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L’incognita del rischio : la gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare

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Academic year: 2021

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L’incognita del rischio

La gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione

Amilcare.

Studente/essa

Valentina Roveri

Corso di laurea Opzione

Lavoro sociale

Educatrice sociale

Tesi di Bachelor

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“Sogna, ragazzo, sogna, ti ho lasciato un foglio sulla scrivania,

manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu.”

(Roberto Vecchioni, “Sogna, ragazzo, sogna”)

Un grazie speciale all’équipe del foyer Calprino per l’accoglienza, la professionalità e l’affetto dimostrato. Ai ragazzi collocati per i vissuti condivisi, per le risate, per avermi sostenuta con curiosità e motivazione nel corso della stesura della ricerca di tesi. Grazie a Eleonora Gambardella per il sostegno, i consigli e la presenza costante. Grazie, infine, alla mia famiglia e a coloro che, con una parola o con un gesto, hanno arricchito di valore il mio percorso professionale e personale.

Valentina Roveri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Abstract

 

L’incognita del rischio

La gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare

Il tema della seguente tesi è relativo alle rappresentazioni concernenti il modello non-punitivo e non-espulsivo da parte sia dei giovani collocati al foyer Calprino della Fondazione Amilcare, sia dei relativi educatori. Nello specifico sono state analizzate le prese di rischio dei giovani e le annesse assunzioni di responsabilità degli operatori sociali. Lo scopo del lavoro di ricerca è quello di andare ad approfondire e comprendere il modello innovativo vigente all’interno del foyer Calprino, generando un quadro della situazione attuale. Essendo tale concezione ancora in costruzione nella struttura specifica, il documento si auspica di valutarne la funzionalità e offrire spiragli di crescita futuri, soprattutto in ottica di gestione di comportamenti a rischio inconsapevoli e distruttivi. Gli obiettivi della ricerca sono i seguenti. In primo luogo si vuole fornire una revisione della letteratura concernente i concetti base della domanda di ricerca. In tal senso si fa capo ai concetti teorici cardine della Fondazione: L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen e il metodo Gordon di Thomas Gordon. Vengono approfonditi inoltre argomenti inerenti l’adolescenza, il rischio e i relativi stili educativi nella sua gestione all’interno della fascia d’età indicata.

Secondariamente si propone di comprendere le rappresentazioni che gli adolescenti e gli educatori del foyer Calprino hanno riguardo al modello non-punitivo e non-espulsivo; soprattutto rispetto la presa a carico degli stessi in situazioni a rischio e, per i secondi attori citati, l’assunzione di responsabilità connessa a tali agiti.

In relazione a quanto emerso dai racconti dei protagonisti, la ricerca mostra un’analisi in itinere su punti di forza e criticità del modello non-punitivo e non-espulsivo, per quanto concerne la presa a carico dei ragazzi in situazioni a rischio e possibili prospettive future. La tesi, quindi, si sviluppa in tre fasi: una puramente teorica atta a sviscerare i concetti della domanda di ricerca; la seconda che si occupa di raccogliere le rappresentazioni di ragazzi ed educatori del foyer, mettendo in luce risorse e criticità del modello; la terza mira a elaborare prospettive future al fine di approfondire maggiormente il tema proposto.

Per un possibile sviluppo della ricerca sarebbe interessante andare a esaminare nello specifico i vari argomenti cardine emersi dalle interviste effettuate, quali, per esempio, l’antinomia tra libertà e limitazione per i ragazzi collocati in Centri Educativi Minorili e la sfera emotiva dell’educatore nella gestione del rischio.

L’indagine di tesi ricorda all’educatore l’importanza di costruire progetti educativi in collaborazione con le persone che hanno l’esperienza dei vissuti. Senza l’apporto dei racconti dei diretti interessati, infatti, non sarebbe stato possibile delineare le specificità del modello.

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Indice

1. Introduzione ... 1

2. Contesto di tesi ... 2

3. Revisione della letteratura ... 4

3.1 Il ciclo di vita dell’adolescenza ... 4

3.2 Il rischio nei giorni nostri ... 5

3.3 Il rischio in adolescenza ... 6

3.3.1 Fattori cognitivi ... 6

3.3.2 Fattori sociali ... 7

3.3.3 Altre teorie ... 9

3.4 Stili educativi nella gestione del rischio ... 10

3.5 La gestione del rischio al foyer Calprino ... 11

3.5.1 Il metodo di Thomas Gordon ... 12

3.5.2 L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen ... 14

4. Quadro metodologico ... 18

4.1 Obiettivi della ricerca di tesi ... 18

4.2 Metodologia di ricerca ... 19

5. Risultati e analisi ... 20

5.1 Comportamenti di adattamento disfunzionali ... 20

5.2 L’influenza nella fragilità ... 22

5.3 Il dialogo: un sostituto alla punizione ... 23

5.4 Stare in relazione ... 26

5.5 I risultati del modello non-punitivo non-espulsivo al foyer Calprino ... 28

5.6 La rete: una risorsa nel lavoro educativo con il giovane ... 30

6. Conclusioni e riflessioni ... 33 Bibliografia

Bibliografia libri Bibliografia articoli

Bibliografia moduli scolastici Bibliografia tesi

Sitografia

Allegati

Allegato 1: intervista Antonio Allegato 2: intervista Giacomo Allegato 3: intervista Michela Allegato 4: intervista Francesca

Allegato 5: intervista Giuseppe - educatore Allegato 6: intervista Simone - educatore Allegato 7: intervista Elisa - educatrice Allegati 8-11: diari

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1. Introduzione

La ricerca di tesi è stata sviluppata a seguito dello svolgimento di uno stage di pratica professionale, della durata di cinque mesi, all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Una costante che ha caratterizzato tale periodo e che, conseguentemente, ha portato al generarsi di numerose riflessioni, è relativa alla sovente assunzione di rischio di un’abbondante parte dei ragazzi collocati. Come si vedrà nell’approfondimento teorico che segue, la ricerca della trasgressione è un aspetto integrante della fase di vita presa in considerazione, pertanto è uno stadio necessario allo sviluppo di autoefficacia e autonomia (Bonino, 2005, p.14). All’interno della certezza che ogni essere umano sano percorra codesto frangente, contraddistinto dall’infrangere le regole, vi sono delle variabili malleabili, le quali potrebbero delineare il confine tra passaggio evolutivo funzionale e grave messa in pericolo della propria vita. A condizionare il concatenarsi di questi elementi che portano al risultato di un determinato rischio, entrano in gioco diversi fattori nell’accompagnamento dell’adolescente da tenere in considerazione. Da una parte vi è l’importanza dell’ascolto e dell’accoglienza per facilitare al ragazzo l’espressione della domanda d’aiuto all’adulto. Thomas Gordon, infatti, afferma che l’ascolto attivo “(...) invita una persona a parlare dei suoi problemi; facilita la catarsi e la liberazione dei suoi sentimenti ed emozioni; favorisce la conversazione con la persona che ha un problema; favorisce la sua esplorazione dei sentimenti più profondi; gli comunica la vostra intenzione di aiutarlo in qualche modo; e gli comunica che lo accettate così come è.” (Gordon, 1991, p. 71). Dall’altra bisogna prendere in considerazione il bisogno del ragazzo di essere confrontato con confini ben saldi. “Se un bambino, o un ragazzo, sente che i confini sono talmente fragili che li può abbattere, sarà insicuro e spaventato. Questo incoraggia la sua distruttività e non la sua creatività.” (Asha Phillips, 2008, p. 153).

