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La specifica ricerca di tesi si è ramificata intorno al pilastro portante rappresentato dalla domanda da indagare:

“Quali sono le rappresentazioni del modello educativo non-punitivo e non-espulsivo utilizzato al Foyer Calprino della Fondazione Amilcare da parte dei giovani collocati e degli educatori per quanto concerne l’assunzione di rischio dei ragazzi e le relative responsabilità degli educatori?”

Al fine di analizzare in maniera funzionale tale argomento, si è scisso il lavoro in tre fasi: una prima parte meramente teorica, relativa al capitolo tre; una che evidenziasse le rappresentazioni dei protagonisti dell’indagine, educatori del foyer Calprino e giovani collocati, situata all’interno del capitolo cinque; una inerente le prospettive future, la quale verrà sviluppata di seguito.

Dall’analisi teorica effettuata si è notato quanto il rischio assuma forme e attuazioni differenti tutte accomunate dalla certezza che lo stesso sia una parte integrante della vita dell’essere umano. Non è evidente definire, dunque, i confini che separano comportamenti biologicamente funzionali, da altri dannosi e inconsapevoli. Il rischio, un’incognita dell’esistenza, un fattore indispensabile per sentirsi vivi e, allo stesso tempo, minaccia della vita stessa. Un’incognita influenzata anche dal contesto occidentale attuale, ove la società consumista, le pubblicità e la comunicazione persuasiva spingono la popolazione a ragionare meno approfonditamente e ad agire intraprendendo la strada che toglie le inibizioni e porta ai desideri e non più attraverso la soddisfazione di bisogni. Nella cornice descritta le persone più fragili, nel caso specifico coloro che stanno vivendo il ciclo dell’adolescenza, si ritrovano a dover far fronte all’ordinario disequilibrio adolescenziale in un ambiente che trasmette ben poche sicurezze. La risultante a tutto ciò è relativa alla messa in atto di condotte pericolose, soprattutto per coloro che non hanno avuto la possibilità di creare le risorse sufficienti nelle fasi di vita precedenti. Si è visto nell’elaborazione dei dati che, oltre a ciò, a influenzare il giovane ad assumere comportamenti rischiosi entrano in gioco anche fattori cognitivi, sociali relativi alla famiglia e al gruppo dei pari, e altre teorie che vedono il loro applicarsi in tutto il ciclo della vita. Uno dei motivi principali, secondo il pensiero di Roland Coenen, è inerente al non riuscire a rientrare nella selezione sociale e sessuale presente ai giorni nostri. Tali soggetti in difficoltà faticano a sentirsi parte integrante della società e, dunque, trovano strategie disfunzionali al fine di vedere la loro appartenenza in un gruppo. Nella parte teorica si è trattata la sindrome di chiusura, ovvero la difficoltà da parte di ragazzi disadattati nel chiedere aiuto. Questo fattore è da prendere in considerazione nella gestione del rischio distruttivo e inconsapevole al fine di trovare strategie per far emergere la richiesta d’aiuto alla figura adulta. Coenen, attraverso anche l’esperienza di ricerca-azione al Tamaris, ha sviluppato un modello educativo innovativo che permettesse continuità, apertura e trasparenza relazionale: il modello non-punitivo e non-espulsivo, fondamenta anche delle linee guida della Fondazione Amilcare. Thomas Gordon, a tal proposito, ha sviluppato un metodo che permettesse al giovane di sentirsi accettato e non giudicato e, quindi, gli permettesse di fidarsi e confidarsi con figure adulte di riferimento: l’ascolto attivo.

Nel capitolo della ricerca e analisi si è apportato alla tesi un valore aggiunto dettato dalle esperienze e dai vissuti dei principali attori coinvolti. Sia i ragazzi, sia gli educatori hanno

