccezionale o di emergenza per arrivare alla più pura concezione di cura. Cura che tutti gli esseri umani meritano di ricevere.
Questo lavoro è stato il capitolo conclusivo di un percorso accademico che mi ha cambiata e segnata profondamente, e la sua redazione è stata da me vissuta in maniera molto intensa.
Ogni fase di elaborazione è stata impegnativa ed emozionante. In questo percorso c’è stato un momento giusto per tutto: l’idea iniziale e i mille cambiamenti decisionali che sono avvenuti prima della stesura, l’inizio di stesura, la scelta di somministrare interviste, il blocco, la crisi che ha portato poi alla volontà di terminare lo scritto, il bisogno di voler aggiungere sempre qualcosa poiché c’è così tanto ancora da dire e la frustrazione per il limite consentito. Da ultimo la gioia nel vedere che passo dopo passo il lavoro ha cominciato a prendere forma, a prendere vita e struttura, riportando tra le righe anche un po’ di me. La prima parte di questo lavoro è stata sicuramente molto complessa. Riflettere sugli aspetti da trattare nel quadro teorico e successivamente nelle interviste mi ha portata a cambiare idea molte volte: ho aggiunto e tolto argomenti, ho ridotto e contestualizzato il numero e il campione da intervistare. Inizialmente avevo molte idee creative su come avrei voluto portare avanti le interviste (animazioni, domande trabocchetto, filmati) tuttavia valutando la mia inesperienza in questo campo ho deciso che, come prima volta, sarebbe stato meglio applicare delle interviste che limitassero interpretazioni personali. Non mi sono mai ricreduta di aver scelto la tematica inerente i rifugiati;; dovessi ricominciare farei la medesima scelta: è un aspetto che sento far parte di me e del mio futuro personale e professionale. Malgrado la mia limitata conoscenza dello strumento di intervista, questa parte di tesi mi ha gratificata molto: poter scegliere le domande da portare agli intervistati e potermi avvicinare a loro direttamente mi ha permesso di sentirmi ancora più attiva in questo progetto. Mi sono resa conto di come, prima di somministrare le domande, io avessi un’ipotesi errata rispetto a ciò che gli infermieri mi avrebbero detto e raccontato. Le esperienze vissute nei reparti durante i tirocini mi hanno sicuramente condizionata e mi hanno portata ad avere preconcetti e rappresentazioni rispetto alla presa a carico attuata nei confronti del paziente rifugiato. Con molto piacere gli intervistati mi hanno mostrato aspetti di migliorie importanti, mi hanno trasmesso un profondo senso di umanità, la volontà di continuare a migliorarsi per il raggiungimento e l’ottenimento di una cura accessibile a tutti, mi hanno permesso di comprendere che, malgrado i limiti imposti dalla realtà, almeno da parte loro non vige l’indifferenza rispetto a questa tematica. Ho imparato da questa esperienza a sospendere il mio giudizio (senza mai rinnegarlo) e ascoltare le motivazioni che stanno alla base di certi comportamenti mi ha permesso anche di comprendere (pur non condividendo) determinate correnti di pensiero.
Spero di essere riuscita a far emergere gli aspetti che ho ritenuto maggiormente importanti per il mio lavoro finale, ritrovando e applicando correlazioni tra gli aspetti teorici e i contenuti emersi dalle interviste, e rispettando gli obiettivi di Tesi SUPSI.
La scelta di utilizzare una ricerca di tipo qualitativo mi ha permesso di essere partecipante attiva nella scoperta della realtà ospedaliera e attraverso l’utilizzo delle interviste ho potuto conoscere in maniera critica il vissuto dell’incontro con il rifugiato. La ricerca scientifica di materiale di letteratura mi ha permesso inoltre di sviluppare, almeno in principio (poiché ritengo essere un processo lungo, impegnativo e sempre in fase di strutturazione), la capacità di difendere nella vita quotidiana e nel futuro anche professionale (mediante assunti teorici validi) le mie idee in merito alla tematica, permettendomi di dar voce alle mie opinioni in maniera costruttiva, efficace e incisiva.