Vi sono diverse teorie, le quali verranno analizzate di seguito, volte a fornire al lettore una funzionale presa a carico dei giovani, a questo punto ci si domanda come concatenarle in un’armoniosa melodia e, probabilmente, la risposta più attendibile è da ricercare nei diretti interessati. Nello specifico, dunque, la ricerca vuole indagare il modello punitivo e non-espulsivo adottato dal foyer Calprino, andando a fissare il focus sulle rappresentazioni che i ragazzi hanno riguardo al rischio e alla sua gestione nel contesto rappresentato. Un quadro, quello del foyer oggetto di analisi, che sta costruendo mattone dopo mattone un modello e una filosofia basati sulle teorie innovative dichiarate. L’indagine, pertanto, è atta anche a fornire una valutazione in itinere, costituita da teorie attendibili, educatori e, soprattutto, ragazzi del foyer, per comprendere, almeno in parte, il lavoro che sinora è stato svolto. Per merito di tale operazione ci s’interrogherà sulla funzionalità del determinato approccio e i margini di miglioramento e di crescita rispetto ai bisogni dei ragazzi e alla conseguente gestione del rischio e assunzione di responsabilità da parte degli operatori sociali.

Il quadro descritto viene incorniciato nella domanda di tesi che segue.

“Quali sono le rappresentazioni del modello educativo non-punitivo e non-espulsivo utilizzato al Foyer Calprino della Fondazione Amilcare da parte dei giovani collocati e degli educatori per quanto concerne l’assunzione di rischio dei ragazzi e le relative responsabilità degli educatori?”

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2. Contesto di tesi

“Saper accettare un altro «così come è» è veramente un atto d’affetto e d’amore; il sentirsi accettati significa sentirsi amati. E in psicologia abbiamo soltanto iniziato a capire il potere enorme del sentirsi amati: può influire nella crescita della mente e del corpo, ed è probabilmente la forza terapeutica più efficace che si conosca per poter riparare sia i danni psicologici che fisici.” (Gordon, 1991, p. 70).

La suddetta citazione vuole introdurre il relativo capitolo, in quanto portatrice di un significato profondo nella relazione con l’altro. Dalla stessa, infatti, emerge un elemento fondamentale del lavoro educativo: l’accettazione, intesa quale gesto d’amore e di presenza. Un concetto portante all’interno del modello in vigore nel contesto sul quale poggia la seguente ricerca. È doveroso, perciò, in un primo momento, fornire una descrizione della cornice lavorativa ove è stato svolto il percorso di redazione della tesi: il foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Quattordici anni dopo l’introduzione della Legge per la protezione della maternità, dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza e un anno dopo l’entrata in vigore della stessa, la quale oggi prende il nome Legge per le famiglie, nascono gli arbori della Fondazione Amilcare. La medesima è, attualmente, rappresentata sul territorio da tre Centri Educativi Minorili (CEM) - foyer Calprino, foyer Verbanella, foyer Vignola - l’équipe ADOC, il progetto occupazionale AdoMani e il centro diurno SpazioAdo.

Le finalità della Fondazione Amilcare si concentrano sul soggetto protagonista di ogni progetto, ovvero l’adolescente. Essa “intende svolgere attività di prevenzione, di protezione, di educazione, e di recupero di quella fascia di minorenni che, per motivi diversi, si trovano in un momento di difficoltà nel loro sviluppo e che talvolta non possono più vivere nel loro nucleo famigliare di appartenenza. Lo scopo principale è quindi quello di portare questi ragazzi allo sviluppo della propria personalità, anche in una dimensione spirituale, al riconoscimento ed alla scoperta dell’unicità del proprio essere e dei propri valori, alla capacità di vivere e convivere nella realtà sociale della nostra epoca.” (“Linee direttive Fondazione Amilcare”, p. 2). La nozione sulla quale si aggancia maggiormente Amilcare è la fiducia. Questa parola, conosciuta da chiunque padroneggi la lingua italiana, talvolta vede l’emergere di difficoltà nell’attuazione pratica. Il nuovo concetto di foyer, della non-espulsione e non-punizione1 proposto dalla Fondazione, mette in evidenza l’ascolto e l’accettazione incondizionata dell’adolescente e definisce che il primo passo per creare una relazione di fiducia è mettersi a disposizione del giovane. Tale concezione definisce, dunque, i binari da seguire al fine di generare fiducia reciproca tra ragazzi e operatori e, inoltre, si scopre essere in sinergia con le parole di Thomas Gordon citate alle radici di codesto capitolo, ove l’accettazione, oltre ad avere una funzione d’affetto, assume un valore terapeutico per le persone cui essa è rivolta. Il modello proposto riconosce, in aggiunta, il giovane in maniera olistica per rispondere nel modo più funzionale a ogni tipo di dubbio, richiesta, bisogno o interesse.

Il collocamento avviene attraverso la segnalazione e la relativa stesura del Progetto Educativo da parte di una delle strutture principali nel campo minorile e familiare: l’Autorità Regionale di Protezione (ARP), il Magistrato Minorile e il Servizio Medico Psicologico (SMP).

                                                                                                               

1 Gli esordi del nuovo modello sono stati applicati nel corso dell’anno 2016. A fine 2017 è stato dichiarato nelle Linee Direttive della Fondazione Amilcare che tutte le strutture applicavano la non-punizione e non-espulsione.

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A decidere, di seguito, la struttura collocante è la Commissione di Esame per gli Affidi presso Terzi (CEAT).

Nello specifico, la struttura ad accogliere la ricerca di tesi è il Foyer Calprino. L’abitazione presa in considerazione si trova a Massagno e ospita attualmente, al suo interno e negli appartamenti messi a disposizione, nove adolescenti, di sesso sia femminile, sia maschile, che variano dai quindici ai diciannove anni. I giovani collocati nel foyer sono persone che hanno storie diverse fra loro, accomunate, però, da una fragilità determinata sia dal ciclo di vita che stanno vivendo, sia dai rapporti, sovente non funzionali, conseguiti nella propria vita, in special modo con persone significative appartenenti alla famiglia dalla quale sono stati momentaneamente allontanati.

Le figure facenti parte della rete, indirizzate dalle finalità del lavoro educativo2, aiutano, sostengono e coinvolgono la persona, la quale diventa protagonista del proprio progetto individualizzato, donandole le basi necessarie per costruire una prospettiva futura fruttuosa. Concretamente, nella quotidianità del foyer Calprino, il giovane viene seguito e accompagnato in maniera costante e continua dalla coppia educativa, la quale permette al ragazzo, attraverso un approccio concertativo con progettazione dialogico partecipata3, di appoggiarsi sia alla figura femminile, sia a quella maschile a dipendenza della circostanza. Con i professionisti citati il protagonista del progetto effettua almeno un colloquio settimanale, all’interno del quale si genera uno spazio di dialogo atto a verificare l’avanzamento del progetto personale, con annessi desideri, dubbi, preoccupazioni, bisogni e proposte.

Nella maggior parte dei casi del foyer Calprino, è presente una situazione temporanea, di lunga o breve durata, di tensione all’interno della famiglia, pertanto la Fondazione Amilcare lavora attraverso il modello sistemico sul fronte familiare, attraverso consulenze familiari e progetti che comprendono tutte le persone significative del giovane. Il motivo principale di questa modalità lavorativa è la consapevolezza che operando e comprendendo in maniera sistemica le fitte reti relazionali, si possa considerare la persona nella sua totalità.

                                                                                                               

2 “Qualità di vita e salute, intese benessere psichico, fisico, sociale e spirituale; l’empowerment e l’autonomia,

l’autodeterminazione, l’autoefficacia, l’autostima e la creatività; processi di integrazione, inclusione e partecipazione sociale; sviluppo della giustizia sociale, del rispetto dell’ambiente e dei contesti di vita.” (Maida, 2017a, slide 9).

3 Il processo di progettazione, nell’approccio concertativo o partecipativo, è “(...) costellato di decisioni che ne orientano il corso

successivo e che sono anch’esse frutto di processi di negoziazione condotti tra i diversi attori implicati in funzione della loro posizione nell’organizzazione.” (Pozzobon, 1994, p. 14, cit. in Leone & Prezza, 2003, p. 42).