avuto modo di esprimere il loro pensiero riguardo all’assunzione di rischio correlata al modello non-punitivo e non-espulsivo vigente al foyer Calprino. La maggior parte delle informazioni ricavate è sostenuta dall’apporto teorico. È emerso che i vari comportamenti disfunzionali, quali, per esempio, l’assunzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti e la partecipazione a furti o risse, sono stati messi in atto in situazioni nelle quali i ragazzi faticavano ad adattarsi all’ambiente circostante e vivevano situazioni di malessere. L’influenza fra coetanei accomunati da fragilità è un altro tema che è stato toccato, soprattutto da parte dei ragazzi. Gli stessi hanno, infatti, dichiarato di essere particolarmente sensibili alle influenze esterne, le quali, nella maggior parte dei casi, portano all’entrare in situazioni di rischio. In aggiunta, è stata espressa una difficoltà nel parlare agli adulti dei propri problemi. In tal senso il modello non-punitivo e non-espulsivo si è rivelata una risorsa. I giovani collocati hanno il tempo e la possibilità d’instaurare relazioni di fiducia con l’educatore, dichiarano, infatti, di sentirsi meno vincolati nel raccontare all’operatore i propri vissuti, in quanto non hanno paura delle conseguenze. Anche gli educatori hanno affermato che, rispetto a un modello classico, vi è la possibilità di ascoltare realmente il giovane, utilizzando appieno lo strumento relazionale. Non si hanno, dunque, delle risposte prestabilite, ma si vive nel qui ed ora della relazione, destreggiandosi nel dialogo e nell’ascolto dell’altro. I ragazzi hanno dichiarato che un aspetto che apprezzano molto è relativo al fatto che, nonostante agiti estremi che mettono in atto, il foyer c’è sempre, non li abbandona. Un aspetto critico rilevato nell’attuazione del modello è inerente ai limiti. Sono i giovani stessi a dire che servirebbero più regole di convivenza e più limiti. Fattore di fondamentale importanza, che andrebbe affinato all’interno della struttura. Si è visto, comunque, che il foyer non è esente da regole, allora, forse, i motivi di tale bisogno sono legati a una difficoltà a entrare in una visione nuova di gestione delle trasgressioni, un’ottica che segue una linea più dialogica e comprensiva che punitiva. Nel discorso specifico non bisogna dimenticare che la dimensione di controllo assume una grande rilevanza nella gestione del rischio. La teoria, nel determinato frangente, afferma che l’autorevolezza sia lo stile educativo più funzionale, in quanto non è un’imposizione che viene formulata dall’alto, ma una costruzione partecipata, ove l’educatore non si astiene dalle proprie responsabilità. Ecco, quindi, che il ragazzo ha una partecipazione attiva nel proprio progetto di vita ed è protagonista all’interno della sua rete di riferimento. Gli educatori, in tal senso, hanno espresso più volte l’utilità della trasparenza nel comunicare le informazioni alla rete. Quest’operazione permette al professionista in foyer di sgravarsi dal peso delle responsabilità, di condividere dubbi e perplessità e di arrichirsi per merito di un lavoro complementare con le altre figure della rete. Per quanto concerne i risultati, è difficile stabilire in maniera oggettiva se il lavoro svolto sinora sia stato proficuo o meno. Il motivo principale rivelato è la piccola quantità di risultati tangibili, in quanto il lavoro attuale si basa su un’acquisizione graduale e rispettosa dei tempi del giovane rispettando i vari livelli della piramide dei bisogni di Maslow. I risultati più palpabili, quindi, come per esempio il mantenimento di un’occupazione stabile, tardano ad arrivare. È fondamentale esplicitare che la ricerca specifica si pone quale tassello iniziale predisposto a fornire un quadro generale della situazione presente al foyer Calprino. Prima di poter analizzare a fondo ogni complemento e sfumatura della gestione è necessiario fornire un quadro e una valutazione che rispecchi le rappresentazioni di chi in questo contesto ci vive quotidianamente. Il documento è, dunque, l’inizio e la base sulla quale, in seguito, costruire i vari temi annessi e rispondere ai bisogni emergenti. Diviene, dunque, sostanziale fornire al lettore delle