La tematica dei rifugiati non tocca solamente l’ambito ospedaliero e il ruolo professionale, bensì tocca ognuno di noi come esseri umani, basti pensare a tutti i centri di pertinenza, le stazioni, le piazze, i penitenziari: luoghi in cui circola sofferenza e da cui, oggi come non mai, non possiamo volgere lo sguardo altrove (Medici Senza Frontiere, 2018).
Nella pratica professionale e nella realtà ticinese, un approfondimento ulteriore potrebbe portare alla creazione di una scala di valutazione per permettere all’infermiere (all’operatore) di valutare lo stato psico-fisico nel corso di degenza del paziente rifugiato che si trova in isolamento. Questo strumento potrebbe infatti indagare e prevenire determinati stati emotivi o incomprensioni che spesso, come visto, sfociano in comportamenti disturbanti. Mi sono resa conto che uno spazio di riflessione in équipe e con il mediatore - dove il soggetto possa ripercorrere il vissuto con un utente - permetterebbe da una parte di trovare risposte agli interrogativi che possono subentrare nel corso della presa a carico (paure, preoccupazioni, frustrazioni, rabbie, sofferenze, discriminazioni), dall’altra di trovare quella distanza dalla frenesia di reparto per ricentrarsi sull’obiettivo di ogni erogatore di cura: il bene presente e futuro del paziente. Ritengo importante, come già sopra citato, che questi spazi permettano anche di prevenire le discriminazioni all’interno del reparto.
Riflettendo sulla realtà cantonale odierna ritengo che la presenza di una figura infermieristica specializzata nelle cure transculturali potrebbe essere integrata come parte attiva dell’agire quotidiano e sarebbe una fonte di miglioramento a lungo termine. È emerso il desiderio da parte del campione intervistato di poter accrescere le conoscenze in questo ambito, poiché nonostante la grande affluenza le competenze interculturali non sono sufficientemente sviluppate. Sarebbe così interessante proporre a livello ospedaliero dei corsi di formazione e/o aggiornamento che permettano di approfondire la tematica migliorando la presa a carico (come già avviene per gli aspetti tecnici della professione), riconosciuti all’interno della percentuale lavorativa e finanziati dall’Ente o dal Cantone, poiché si tratta del riconoscimento dei diritti e dei bisogni dei pazienti, esseri umani che meritano le migliori cure possibili. L’infermiere stesso potrebbe così operare una cura individualizzata e pensosa rispetto ai bisogni del soggetto rifugiato e trasmettere le conoscenze apprese anche ad altri operatori sanitari.
Una delle richieste maggiormente percepite è quella di poter entrare in contatto più facilmente con il paziente rifugiato (superando le difficoltà linguistiche e culturali che si possono presentare);; come riportato dal campione vi è già la presenza in reparto di documenti visivi che permettono, per esempio, l’identificazione di alimenti specifici. Ritengo che per agevolare il superamento della barriera linguistica sarebbe di grande aiuto creare nuovi documenti in cui riportare le principali affermazioni e domande (“hai male, da dove vieni”, ecc.), soprattutto in quelle lingue o idiomi maggiormente riscontrati e per cui è difficile trovare un interprete all’interno dell’ospedale. Questi aspetti di miglioramento mi riportano al titolo della mia tesi;; il ruolo infermieristico di promozione della salute deve oggi poter essere associato al tema della migrazione e dell’incontro con il rifugiato. È necessario senz’altro un grande impegno sia da parte degli operatori ma anche a livello di struttura: risorse materiali (luoghi, tempi e fondi) e fisiche (nuovi infermieri specializzati). Questi investimenti porterebbero a ripercussioni positive a lungo termine: la migrazione e l’accoglienza del rifugiato sono fenomeni in continuo divenire e, come visto, una buona cura previene comportamenti e malattie, oltre che essere fondamentale per il rispetto dei diritti di ogni essere umano.
Da ultimo sarebbe interessante somministrare le interviste a un campione più vasto: assistenti di cura, medici, assistenti amministrative, e naturalmente pazienti. Questo permetterebbe di avere un’idea sul funzionamento più generale del reparto e permetterebbe di comprendere se le barriere, le difficoltà e le proposte di miglioramento sono le stesse per tutti o se variano a dipendenza del ruolo che ci si trova ad assumere.