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3. Revisione della letteratura

3.1 Il ciclo di vita dell’adolescenza

Il termine adolescenza può essere scisso in varie definizioni, secondo la concezione generale e prendendo in considerazione la descrizione attribuita da un dizionario attendibile e universalmente riconosciuto, essa viene rappresentata nel “(...) periodo della vita umana, compreso tra i dodici e i diciotto anni circa, in cui si attua il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta e si compie la maturazione sessuale (...)” (Garzanti, 2010, p. 46). Ritengo questa delineazione chiara e utile, ma è importante affermare che, in ottica di lavoro sociale, non è abbastanza approfondita e diventa indispensabile scavare più a fondo nel termine, in quanto l’adolescenza è una fase della vita estremante complessa, ricca di eventi di crescita e di conflitti interni ed esterni. Un momento nel quale il giovane si ritrova a dover gestire molteplici cambiamenti, che siano essi legati al corpo, alla mente o alla vita sociale. “Nel corso di questo processo destabilizzante e ristrutturante, sono tipiche delle oscillazioni dell’umore imprevedibili e incontrollabili. L’adolescente oscilla dall’esaltazione alla depressione (...); da un’iperespansione narcisistica (...), all’odio per se stesso ed alla disperazione (...).” (Tyson P. & Tyson, R. L., 1995, p. 406). Il minore vive, dunque, “controllato” da una sorta di bilancia, ondeggiando tra molteplici poli opposti e antinomie. In questo continuo movimento, tra un sentimento e l’altro, tra il bianco e il nero, si genera un caos interiore, difficile da controllare; il ragazzo, dunque, necessita di basi solide e capacità personali per far fronte alle frustrazioni.

Quanto appena esplicato, porta la persona a dover elaborare situazioni nuove utilizzando, oltre alle possibilità attuali, le risorse e le capacità di adattamento apprese nei cicli precedenti. Capacità strettamente dipendenti dalla relazione instaurata con le figure significative che hanno accompagnato il fanciullo in tutti i suoi anni di crescita. Concetto da tener ben presente nel lavoro a contatto con i ragazzi, perché il rischio di giudicare la persona quale “cattiva” incombe molto più di quanto si creda e, per l’adolescente, potrebbe diventare un’etichetta scomoda da far togliere dagli altri e, ancor di più, da se stesso. È necessario ricordare, a tal proposito, che qualunque adolescente sarà spinto dalla voglia di trasgredire e di ricercare il rischio, considerato che questi comportamenti sono spesso legati al raggiungimento di “(...) obiettivi di crescita, personalmente e socialmente ricchi di significato (...)” (Bonino, 2005, p. 12). Non esiste, per cui, una persona cattiva o brava, ma modi diversi, definiti dalle esperienze passate, di affrontare le sfide e le decisioni che la vita ci pone davanti. Bisogna imparare a porsi con i ragazzi come fece, per esempio, il Sacerdote Claudio Burgio, il quale rispose così a un ragazzo che aveva rubato nella comunità di accoglienza Kayrós:

“Non mi stupisco di questo gesto sbagliato, fa parte della tua storia, di quello che fino ad oggi hai respirato e perciò ti accolgo in comunità con grande gioia; ci dobbiamo dare del tempo, però, perché ancora non ci conosciamo, non ci fidiamo l’uno dell’altro, dobbiamo imparare a rispettarci...” (Claudio Burgio, 2010, p. 33).

Diventa, pertanto, essenziale considerare tutti gli aspetti teorici legati alla fascia d’età, onde evitare di valutare superficialmente un individuo e attuare una spirale nella quale la vittima, in questo caso il minore, non supportato dall’adulto, non rispecchi nei comportamenti la propria persona, ma ciò che gli altri credano lui sia. “I comportamenti a rischio insomma, per quanto pericolosi e disturbanti, non sono segno di un fallimento nel percorso di sviluppo

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adolescenziale, né di un disadattamento patologico, ma sono la risposta che alcuni adolescenti danno ai compiti di sviluppo caratteristici dell’età nell’attuale momento storico e culturale” (Bonino, 2005, p. 14).

Nel caso specifico del foyer Calprino, l’adolescente, oltre a dover affrontare le sfide che il ciclo di vita pone, si ritrova, in aggiunta, una mancanza a livello di risorse acquisite nell’infanzia e nel periodo precedente l’adolescenza. Deve fare uno sforzo non indifferente per sopperire alla fragilità che determinate relazioni, familiari e non, hanno generato in lui. Basti pensare al percorso istituzionalizzato affrontato da molti giovani della struttura, una strada che li ha portati, fin da piccoli, a dover abbandonare persone e luoghi conosciuti per andare verso l’ignoto di un istituto, poi di un altro e infine, talvolta, di un altro ancora. Un paradosso che porta il minore fragile ad affrontare circostanze che necessitano risorse ben salde. L’adulto che effettua il percorso insieme al giovane deve, perciò, imparare e allenarsi a non fermarsi alla devianza esercitata. È necessario, invece, che comprenda quali sono i bisogni adolescenziali che hanno portato all’atteggiamento preso in considerazione, per camminare al fianco del minore; né davanti né dietro, ma insieme.

3.2 Il rischio nei giorni nostri

Nella società post-moderna si sentono, sovente, termini quali Società dell’incertezza e Società del rischio (Sibilio, 2013, p. 27). Tali denominazioni sono strettamente collegate alle condizioni di vita degli abitanti del mondo occidentale. L’aria che circonda la popolazione è impregnata d’incertezza generale e precarietà lavorativa e privata. “Una società che respinge la stabilità e la durata, preferisce l’apparenza alla sostanza dove il tempo si frammenta in episodi «non è più un fiume ma un insieme di pozzanghere» (Bauman 1999), dove la salute degrada a fitness e dove addirittura la massima espressione della libertà sembra essere lo zapping tra i canali satellitari disponibili. La vita stessa non ha più la solida pesantezza della materia ma l’insostenibile leggerezza dell’etere, delle comunicazioni immateriali e l’esperienza appare sempre più frammentata, fugace, iperreale, vissuta per proiezione nei modelli spettacolari che i media ci propongono.” (Sibilio, 2013, p. 28). Il progettare ha lasciato spazio all’immediato e i bisogni sono stati sostituiti dai desideri. Nel 1930 Paul Mazur della Lehman Brothers, nella rivista Harward Business Review, scrisse:

"We must shift America from a needs- to a desires-culture. People must be trained to desire, to want new things, even before the old have been entirely consumed. [...] Man's desires must overshadow his needs"4 .

Le parole di Mazur sono state una profezia dell’epoca post-moderna, nella quale le persone sono spinte ad agire con poca consapevolezza o riflessione, ove i media e la propaganda tendono a inibire le necessità e ad accentuare i desideri, un paese in cui scegliere il rischio alla stabilità rientra nei comportamenti ordinari. Fattore che genera un certo livello di preoccupazione se si pensa che la decisione di imboccare un sentiero pericoloso piuttosto che uno sicuro possa dipendere “(...) dal non conoscere con sicurezza le conseguenze e i difetti nascosti nelle pieghe del tempo, che implicano anche la possibilità di perdite, materiali e psicologiche.” (Matini, 1998, p. 12). Oltre all’inconsapevolezza che porta le persone a

                                                                                                               

4 Trad. : « Dobbiamo cambiare l’America da essere una cultura dei bisogni, a una cultura dei desideri. Bisogna insegnare alla

gente a volere cose nuove, anche prima che le cose vecchie siano consumate del tutto. I desideri dell’uomo devono mettere in ombra le sue necessità. ». Paul Mazur, Harward Business Review, 1927 citato da. Häring, N. & Douglas N. (2012). Economists and the Powerful: Convenient Theories, Distorted Facts, Ample Rewards. Anthem Press, London, New York, New Dehli.

