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5. Risultati e analisi

5.4 Stare in relazione

Per quanto concerne la gestione dei giovani collocati rispetto alla presa di rischio, all’interno del contesto indicato, ci si avvale, oltre che al dialogo in sostituzione alla punizione, della non-espulsione e della continuità relazionale. In tal senso ci si giova delle teorie formulate principalmente da Roland Coenen, il quale tratta l’argomento della frammentazione istituzionale. Esso afferma che, come analizzato nella revisione teorica, l’espulsione rappresenta un maltrattamento istituzionale e non permette al ragazzo d’instaurare delle basi di fiducia funzionali con la figura adulta. Filippo “ha dichiarato che per lui è importante sapere che gli educatori ci sono e lo ascoltano. Ha aggiunto che, rispetto ad altri istituti nel quale è stato, si sente più accettato e sicuro di poter parlare di vari argomenti. Si sente sicuro che qualsiasi cosa farà non verrà abbandonato, come spesso accaduto in passato.” (allegato 8: diario 1). Non è l’unico a vederla in questo modo, anche un’altra ragazza collocata afferma:

“Mi stan dietro, mi fan sentire al sicuro, so che ci sono. Non è che se una volta faccio una stronzata loro non ci sono più, loro ci sono comunque.” (intervista Francesca, p. 2). Da Francesca emerge il senso di sicurezza: sa che qualsiasi cosa farà ci sarà una figura adulta pronta ad aiutarla. Queste citazioni racchiudono al loro interno un significato molto profondo, soprattutto prendendo in considerazione che la maggior parte dei ragazzi collocati ha con la figura primaria di riferimento un attaccamento disorganizzato49. La continuità relazionale, dopo una vita di delusioni e abbandoni, ha permesso loro di consolidare delle relazioni funzionali e durature con gli educatori. In questo caso, la modalità presa in considerazione permette loro di appoggiarsi a degli adulti, di vedere che c’è qualcuno che non scompare da un giorno all’altro lasciandoli nella sua solitudine e nei loro errori. Creare una relazione di fiducia solida con la persona, con la quale lavora l’operatore sociale, è uno dei prerequisiti fondamentali nella relazione educativa. Come approfondito nella teoria, l’adolescente accetta la persona e la relazione che ha con la stessa e non tanto la regola50. In questo frangente, dunque, la non-dimissione permette al giovane di creare queste fondamenta sicure e, di conseguenza, di affidarsi all’educatore e rispettare i limiti che hanno costruito e discusso insieme. Le parole di Antonio rappresentano una testimonianza cardine a rafforzo della tesi indicata: “(...) mi sento molto al sicuro a sapere che qualsiasi cosa possa fare, qualsiasi cosa io faccia so che ci sono gli educatori dietro (...). Se penso che non c’è nessuno che mi aiuta devo ricordarmi sempre che ci sono gli educatori, che sono sempre lì nonostante io spesso non me lo ricordo. Se sono in foyer sono tranquillo, so che non potrei fare niente di grave e so che se voglio fare una cazzata, vedo gli educatori e non la faccio (...).” (intervista Antonio, p. 1). Tale dichiarazione, che ricorda in parte l’esperienza di Marc al Tamaris citata nella teoria51, è segno che la continuità relazionale permette ai ragazzi di vedere negli educatori un punto di riferimento. Fabrizio ci rende attenti del fatto che è proprio nel momento in cui i ragazzi si mettono a rischio in maniera estrema e toccano il fondo che la figura adulta deve dimostrargli di essere presente e non allontanarsi. Lui, infatti, ha iniziato a fidarsi degli educatori proprio nell’istante in cui ha notato che anche in uno dei momenti peggiori della sua vita gli stessi sono rimasti. “Il fatto di non essere stato abbandonato nel momento in cui era stato collocato alla Clinica, probabilmente, ha permesso al ragazzo di fare un’esperienza positiva con la figura adulta che sino a quel momento, per i vissuti che aveva immagazzinato negli anni, risultava essergli ostile e inaffidabile.” (allegato 10: diario 3).

