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I risultati del modello non-punitivo non-espulsivo al foyer Calprino

5. Risultati e analisi

5.5 I risultati del modello non-punitivo non-espulsivo al foyer Calprino

Dalle interviste emerge che, inizialmente, vi era un po’ di sconforto a causa dell’incertezza rispetto al futuro e alla possibile funzionalità del modello. Il progetto del nuovo paradigma era agli arbori e talvolta l’équipe faticava a comprendere quale fosse la strada più funzionale da intraprendere in tal senso. “È all’inizio che non capisci dove stai andando, poi quando incominci a vedere e sentire la direzione è un’altra cosa.” (intervista Elisa, p. 4). Si è notato, con l’introduzione del modello non-punitivo e non-espulsivo che i risultati tangibili ci sono, ma arrivano dopo un lungo intervallo di tempo; “(...) delle volte, (...) ci diciamo che non abbiamo ancora avuto abbastanza risultati positivi o risultati concreti e tangibili rispetto ai percorsi che

abbiamo iniziato con questo modello e quindi effettivamente ti chiedi se si va verso dei concreti risultati o meno. In questo momento cominciamo a vedere qualcosa, ma delle volte ti chiedi come mai nonostante il modello tot. ragazzi sono ancora nell’agito, sono ancora nella presa di rischio dopo tanto tempo (...).” (intervista Elisa, p. 1). Un’ipotesi che si può formulare a tal proposito è riferita al fatto che, con l’introduzione della non-punizione, si è visto che i ragazzi sono meno restii a raccontare le proprie vicende, anche quelle più rischiose. Partendo da questo dato si può pensare che in passato il risultato era più un’apparenza. Nello specifico i giovani, come riferito dalle interviste, avevano gli stessi agiti, ma ne parlavano meno. Avevano, inoltre, tutti un’occupazione, che variava da un percorso formativo a un’attività lavorativa, ma tale impiego era dettato dal fatto che rappresentava una clausola per poter stare nel foyer: i giovani, che per più di un determinato lasso di tempo non si attivavano per far fronte allo stato di disoccupati, dovevano abbandonare la struttura. In questo caso ci si domanda se tale fattore fosse determinato da una presa a carico più funzionale oppure dal fatto che gli adolescenti, non restando all’interno della cornice normativa, venissero dimessi. Con l’introduzione dell’approccio in analisi si è cercato di seguire il concetto della piramide dei bisogni di Maslow52. Sulla linea di quest’ottica il progetto di vita della persona presa a carico incomincia con la soddisfazione dei bisogni primari, livello alla base del benessere, sino a crescere agli stadi superiori. Prendendo come linea operativa tale teoria, prima di poter sviluppare le risorse necessarie per ottenere e mantenere con buoni risultati un’attività professionale o scolastica è necessario avere una concezione di sé, intesa come gratificazione nella propria persona, soddisfacente. Giuseppe dichiara che “(...)spesso e volentieri il fatto che poi si arriva all’obiettivo noi non lo vediamo, perché magari sul momento quello che poi ci torna indietro è l’esatto opposto e dopo cinque o dieci anni scopriamo che le cose in realtà passavano e però in quel momento non si manifestavano ancora.” (intervista Giuseppe, p. 2).

Si è notato, dalle riflessioni elaborate da Michela, appartenente al gruppo di coloro che sono presenti dagli esordi del modello, che ha integrato il dialogo quale strategia alternativa a comportamenti più reattivi. “(...) sono cambiata un sacco, anche modo di pensare.” (intervista Michela, p. 2). La stessa afferma che quando si sente a rischio piuttosto che assumere sostanze o aggredire l’altro sa che “(...) si può risolvere la situazione anche in altri modi. Parlandone. (...) Ragiono molto di più prima di fare le cose. Per esempio, prima, se uno in strada m’insultava io partivo e non me ne fregava niente, lo insultavo e magari arrivavo anche alle mani; adesso piuttosto che arrivare alle mani sorrido e vado avanti per non mettermi in casini inutili.” (intervista Michela, p. 2). Attraverso questo racconto si comprende che i ragazzi assorbono i comportamenti degli educatori: Michela ha appreso l’importanza del dialogo. Durante i cinque mesi di pratica professionale all’interno del foyer, più volte si è notato che i giovani collocati facessero tesoro delle modalità utilizzate dagli educatori. È capitato più volte di sentire da parte loro frasi e ragionamenti che erano stati detti precedentemente agli stessi dalle figure educative. Gli operatori, valutando i risultati ottenuti dalle interviste, sono un esempio per i ragazzi. Questo fattore, ipoteticamente, potrebbe voler dire che la relazione educativa ha delle forti basi di fiducia e il ruolo educativo è di fondamentale importanza nel fornire all’interlocutore delle strategie di adattamento differenti da quelle disfunzionali apprese in passato.

                                                                                                               

Un altro elemento importante da tenere in considerazione è che i ragazzi, pur continuando, la maggior parte di loro, a mettersi a rischio negli agiti, vedano nel foyer un punto di riferimento. Quando è stato chiesto chi sono le prime persone che contattano quando si sentono in pericolo i ragazzi hanno risposto come segue.

“Principalmente il foyer perché so che c’è ventiquattro ore su ventiquattro.” (intervista Michela, p. 3).

“Dipende da che pericolo. Il foyer lo prendo molto come punto di riferimento.” (intervista Francesca, p. 2).

“Dipende sempre. Se c’è polizia sarà il foyer, se parte una rissa sarà un amico.” (intervista Giacomo, p. 2).

“Mio fratello perché è il primo a capirmi. (...) Poi ovviamente dopo mio fratello ci sono gli educatori.” (intervista Antonio, p. 2).

Tali risposte fanno pensare, concludendo, che, probabilmente, i ragazzi, chi più e chi meno, hanno una visione rispetto al foyer e agli educatori di protezione. Questa riflessione è di fondamentale importanza, in quanto, pur essendo ragazzi che per molti aspetti rientrano nei soggetti con sindrome di chiusura, hanno la forza di chiedere aiuto e appoggiarsi al foyer. “Adesso se dovessi sentire di essere in pericolo o stare per mettermi in pericolo, mi sentirei molto più sicura a parlarne.” (intervista Michela, p. 2).

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