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prendere decisioni colme di fattori di rischio, vi è anche un malessere generale il quale, in una parte dei casi, sfocia nel timore del futuro e della realtà circostante, con la possibile conseguenza di una ricerca maggiore del rischio al fine di evadere da quell’inquietudine. Un esempio palese è quello relativo al gioco d’azzardo. I giocatori non son più “uomini animati da conflitti nevrotici (...) quanto soggetti privati di desiderio. Il cui loro principale movente sembra quello di «entrare in una zona», in una bolla e restarne immersi (...).” (Croce, 2016, p. 7). È doveroso affermare, in conclusione, che, nella breve cornice descritta del contesto che ci ospita, non bisogna dimenticarsi di inserire gli interventi che negli anni si sono studiati al fine di prevenire l’assunzione del rischio.

Qui s’inseriscono, per esempio, l’introduzione della Peer Education5, ovvero l’educazione tra pari, e le varie campagne di prevenzione del rischio e di promozione del benessere.

3.3 Il rischio in adolescenza

Come trattato in precedenza, la ricerca del rischio aumenta d’intensità e di frequenza nel ciclo di vita dell’adolescenza (Bonino, 2005, p. 12). A influenzare tale condizione entrano in gioco l’evoluzione in ambito cognitivo e il contesto d’appartenenza, attuale e passato, del giovane. Il rischio “(...) può pertanto assumere valenze costruttive, orientate alla progettualità personale, oppure può riflettere scelte basate solo sull’emozione che tali condotte possono provocare, con esiti principalmente distruttivi.” (Zani & Cicognani, 2006, p. 10). Onde evitare di trasformare il rischio da evolutivo e costruttivo a esagerato, inconsapevole e distruttivo, è necessario, perciò, analizzare il concetto preso in considerazione e riportarlo all’interno di una ricerca empirica che ne svisceri i vari significati e ne valuti di conseguenza la più funzionale presa a carico. Il rischio è la “(...) possibilità di subire un danno, una perdita, come eventualità generica o per il fatto di esporsi a un pericolo; il pericolo stesso al quale ci si espone o in cui ci si può imbattere (...)” (Garzanti, 2010, p. 2145). Partendo dalla definizione esposta si nota come il rischio possa essere determinato sia da variabili prevedibili, quali, per esempio, scelte personali, sia da situazioni che incombono senza possibilità di scelta. Di seguito si analizzeranno tali fattori, soprattutto i primi citati, in connessione con la fascia d’età in analisi: l’adolescenza.

3.3.1 Fattori cognitivi

L’articolo pubblicato nel 1998 in Animazione Sociale della psicologa Claudia Matini “Adolescenza e assunzione di rischi” apre la visione a quattro principali funzioni cognitive. Le stesse caratterizzano la fase dell’adolescenza e la relativa capacità di resistere o meno al mettersi in situazioni di pericolo.

In primo luogo troviamo l’egocentrismo adolescenziale e l’illusione di vulnerabilità. In questa particolare fase della vita il giovane canalizza la maggior parte dei propri pensieri su lui medesimo. “L’adolescente scopre in questo periodo di poter riflettere sul proprio pensiero e diventa profondamente consapevole di se stesso. Questa acuta concentrazione su se stesso e la capacità di pensare al pensiero degli altri lo fanno arrivare alla conclusione che egli è al

                                                                                                               

5 “Persone con un interesse comune vengono formate a sviluppare conoscenze e specializzazioni appropriate e a condividere

queste conoscenze, in modo da informare e preparare altri e diffondere competenze e abilità simili all’interno dello stesso gruppo di interesse” (Svenson, 1998)

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centro dell’attenzione altrui come lo è della propria.” (Matini, 1998, p. 14). Il ragazzo, perciò, si preoccupa in maniera particolare del pensiero che terze persone gli attribuiscono e cerca in molteplici modi di apparire agli occhi degli altri esclusivo e originale. “Egli crea una favola personale secondo la quale la sua unicità lo pone al di sopra di ogni pericolo.” (Matini, 1998, p. 14). L’egocentrismo lo porta, inoltre, a percepire di avere il potere di superare qualsiasi limite che lo affligge, ingannando se stesso e convincendosi riguardo la propria invulnerabilità. Con la maturazione, le esperienze di vita a livello affettivo e sociale, il ragazzo esce dall’illusione creata avvicinandosi maggiormente alla realtà che lo circonda. “Il pubblico immaginario si modificherebbe sempre di più per avvicinarsi a quello reale e la favola personale svanirebbe grazie alla nuova consapevolezza di essere come gli altri, raggiunta mediante lo stabilirsi dell’intimità, cioè del contatto mutuo e della confidenza, con un'altra persona (Elkind, 1967).” (Matini, 1998, p. 14). Secondariamente nell’articolo viene citato il ragionamento possibilistico. Questa funzionalità è strettamente influenzata da “valori oggettivi” e “percezioni soggettive.” (Matini, 1998, p. 15). In alcuni casi è presente un ritardo nello sviluppo delle capacità logiche di potersi immaginare le conseguenze relative alle varie possibilità di scelta. In questo caso il giovane rappresenterà con difficoltà il futuro annesso a una determinata scelta, valutando in maniera disfunzionale vantaggi e svantaggi inerenti alle scelte che può prendere. “Se questa abilità è insufficiente o manca del tutto, il ragazzo valuterà solo gli aspetti immediatamente evidenti del suo problema e la decisione non sarà equilibrata dal punto di vista logico (Miller, 1989).” (Matini, 1998, p. 15). In aggiunta ai primi due fattori cognitivi esplicati vi è il ragionamento probabilistico. Il limite principale in adolescenza concernente a tale funzione è relativo al fatto che “considerano le probabilità di un evento come cumulative e non indipendenti, come di fatto sono.” (Matini, 1998, p. 15). Alla base di questo pensiero, in sintesi, vi è la convinzione che più raramente ci si metterà in pericolo, meno saranno le probabilità che la messa a rischio porti a una conseguenza negativa. La difficoltà di utilizzare la metacomunicazione come capacità di autoregolazione è il quarto elemento che emerge per quanto concerne la messa in pericolo degli adolescenti. “Con questo termine ci si riferisce sia alle conoscenze e alle convinzioni individuali circa la mente umana, sia alle strategie di autoregolazione mediante le quali teniamo sotto controllo la nostra attività”. (Matini, 1998, p. 15). Concretamente è, da un lato, la capacità di informarsi riguardo a un determinato rischio, quindi “(...) come attività di controllo della propria capacità cognitiva”. (Matini, 1998, p. 15). Dall’altro lato è l’esperienza di adattamento che si svolge al fine di “acquisire una maggior conoscenza di se stessi” (Matini, 1998, p. 16), pertanto è una “(...) attività di controllo e di adattamento delle proprie competenze cognitive e sociali (...).” (Matini, 1998, p. 16). In tal caso diventa necessario riuscire a distinguere i rischi che fanno parte dell’evoluzione e del bisogno di sperimentare ordinario, dalla dannosa ricerca estrema del pericolo.

3.3.2 Fattori sociali

Per quanto concerne i fattori sociali, gli attori principali che verranno analizzati sono la famiglia e il gruppo dei pari.