Anche Simone, educatore del foyer, tratta il tema in coerenza con quanto esposto. “Il fatto di non mollare mai i ragazzi permette di poter costruire e trovare delle soluzioni molto più facilmente. La relazione ci permette di lavorare sulle sfumature rimanendo importanti anche quando la sfiducia nel mondo è molto marcata.” (intervista Simone, p. 3).

Un altro aspetto importante toccato nella teoria relativa alla non-espulsione è quello attinente all’incoerenza di dimettere un ragazzo a causa degli stessi motivi per il quale è stato ammesso. Giuseppe esplicita tale problematica andando ad approfondire i rischi che s’incorrono nell’abbandonare il giovane.

“Negli anni passati e in tanti foyer ancora adesso ad un certo punto, quando i ragazzi non riescono a star dentro ad alcune dinamiche relazionali o alle regole eccetera, si arriva ad avere un’espulsione, quindi il ragazzo che era collocato per cercare di stare meglio in un

                                                                                                               

49 Riferimento al capitolo 3.3.2, p. 8. 50 Riferimento al capitolo 3.4, p. 11. 51 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 16.

certo modo viene dimesso e di conseguenza non c’è più la possibilità di aiutarlo. Il problema di questa dimissione è che poi non ci sono altri servizi proposti per aiutare il ragazzo e questo rimane, non dico abbandonato a se stesso, ma quasi oppure rientra in famiglia con le dinamiche che c’erano già prima e la cosa normalmente va a diventare cronica e non ci sono dei passi avanti.” (intervista Giuseppe, p. 1).

Se uno degli scopi, quindi, del servizio sociale è quello di prestare sostegno e aiuto alle persone che ne necessitano, perché espellere proprio quelle che più di tutti gli altri sono in difficoltà? È un controsenso che vede la sua risoluzione nella non-dimissione. Stare, però, in relazione in maniera continua e di lunga durata con ragazzi in una situazione di difficoltà non è sempre facile. La frustrazione, il senso d’impotenza e l’incertezza sono fenomeni che hanno una ricorrenza frequente nel lavoro educativo.

“Si parla di ragazzi in momenti acuti di sofferenza e di passaggio all’atto e in quel momento era proprio una di quelle situazioni dove era anche una delle prime volte in cui vedevo delle tematiche del genere, quindi ero anche già spiazzata da tutta la sofferenza, dal dolore e, poi, dal cosa si doveva fare. Poi i ragazzi in quei momenti non è che fanno un passaggio all’atto e poi si fermano, sono ripetuti e vanno anche in escalation ed è lì che, per esempio, non ti sembra di poter proteggere con solo le mura del foyer un ragazzo, perché alla fine è anche lui che deve scegliere di stare qua e scegliere di essere accompagnato o meno. Ti senti un po’ impotente solo nell’accoglierlo nel prestargli le cure necessarie che lui accetta e queste cose qua.” (intervista Elisa, p. 3).

È proprio qui, nel quotidiano lavoro educativo, che ci si rende conto che ci sono dei tasselli più sbiaditi. L’incertezza nel non sapere come proseguirà il lavoro, l’incertezza nel non sapere come gestire una determinata situazione, l’incertezza nella conoscenza dell’altro. “Dopo un lungo cercare, ci siamo rassegnati, la tessera non c’è. Ma forse non è un male... è possibile tollerare quello spazio vuoto che ci impedisce di mettere la parola fine (...). È importante concederci almeno una tessera d’incertezza e permettere alla persona con cui stiamo lavorando di mantenere una sua area, grande o piccola che sia, di riservatezza.” (Maida, Molteni & Nuzzo, 2009, p. 207). L’operatore, dunque, deve essere in grado di rimanere, anche quando questo tassello viene a mancare, anche quando la frustrazione e l’incertezza si mostrano prepotentemente. Si ha il bisogno, talvolta, di costatare che vi sono stati dei risultati concreti che fanno ipotizzare all’educatore che la strada intrapresa è quella funzionale al ragazzo. Nel prossimo capitolo verranno approfonditi proprio tali risultati, i successi attesi e ottenuti dal modello dagli esordi sino ad ora.

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