prospettive di sviluppo della ricerca. Un’ipotesi di miglioramento della presa a carico specifica è relativa al trovare un equilibrio funzionale tra limiti e non-punizione. È emerso che i limiti sembrano non essere definiti in maniera eccellente. Non si comprende a fondo quando i ragazzi necessitino di flessibilità e quando, invece, di rigidità; hanno espresso, infatti, entrambi i bisogni. Sarebbe interessante, in prospettiva futura, effettuare una ricerca che si concentri sull’antinomia che oscilla tra libertà e bisogno di contenimento all’interno di un Centro Educativo Minorile, andando ad analizzare, in tal senso, i motivi profondi che hanno portato a giungere a questa dichiarazione. Tale ricerca di tesi non è riuscita ad andare a fondo all’argomento proposto, che si è rivelato, però, un punto cardine del lavoro educativo specifico. Un altro fattore che è affiorato dalle parole degli educatori e dalla teoria proposta è la funzionalità di una rete esterna presente e attiva. Essi affermano che all’interno della Fondazione c’è un alto livello di condivisione e comunicazione, elemento che, talvolta, non è così efficiente nel lavoro con la rete esterna (intervista Elisa, p. 4). Anche in questo frangente, per poter approfondire in maniera adeguata il tema, sarebbe stato necessario effettuare una ricerca più territoriale e meno specifica. Sarebbe arricchente conoscere i punti di vista al riguardo dei vari servizi coinvolti a confronto e complemento di quelli esposti dagli educatori del foyer Calprino e risalire a delle strategie comunicative soddisfacenti per tutti gli attori. La teoria analizzata e le interviste hanno espresso la necessità di creare nell’ambiente di vita del ragazzo un clima favorevole e accogliente. Quest’aspetto è indispensabile per il benessere sia dei giovani collocati, sia degli educatori operanti. Sarebbe interessante poter sviluppare in tal senso una riflessione che generi un collegamento tra buon clima, benessere degli educatori e benessere dei ragazzi, andando ad analizzare in maniera sistemica quanto e come i tre oggetti s’influenzano a vicenda. Una critica relativa alla ricerca di tesi è quella di non aver dato voce in maniera profonda alle emozioni degli educatori. Sarebbe stato interessante analizzare gli aspetti più umani della professione educativa, al fine di trovare delle strategie per trasformare l’emotività in una risorsa professionale. Bisogna ammettere, oltre a ciò, che il campione di ricerca, non essendo vasto, non ha permesso di delineare in maniera precisa le rappresentazioni. I limiti di spazio e tempo hanno influito sull’approfondimento della tematica specifica, non si è potuto infatti indagare maggiormente i vari sottoargomenti relativi alla presa a carico del rischio all’interno del foyer Calprino.

Questo lavoro di tesi ha arricchito intensamente il mio bagaglio professionale, esperienziale e personale. È stato interessante andare a scavare nel mondo dell’adolescenza e comprendere un pizzico di una delle fasi di vita più intense e insidiose. La ricerca teorica mi ha permesso di ampliare le mie conoscenze al riguardo e l’analisi sul campo mi ha portata a dare valore e attribuire un significato a dei vissuti che, talvolta, purtroppo, vengono inseriti in uno stigma culturale e in pregiudizi dettati dalla società nella quale viviamo. Ho scoperto dei ragazzi che hanno il coraggio di sognare e rischiare per raggiungere i propri sogni. Dei giovani portatori di grande intelligenza e capacità riflessiva, i quali, nella loro schiettezza, sono riusciti a far emergere argomenti cardine che, sovente, all’interno del mondo degli adulti vengono celati da veli invisibili, ma spessi. Nel lavoro educativo si parla spesso di co- costruzione, co-partecipazione e creazione di significati condivisi; attraverso tale elaborato ho compreso la funzionalità di partire in primis dal vissuto delle persone con le quali lavoriamo, in questo caso gli adolescenti e gli educatori del foyer Calprino.

La ricerca di tesi non è stato un lavoro puramente didattico, ma una profonda esperienza professionale e di vita.

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Allegati

Allegato 1: intervista Antonio

1. Quanti anni hai? Sedici.

2. Da quanto tempo sei collocato al foyer Calprino? Da più o meno sette mesi.

3. Vivi nel foyer o in appartamento? Vivo in foyer.

4. Cosa ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Trovo una cosa molto importante il fatto che gli educatori ti lasciano libero, qualsiasi cosa fai comunque ti vengono incontro, ma ti danno i tuoi spazi e ti ascoltano.