La famiglia assume un ruolo fondamentale e determinante nella crescita dell’adolescente. Secondo la teoria dell’attaccamento di John Bowlby (1969) le interazioni che intercorrono, nei primi anni di vita, tra il bambino e la figura adulta di riferimento predispongono le basi attraverso le quali il primo soggetto citato costruirà un particolare stile di attaccamento e

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organizzerà rappresentazioni mentali relative a sé e agli altri. Grazia Attili nel libro “Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente” (2009) differenzia quattro tipologie differenti d’attaccamento. Quello sicuro, nel quale la figura di attaccamento è stata in grado di rispondere in maniera adeguata e attenta alle richieste del bambino con la conseguenza che crescendo, lo stesso, avrà una buona fiducia personale e negli altri e percepirà la realtà esterna come rassicurante. L’attaccamento insicuro-ambivalente, ove la figura di riferimento, caratterizzata dall’utilizzo di comportamenti insensibili e imprevedibili, tende ad ignorare le richieste del bambino. Quest’ultimo non potendo anticipare e controllare le reazioni dell’adulto preso in considerazione, crescerà con la sensazione di non essere sempre degno d’amore e con una bassa fiducia in se stesso; percepirà, inoltre, la realtà esterna quale pericolosa e gli altri come inaffidabili. In terzo luogo, rispettivamente, troviamo l’attaccamento insicuro-evitante. Nel caso citato, la figura d’attaccamento tenderà a evitare d’interagire con il bambino, lo stesso crescendo, dunque, avrà la percezione di non essere degno di essere amato e, vedendo gli altri come rifiutanti, tenderà ad avere fiducia solo in se stesso. L’ultima tipologia d’attaccamento si riferisce al disorganizzato. In questo caso il riferimento materno agisce in maniera maltrattante, abusante o psichiatrica. Il bambino, crescendo, percepirà la figura d’attaccamento quale bisognosa d’aiuto, che spaventa e che è spaventata. Valutando gli altri come persone minacciose, il soggetto avrà sovente delle reazioni aggressive e imprevedibili. Partendo dalle considerazioni teoriche proposte si nota come l’assenza di basi sicure e l’impossibilità di sviluppare determinate risorse sociali attraverso il primo canale di socializzazione possano, in alcuni casi, costituire un importante deficit anche nelle fasi successive all’infanzia. Un rischio tangibile, nel caso di un attaccamento diverso da quello sicuro, è di una difficoltà maggiore nel processo d’individuazione adolescenziale; con la possibile conseguenza di assunzione di comportamenti pericolosi e trasgressivi atti a differenziarsi in maniera più netta dalla figura d’attaccamento primaria. Per quanto concerne il ruolo della famiglia, infatti, “(...) è stato ripetutamente dimostrato come il grado di controllo e di sostegno famigliare (dimensioni di base dello stile educativo genitoriale, cfr. Maccoby e Martin, 1983), e il coinvolgimento dei genitori nell’educazione dei figli, sono associati alla maggiore o minore propensione dei giovani al rischio e alla devianza” (Cicognani, 2004, p. 11). La famiglia, nei confronti del giovane adolescente, deve perciò elaborare un nuovo equilibrio tra vicinanza, affettività e controllo e indipendenza del ragazzo (Matini, 1998, p.17). “La capacità di dosare in modo equilibrato libertà e restrizioni è necessaria per favorire la maturazione e il processo di responsabilizzazione del figlio” (Matini, 1998, p. 17). Durante un corso relativo i legami d’attaccamento tenuto da una consulente famigliare della Fondazione Amilcare, è stato dichiarato che nel caso specifico dei ragazzi collocati al foyer Calprino, spesso, i legami d’attaccamento con le figure primarie sono stati disfunzionali, maltrattanti, e non sicuri. In tal senso diventa fondamentale ricostruire le frammentazioni generate dalle carenze passate per creare basi più solide al fine di prevenire situazioni estreme di rischio e pericolo e poter, in seguito, progettare il futuro. Il mandato della Fondazione, come anticipato nei capitoli precedenti, comprende anche un lavoro raffinato con le famiglie. In tal senso l’obiettivo è quello di far riacquisire alle persone significative per il ragazzo il giusto valore, in modo da generare nelle relazioni famigliari una risorsa sulla quale il giovane potrà contare per la costruzione della propria autonomia e, quindi, del proprio futuro.

Per quanto concerne il gruppo dei pari “(...) vi sono ricerche che hanno dimostrato un’associazione positiva fra sostegno sociale dei coetanei o amicizie intime reciproche e benessere psicologico (...)” (Cicognani, 2004, p. 12). Gli amici in adolescenza rappresentano

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uno dei canali sociali più importanti. Attraverso gli stessi il giovane ha la possibilità di assumere un ruolo differente rispetto a quello che ha avuto all’interno della famiglia sino a quel momento. In aggiunta, attraverso il confronto con i pari, il giovane inizia la sua emancipazione dai genitori e da’ avvio a uno dei processi fondanti del ciclo di vita preso in considerazione, quello concernente l’autonomia e l’individuazione personale. Bisogna, però, tener conto, nel quadro specifico, l’influenza del gruppo sul singolo, la quale può assumere una connotazione di crescita oppure, all’estremo opposto, di distruttività. “In diverse ricerche si è rivelato come l’influenza dei pari sia collegata all’attuazione di comportamenti a rischio da parte dell’adolescente (...)” (Matini, 1998, p. 17). È stato dimostrato, inoltre, che “Il tempo crescente trascorso con gli amici, in particolare se non impegnato in attività strutturate, è risultato associato a comportamenti a rischio per la salute (sigarette, alcolici, sostanze) (Bonino et al., 2003) e devianti.” (Cicognani, 2004, p. 12). A tal proposito diventa necessario considerare alcuni elementi che entrano in gioco nell’aspetto relativo l’influenza intra gruppale in adolescenza. Troviamo, infatti, il bisogno del giovane di guadagnare l’approvazione dei pari, talvolta anche attraverso l’attuazione di comportamenti pericolosi. Avviene, perciò, una sorta di processo di modellamento, ove il giovane osserva, apprende e ripropone i comportamenti messi in atto più frequentemente nel gruppo (Matini, 1998, p. 17). La ripetizione di tali condotte le fa apparire, agli occhi dei soggetti presi in considerazione, ordinarie e “(...) la percezione del comportamento a rischio come “normale” nell’ambito del gruppo (convinzione che sia condiviso fra i coetanei) costituisce un fattore predittivo dell’assunzione di rischio, così come le pressioni percepite dal gruppo” (Cicognani, 2004, p. 12). Uno dei fattori più preoccupanti riferito a quanto esplicato è che nel “(...) gruppo l’egocentrismo adolescenziale e l’illusione di invulnerabilità possono trovare conferme pericolose, essendo condivise da altre persone (Arnett, 1992a, p. 355)” (Matini, 1998, p. 17).

3.3.3 Altre teorie

Vi sono, inoltre, molte altre teorie applicabili su ogni fascia d’età, che spiegano in parte la decisione d’intraprendere una strada rischiosa piuttosto che quella più sicura. Nel suddetto capitolo ne verranno trattate due delle più emergenti.

In primo luogo si approfondirà la teoria della dissonanza cognitiva elaborata da Leon Festinger nel 1957. All’interno dell’articolo di Mauro Croce “Il caso del gioco d’azzardo: una droga che non esiste, dei danni che esistono” (2001), la teoria viene approfondita legandola a un rischio molto presente ai giorni nostri, il gioco d’azzardo. L’autore afferma che “(...) è necessaria una coerenza (una consonanza) tra il dato cognitivo ed il dato mentale. Se il giocatore non riesce ad interrompere o regolare la propria attività e ne osserva i danni che questa comporta, si trova in una situazione di dissonanza cognitiva che crea una situazione di disagio e necessita di trovare modalità per eliminare tale disagio. Ciò può avvenire in due modi o attraverso la modificazione del comportamento (smettere o riuscire a limitare il gioco) oppure attraverso una modificazione cognitiva trovando delle giustificazioni, delle motivazioni, delle negazioni che permettano di continuare a pensare che il giocare non è poi così dannoso ovvero che potrebbe essere ancora più dannoso l’interrompere il gioco oppure ancora che non ne può fare a meno (perchè malato, infelice, debole, etc).” (Croce, 2001, pp. 14-15). Tale spiegazione può essere traslata ad ognuno dei rischi nei quali incorrono i giovani nel contesto storico attuale. Un esempio può essere riferito all’utilizzo del profilattico. I ragazzi sono ben informati sull’importanza che tale prevenzione assume nell’evitare di

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contrarre malattie sessualmente trasmissibili oppure nell’incorrere in una gravidanza indesiderata. Essi sono coscienti del fatto che si stanno assumendo un grosso rischio non utilizzando l’anticoncezionale e giustificano la propria azione annullando il rischio con frasi quali “queste cose non esistono”, “non accadrà mai a me”, “se c’è amore e fiducia non può succedere”, eccetera. La dissonanza cognitiva ci spiega che un determinato rischio verrà percepito di minor gravità attraverso la formulazione di una convinzione, non reale, che permetta di generare un equilibrio coerente tra comportamento e conseguenze negative che lo stesso può portare.

La seconda teoria atta a spiegare, in parte, la presa di decisioni rischiose è la Teoria della reattanza psicologica elaborata da Jack Brehm nel 1966. “Quando ci viene tolta la possibilità di avere una certa cosa, la desideriamo di più, ma difficilmente ci rendiamo conto che è la risposta alla limitazione che ci viene imposta a causare questo aumento del desiderio: tutto quello che sappiamo è che vogliamo quella cosa. Tuttavia, abbiamo il bisogno di giustificare questo nostro desiderio e così cominiciamo ad attribuire qualità positive alla cosa desiderata.” (Milani & Croce, 2017, Slide 39). Partendo dalla definizione di tale teoria, i limiti e le leggi imposte possono generare nelle persone il contrario di quanto auspicato. Per questo motivo diviene importante considerare quest’aspetto nella gestione del rischio di adolescenti e in generale della popolazione, onde evitare che le limitazioni imposte invece che fungere da modello, divengano un confine da infrangere.

3.4 Stili educativi nella gestione del rischio

Per quanto concerne la dimensione del controllo rispetto agli stili relazionali dell’operatore sociale, Franta Herbert, nel testo del 2004 “Atteggiamenti dell'educatore: teoria e training per la prassi educativa”, distingue tre diverse categorie: atteggiamenti di tipo autoritario, atteggiamenti di tipo antiautoritario o permissivo e atteggiamenti di tipo autorevole.

La prima classe citata contraddistingue un professionista che si posiziona a un livello di superiorità e, di conseguenza, distante relazionalmente dall’interlocutore. L’educatore è, inoltre, estremamente ligio e rigido rispetto a quelle che sono le regole istituzionali. Il non rispetto di una delle suddette porterebbe, nella maggior parte dei frangenti, la conseguenza di una sanzione o punizione. L’operatore antiautoritario o permissivo si posiziona alla pari dell’utente in questione, in tal senso elude specifiche responsabilità che gli spetterebbero. Il professionista si sottrae, in aggiunta, al conflitto con l’altro e si preoccupa che la persona con la quale lavora non incorra in frustrazioni di ogni genere e intensità. L’atteggiamento di tipo autorevole comprende relazioni caratterizzate da rispetto reciproco e definizione chiara e coerente dei ruoli in gioco. Il professionista che opera in quest’ottica, deve maestrarsi nell’oscillazione tra un polo e quello opposto, tra le cosiddette antinomie, in modo da formulare la risposta più adeguata alla situazione che gli si presenta dinnanzi. Per svolgere tale compito al meglio i suoi strumenti principali di lavoro sono l’osservazione, la dialogicità e la compartecipazione dell’altro.

Nei giorni nostri, sempre più sovente, si sente parlare di un’educazione prevalente al permissivismo. “Si denuncia l’aumento dei comportamenti «difficili» e aggressivi, mentre si segnala lo speculare triste declino della autorevole capacità di contenerli (...)” (Cappello, 2004, p.66). Secondo l’autore preso in considerazione in questo estratto la causa dell’aumento di tale problematica si può riportare al fenomeno definito dallo stesso come l’atto di “liberare le emozioni” (Cappello, 2004, p. 67). Con il trascorrere degli anni uno dei

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cambiamenti principali avvenuti a livello educativo è relativo al fornire al giovane tutti gli strumenti necessari al fine di esprimere in piena libertà le proprie emozioni. Tale prospettiva ha permesso alle nuove generazioni maggiori probabilità di crescere acquisendo una buona autostima e autoderminazione; d’altro canto, però, è venuta a diminuire l’inibizione rispetto all’esprimere senza filtri le proprie emozioni, anche negative, nei confronti degli altri e dinnanzi agli altri. Il significato di libertà è, dunque, passato dall’avere “(...) piena facoltà di fare o non fare una cosa.” (Garzanti, 1998, cit. in Cappello, 2004, p. 68), al “(...) superare ogni forma di costrizione e di controllo, manifestare liberamente ciò che ognuno prova nel suo privato spazio emotivo, senza rendere conto a nessuno, a nessuna autorità che non sia la propria.” (Cappello, 2004, p. 68). Nel contesto odierno, perciò, operare con atteggiamento autoritario si rivela inefficace, in quanto l’interlocutore non darà importanza a nessuna autorità al di fuori di se stesso e risponderà, molto probabilmente, in maniera aggressiva (Cappello, 2004, pp. 72-73). La strategia in tal senso più efficace si rivela l’autorevolezza. “L’autorevolezza non impone un potere sull’altro (...), ma al contrario insegna a condividere il potere. L’autorevolezza coniuga quei due elementi che non possono sopravvivere né soli né isolati: la libertà e la giustizia.” (Cappello, 2004, p. 73). Prima d’imporre una regola, inoltre, come anticipato agli esordi di questo capitolo, sarà necessario instaurare, nel determinato caso con l’adolescente, una relazione affettiva e di fiducia. “Solamente ora, nel clima e nel contenimento della relazione affettiva, può prendere corpo la possibilità del controllo (...).” (Cappello, 2004, p. 69). Un altro punto di vista in merito, congruente in certi aspetti con quello appena analizzato, è quello di Thomas Gordon. Nel libro del 2001 “Né con le buone né con le cattive” ci rende attenti al fatto che “nella nostra società, i giovani infelici, carichi di risentimento e di rabbia, ribelli, e vendicativi non hanno avuto troppa libertà: al contrario, hanno avuto troppo controllo, troppa disciplina, troppe sofferenze e privazioni” (Gordon, 2001, p. 144). Oltre a quanto esposto aggiunge che neanche i soggetti “(...) che hanno genitori e insegnanti permissivi si sentono tanto bene: possono sviluppare sensi di colpa per il modo in cui trattano gli altri; spesso non si sentono amati (...) e spesso hanno problemi a formare amicizie (...).” (Gordon, 2001, p. 144). L’autore enuncia, dunque, la disfunzionalità sia dell’autoritarismo, sia del permissivismo e conferma il bisogno di trovare una strada alternativa a queste due estremità; l’autorevolezza, secondo le teorie riportate nella suddetta ricerca, sembra, pertanto, essere la via più efficace.

3.5 La gestione del rischio al foyer Calprino

Nel quadro teorico di riferimento della Fondazione assumono un’importanza rilevante il testo “Éduquer sans punir” di Roland Coenen e il metodo Gordon. La prima letteratura spiega dettagliatamente un fenomeno caratteristico degli adolescenti, soprattutto di quelli la cui vita non è stata sempre benevola. Il giovane in analisi pur avendo la consapevolezza della necessità di aiuto, non è in grado di formulare la domanda. I motivi sono riscontrabili nella spinta, della fascia d’età specifica, a volersi staccare ed essere autonomi dalla figura adulta; il timore di ritornare bambino agli occhi della persona adulta lo porta a velare la richiesta d’aiuto. Se l’operatore sociale non è in grado di cogliere tale comportamento sottile, il pericolo di creare danni irreversibili è alle porte. Partendo da questi principi, la riformulazione del progetto educativo della struttura vede come protagonisti l’educazione non-punitiva e la non-espulsione. Il metodo Gordon si rivela complementare e in sintonia con il pensiero di Coenen, tale approccio fornisce all’operatore delle modalità specifiche atte a creare una

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relazione di fiducia e di ascolto con l’educando. Scopo di tali filosofie è produrre una relazione funzionale e profonda con l’educando che permetta di cogliere il bisogno di aiuto non esplicitamente espresso, con il fine maggiore di formare le basi per costruire una struttura solida nella gestione delle responsabilità della maggiore età. Nei capitoli a seguire si sviscereranno tali concetti, cosicché si possa ottenere una visione più completa della specifica presa a carico.