5. Cosa non ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino?

Quando un ragazzo è incazzato, quando non va bene una cosa, gli educatori ci danno dentro, hai in mente, insistono tanto. Quando loro vedono che c’è una cosa che non va bene, insistono ancora di più invece che trovare, magari, una soluzione.

In più dovrebbero esserci più regole di vita; ad esempio nessuno dei ragazzi cucina qua, nessuno fa le pulizie di suo, nessuno aiuta di suo. Sono cose normali della vita che nessuno fa e che andrebbero fatte. Anche gli educatori non li spingono a fare queste cose, cioè ovvio che se un educatore non ti spinge a fare questo il ragazzo non lo fa. 6. Cosa ne pensi dei limiti e delle regole?

Prima ero al Von Mentlen, troppe regole, troppo rigidi cosa che a me non piaceva e sognavo un posto dove non c’erano regole, dove c’erano molte meno regole e sono arrivato qua. Quando sono arrivato qua mi sono accorto che servono più regole. È vero che è bello il fatto che ci sono molte meno regole, che ti lasciano libero, che hai i tuoi spazi e tutto, però boh dall’altra parte dovrebbero contenerti, darti un limite perché se non mi dai un limite io vado oltre, vado dove cazzo voglio io.

7. Quali sono le situazioni nelle quali ti senti a rischio o in pericolo?

Quando son fuori dal foyer mi sento a rischio e in pericolo perché so che non ci sono gli educatori che mi appoggiano. Mi sento più al sicuro sapendo che gli educatori ci sono comunque. Se faccio fuori un casino, magari finisco nei problemi e c’è la polizia di mezzo, loro ci sono, mi aiutano e vengono con me. È come avere i genitori, da una parte. E lì mi sento molto al sicuro, a sapere che qualsiasi cosa posso fare, qualsiasi cosa io faccia so che ci sono gli educatori dietro, hai in mente. Se penso che non c’è nessuno che mi aiuta devo ricordarmi sempre che ci sono gli educatori, che sono sempre lì nonostante io spesso non me lo ricordo. Se sono in foyer sono tranquillo, so che non potrei fare niente di grave e so che se voglio fare una cazzata, vedo gli educatori e non la faccio, cioè mi passa, tra virgolette, la voglia. Quando son fuori io non ci penso, non

penso a niente, non penso di avere qualcuno che mi guarda, che mi osserva, quindi faccio le cose senza pensarci e poi quando arriva il momento in cui sono nel pericolo non me ne accorgo.

8. Quali sono, secondo te, le situazioni in cui gli educatori pensano tu sia a rischio? Soprattutto quando fumo l’erba, pensano che io sia andato chissà dove, chissà oltre. Però non è mai così. Anche quando sono incazzato, quando sono incazzato loro pensano che io possa fare molto, però non faccio tanto. Cioè quando sono incazzato mi ritiro in me stesso e basta. E loro pensano che io da incazzato potrei fare molto, hai in mente, che potrei arrabbiarmi facilmente, però no, semplicemente mi chiudo in me stesso. Ovvio do le risposte così da menefreghista, rispondo come cazzo voglio agli educatori, però lo so che ho bisogno di stare da solo con me stesso, senza mostrare quanto sono incazzato, quanto magari sono deluso o quanto sono stanco o depresso. 9. A volte preferisci le scelte più rischiose a quelle più sicure? Se sì, perché?

Sì, amo scegliere quelle più rischiose perché so che mi portano a qualcosa che non so. Se scelgo qualcosa di sicuro so com’è, so cos’è. Se è qualcosa di rischioso non so niente, quindi sono curioso e preferisco quella strada lì.

10. Chi sono le prime persone che chiami quando ti senti in pericolo?

Mio fratello, perché è il primo a capirmi. In questo caso che non ci sono i miei genitori è mio fratello, dato che è sempre con me e lui è il primo a capirmi subito. In qualsiasi casino io possa finire lui è il primo a capirmi. Poi, ovviamente, dopo mio fratello sono gli educatori.

11. Quali strategie usi per proteggerti nelle situazioni di rischio?

Boh, mento. Mento di brutto. Mento su qualsiasi cosa, anche se magari non ce n’è bisogno in quel momento io lo faccio. Sempre. Perché ho sempre paura di dire la verità.

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