3.5.1 Il metodo di Thomas Gordon

In America, a partire dalla fine degli anni ‘50, emersero nuove e innovative scuole di pensiero che ponevano al centro della propria filosofia l’individuo, le sue conoscenze e la sua storia. Nel 1961 fu fondata la prima associazione incentrata sulla psicologia umanistica6: American Association for Humanistic Psychology7. I maggiori esponenti di tale concezione furono Abraham Maslow, Carl Rogers e Rollo May. Il fulcro della teoria è che la persona in grado di trovare soluzioni per il soddisfacimento di un determinato bisogno è l’attore stesso, riconquistandosi il ruolo assunto in passato dall’operatore, e non più il professionista, in quanto il primo soggetto citato conosce meglio la propria situazione. In tal senso l’operatore assume il ruolo di facilitatore nel raggiungimento dell’obiettivo indicato, promuovendo, dunque, l’empowerment8 dell’interlocutore. Thomas Gordon, allievo di Rogers, sviluppò in maniera più approfondita tali concetti andando a formulare il metodo Gordon. Due degli elementi principali che lo psicologo in questione riprese e rielaborò furono la piramide dei bisogni di Maslow9, punto cardinale della sua idea, e le abilità relazionali e comunicative che il professionista deve apprendere, nel caso specifico in un contesto traslato da quello terapeutico di Rogers a quello educativo. All’interno di un contesto distinto, il qui ed ora della psicologia umanistica10, Gordon sviluppa nuovi significati che il termine bisogno può assumere. “Gordon, seguendo il pensiero di Maslow e rifacendosi a questa schematizzazione, ritiene che qualsiasi comportamento, sia da pensare come uno sforzo per soddisfare attraverso l’azione un bisogno. Quindi un comportamento non deve essere giudicato come buono o cattivo, ma solo come il modo che una persona ha trovato in un determinato momento per soddisfare un particolare bisogno.” (Frigerio, 2012, p. 73).

                                                                                                               

6 Anche detta Terza forza. “Secondo la terminologia introdotta da Maslow, la psicologia umanistica era la terza forza che

andava a contrastare le due forze preesistenti:

- la prima forza, cioè il comportamentismo, che sistematicamente escludeva il dato soggettivo della coscienza, la complessità e il divenire della personalità, in quanto inaccessibili allo studio scientifico inteso come analisi di dati quantificabili del comportamento.

- la seconda forza, cioè la psicoanalisi, che riteneva il comportamento umano determinato essenzialmente dall’inconscio escludendo l’apporto dei valori, della creatività, della capacità di ogni individuo di guidare il proprio percorso di sviluppo personale.” (Frigerio, 2012, p. 15)

7“(...) cominciarono a riunirsi per fondare un’associazione professionale che partisse da punti di vista più “umani”, puntando

l’attenzione su temi quali: la valorizzazione e il rispetto della persona nella sua libertà, responsabilità e storicità, l’espressione - qui ed ora - dei sentimenti, l’autocoscienza, l’autodeterminazione, la spontaneità, il divenire, l’individualità, la creatività. Quale risultato nel 1961 fu fondata la American Association for Humanistic Psychology.” (Frigerio, 2012, p. 15).

8 “L’empowerment è un processo sociale, culturale, psicologico o politico attraverso il quale gli individui e i gruppi sociali sono in

grado di esprimere i propri bisogni e le proprie preoccupazioni, individuare le strategie per essere coinvolti nel processo decisionale e intraprendere azioni di carattere politico, sociale e culturale che consentano loro di soddisfare tali bisogni. Attraverso questo processo gli individui riescono a percepire una più stretta corrispondenza tra i propri obiettivi di vita e il modo in cui raggiungerli, ma anche una correlazione tra gli sforzi compiuti e i risultati ottenuti.” (Maida, 2017b, Slide 8).

9 La piramide dei bisogni di Maslow è composta da cinque settori di gruppi di bisogni, ove per passare a un livello superiore di bisogni è necessario che quelli inferiori siano soddisfatti. I livelli sono: 1.Bisogno fisiologico 2.Bisogno di sicurezza 3.Bisogno di appartenenza 4.Bisogno di stima 5.Bisogno di autorealizzazione. (Maslow, 1954).

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Partendo da questo pensiero si trae una deduzione importante: parlare di un comportamento cattivo non è funzionale e costruttivo quanto parlare di comportamento disturbante per se stesso o per gli altri. Secondo le ricerche di Gordon “(...) disturbante è una valutazione personale di chi subisce l’azione e non ha niente a che vedere con chi l’agisce, persona che in quel momento non è magari consapevole degli effetti che sta inducendo nell’altro.” (Frigerio, 2012, p. 75). La soluzione più comune a un comportamento ritenuto cattivo è la punizione, un comportamento disturbante necessita, però, di ben altre modalità di affrontarlo e risolverlo. L’ostacolo principale, a livello comunicativo e relazionale, è il non essere in grado di riconoscere quando un determinato comportamento di qualcun altro intacca la propria integrità. La conseguenza più comune è che il fastidio, che l’azione altrui provoca internamente, conduce ad ascoltare inconsapevolmente se stessi e non l’altro, che in questo frangente è l’educando, e richiedergli, dunque, di eliminare l’azione stessa. La problematica è relativa al fatto che, così facendo, non si comprende qual è il bisogno che la persona sta cercando di soddisfare attraverso questo comportamento. La mancanza educativa, in tal senso, si riscontra nel fatto che non si è facilitato e supportato il soggetto nella ricerca di una soluzione più adatta al soddisfacimento del bisogno mancante. Una modalità che Gordon trova per far fronte a tale dinamica relazionale è l’ascolto attivo (Gordon, 1991, p. 73-74), il quale racchiude al suo interno determinate abilità e qualità, identificate da Gordon, che il professionista che lo mette in pratica deve avere (congruenza11, trasparenza12, indipendenza13, accettazione positiva e incondizionata14, empatia15, processo di cambiamento16). L’ascolto attivo permette al giovane di “(...) prendere coscienza dei propri sentimenti (...)” (Gordon, 2014, p. 41) e gli agevola “(...) il processo autonomo di soluzione dei problemi.” (Gordon, 2014, p. 41). Questa tecnica permette all’educatore di andare oltre al giudizio e alle emozioni che la persona gli trasmette, e gli consente di comprenderla in molte delle sue sfaccettature. L’ascolto attivo è un complemento al non intervento e all’ascolto passivo (Gordon, 1991, p. 76-77), vi è, infatti, l’aggiunta di feed-back i quali, attraverso la riformulazione di quanto è stato detto, rimandano all’interlocutore ascolto, accettazione e comprensione e gli danno la possibilità di capire se quanto ha riferito all’educatore è stato colto a pieno.

“I passi dell’ascolto attivo possono essere sintetizzati come segue. L’educatore: I. Osserva e ascolta

II. Fa un’ipotesi

III. Comunica la sua impressione

                                                                                                               

11 “(...) è la capacità di riconoscere, chiamandolo per nome, qualunque sentimento, emozione, bisogno si stia provando. La congruenza è percepita dall’altro come rassicurante e la persona congruente come degna di fiducia e affidabile.” (Frigerio, 2012, p. 92).

12 “(...) comunicazione senza ambiguità della persona che l’educatore è.” (Frigerio, 2012, p. 92).

13 “(...) consapevolezza di essere abbastanza forte come persona da restare indipendente e distinto da coloro che si desidera aiutare.” (Frigerio, 2012, p. 93).

14 “(...) è il paradosso di constatare che le persone accettate così come sono, desiderano svilupparsi, crescere e cambiare per essere al meglio di ciò che sono in grado, per mettere in atto tutte le proprie potenzialità.” (Frigerio, 2012, p. 93).

15 “(...) la capacità di entrare nell’universo dei sentimenti e delle concezioni dell’altro, vedendole dal suo stesso punto di vista.” (Frigerio, 2012, p. 94).

16 “(...) la capacità di guardare all’altro come ad un essere in sviluppo con modalità uniche e originali, diverse e indipendenti da quelle dell’educatore.” (Frigerio, 2012, p. 94).

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IV. L’altro conferma (ed eventualmente approfondisce) o corregge.” (Frigerio, 2012, p. 98).

I passaggi andranno ripetuti sino al momento in cui entrambi dichiarano un’equivalente comprensione della situazione. Tale operazione permette all’interlocutore, oltre a sentirsi accettato e capito, di analizzare più approfonditamente il problema, andando lui stesso, come anticipato, a formulare probabili ipotesi di soluzione dello stesso. Per quanto concerne l’adolescenza, ad assumere un evidente valore nell’apprendimento è l’esperienza; un ragazzo immagazzinerà più informazioni da un evento che ha vissuto in prima persona, piuttosto che da un insegnamento che gli è stato dato. Nel caso specifico l’ascolto attivo si pone anche come generatore di esperienza, ove il giovane, in prima persona, parla e ragiona rispetto alla propria situazione trovando delle soluzioni plausibili. Una conversazione di questo stampo risulterà, dunque, più efficace e duratura rispetto a un’altra nella quale il ragazzo interagisce passivamente alle riflessioni e soluzioni macchinate dall’operatore sociale (Gordon, 1991, p. 7).

3.5.2 L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen

Roland Coenen è uno dei pionieri sui quali la Fondazione Amilcare costituisce le proprie basi. Egli formulò la teoria dell’educazione non-punitiva e non-espulsiva, sviluppando la sua idea di antropologia dell’adolescenza, partendo sia dall’esperienza ottenuta in dieci anni di lavoro nel ruolo di Direttore all’interno della Tamaris17, sia attraverso la rielaborazione della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. All’interno del pensiero dell’illustre biologo Darwin, viene toccato il tema dell’adattamento: in ogni fase della vita l’essere umano trova delle strategie, al fine di adattarsi al contesto storico e sociale del quale prende parte. Ogni individuo, specialmente nella fase adolescenziale, ha il bisogno innato di vedere riflessa un’immagine gratificante di sé. Nell’adolescenza s’innesca una spinta interna, determinata dal senso di competitività, che porta la persona alla necessità di sentirsi parte integrante della società. Avviene una divisione in gruppi sociali distinti da caratteristiche varie (tipologia di musica ascoltata, interessi sportivi, appartenenza culturale, moda, eccetera); una sorta di selezione sociale e sessuale. La società giovanile si divide in due parti: la prima composta da coloro che sono riusciti a mettere in atto strategie funzionali al fine di adattarsi, acquisire valore e vedersi appartenere a un gruppo di soggetti e la seconda che racchiude al suo interno ragazzi che, per svariati motivi, come, per esempio, evidenti carenze affettive e di socializzazione, mettono in atto strategie di adattamento disfunzionali e talvolta pericolose. In questa categoria rientrano i giovani che incorrono in rischi inconsapevoli e distruttivi (abuso di sostanze illegali, scippo, violenza, eccetera) (Coenen, 2001, p. 144). “En d’autres termes, parteciper à la compétition qui construit l’image de soi est une priorité absolute pour les adolescents, et ceux d’entre eux qui, pour des raisons de développement, des raisons familiales ou des raisons psychologiques, n’entrent pas dans les jeux olympiques de l’adolescence, qui ne parviennent pas à marquer des points gratifiants, sont toujours des adolescents en difficulté, souvent des adolescents dépressifs, qui ne parviennent pas à s’aimer, et qui développent des stratégies d’adaptation compensatoires déficitaires,

c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  c’est-à-  

17 Clinica per adolescenti difficili a Bruxelles che vede quali punti cardinali, nell’operato educativo, la punizione e la

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dire des symptômes somatiques, psychologiques ou sociaux18.” (Coenen, 2004, p. 50). Al fine di far fronte alla problematica esposta, l’educatore assume un ruolo primario, quello di sostenere e aiutare il ragazzo nel recupero delle basi narcisistiche necessarie per creare in lui un’immagine di sé gratificante. In tal senso, l’operatore sociale deve impegnarsi a non cedere alla squalifica o alla stigmatizzatizzazione del giovane, considerando il comportamento distruttivo quale riflesso della sua personalità che inevitabilimente verrà giudicata cattiva, bensì ha il compito di accogliere, accettare e comprendere i comportamenti specifici come un tentativo del ragazzo di entrare in un gruppo sociale e sentirsi parte della società, per poi, in un secondo tempo, mostrargli nuove e più funzionali strategie di adattamento. Evidenziando tali considerazioni, Coenen giunge alla conclusione che sostituire la punizione con il dialogo e la relazione sia funzionale nel lavoro insieme ai ragazzi considerati difficili; sviluppa, dunque, l’educazione non-punitiva.

Gli adolescenti si trovano in difficoltà nel confronto con la società odierna, sovente incorrono in quella che Coenen identifica come “le syndrome de fermeture”19 (Coenen, 2004, p. 70). Come verrà approfondito più avanti, tali individui faticano maggiormente rispetto ai loro coetanei a esprimere la domanda di richiesta d’aiuto all’adulto. Per questo motivo Coenen indentifica un limite concreto nel modello classico della pedagogia del contratto: “(...) toute aide qui repose sur un contrat négocié au départ est vouée à l’échec, pour la simple raison qu’elle crée un paradoxe impossible à dépasser: celui d’exiger au départ de la relation d’aide cela même qui doit en découler, c’est-à-dire des processus mentaux qui permettent à la demande d’émerger. La pédagogie du contrat porte donc l’inconvénient majeur d’inverser la conséquence et le préalable, ce qui, de toute évidence, est un non-sens logique.”20 (Coenen, 2004, p. 80). Una soluzione che l’autore individua concerne la non-dimissione. Come la teoria dichiara, molti giovani che vengono esclusi dai gruppi di selezione sociale e sessuale incorrono in comportamenti distruttivi quali meccanismi di difesa contro la selezione sociale. Questi giovani, ritenuti appunto difficili o in difficoltà, una volta allontanati dalla famiglia, faticano ad adempiere ai limiti e alle regole degli istituti per minori e per tale motivo, nel corso della loro storia, hanno avuto un percorso educativo frammentato. “La raison majoritairement invoquée est «le risque de mettre en danger l’équilibre même de l’équipe et du projet pédagogique». (...) On parle de l’enfant «boomerang» ou de l’adolescent «nomade» (...).”21 (Van Leuven, 2002, p. 16, cit. in Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 100). Sulla linea di questo pensiero Coenen ritiene che le continue frammentazioni nel percorso di vita di un giovane sono da considerare un maltrattamento istituzionale e, inoltre, dimettere un ragazzo a causa dei motivi per i quali è stato ammesso è incoerente rispetto agli obiettivi di un progetto pedagogico (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 101). La qualità e la durata del tempo della relazione educatore-ragazzo e la continuità, fungono, perciò, da

                                                                                                               

18 Traduzione: “In altri termini, partecipare alla concorrenza che costruisce l'immagine di sé è una priorità assoluta per gli

adolescenti e per quelli che, per motivi di sviluppo, per motivi familiari o psicologici, non entrano nei giochi olimpici dell'adolescenza, che non riescono a guadagnare punti gratificanti, sono sempre adolescenti in difficoltà, spesso adolescenti depressi, che non si amano e che sviluppano strategie d’adattamento compensatorie deficitarie, ovvero dei sintomi somatici, psicologici o sociali.”

19 Traduzione: “La sindrome della chiusura”.

20 Traduzione: “(...) qualsiasi aiuto basato su un contratto negoziato all’inizio è destinato a fallire, per la semplice ragione che

crea un paradosso impossibile da superare: quello di richiedere all’inizio della relazione di aiuto ciò che deve seguire, cioè dei processi mentali che consentono alla domanda di emergere. La pedagogia del contratto ha quindi il principale svantaggio di invertire le conseguenze e il prerequisito, che, ovviamente, non ha senso logico.”

21 Traduzione: “La ragione più spesso invocata è «il rischio di mettere in pericolo l’equilibrio stesso dell’équipe e del progetto

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