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Le condotte delineate dall'art 7 del reg (UE) n 1169/2011 e le «pratiche commerciali ingannevoli».

ALLA DISCIPLINA DI CUI ALLA DIR 2005/29/CE

4. Le condotte delineate dall'art 7 del reg (UE) n 1169/2011 e le «pratiche commerciali ingannevoli».

Giova ora considerare se la formulazione dell'art. 7, reg. (UE) n. 1169/2011 possa indurci a ritenere che, contrariamente a quanto ipotizzato nel paragrafo precedente, il legislatore abbia inteso prevedere delle fattispecie specifiche di pratiche commerciali ingannevoli.

Già ad un primo frettoloso raffronto, in effetti, le condotte di cui all'art. 7 del regolamento sembrano più affini alle pratiche commerciali ingannevoli

rispetto alle altre prese in considerazione dalla dir. 2005/29 e ciò sotto un triplice profilo: anzitutto, il giudizio di slealtà condotto alla stregua degli artt. 6 e 7 della dir. 2005/29 è quello che attiene più strettamente alle pratiche consistenti nella fornitura di informazioni ai consumatori, essendo completamente incentrato sulla falsità o sulla natura ingannevole delle comunicazioni inerenti alcuni aspetti ritenuti particolarmente importanti per l'adozione di una scelta economica consapevole.

In secondo luogo, viene in considerazione un ulteriore aspetto centrale tanto nelle fattispecie di cui all'art. 6 della dir. 2005/29/CE, quanto nei precetti contemplati dall'art. 7, reg. (UE) n. 1169/2011: in entrambe le tipologie di condotta l'idoneità della pratica ad indurre in errore il consumatore sembrerebbe essere l'elemento cardine cui si àncora la valutazione di slealtà e, pertanto, questo elemento comune risulta un primo indice idoneo a considerare le condotte violative dell'art. 7 del regolamento alla stessa stregua delle pratiche commerciali ingannevoli289.

Un terzo indizio in questo senso si rinviene nel richiamo, contenuto nel 5°

considerando, reg. (UE) n. 1169/2011, ad una delle finalità perseguite dalla dir.

2005/29/CE, ossia lo scopo di prevenire azioni e omissioni ingannevoli che si auspicherebbe di perseguire anche con il recente regolamento e risulterebbe attuato, nel silenzio dell'art. 7, con le medesime modalità con cui vi provvede la dir. 2005/29/CE.

Con specifico riguardo alle singole ipotesi prese in esame dal reg. (UE) n. 1169/2011 preme segnalare come l'art. 7, par. 1, evochi la formulazione dell'art. 6, par. 1, dir. 2005/29/CE, ai sensi del quale è ingannevole la pratica che «contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva e anche se l'informazione è di fatto corretta» inganni o possa ingannare il consumatore in relazione ad alcuni elementi – specificamente indicati nel prosieguo della disposizione – che il 289 In questo senso si veda, altresì, RUSSO L., La responsabilità del produttore e del

legislatore ritiene particolarmente rilevanti per giungere ad una decisione d'acquisto consapevole.

Con l'art. 7, par. 1, reg. (UE) n. 1169/2011 parrebbe che il legislatore, alla lett. a), specifichi alcuni aspetti in merito ai quali il consumatore deve essere correttamente informato sottintendendo che l'induzione in errore in merito alle caratteristiche dell'alimento e, in particolare, agli ulteriori profili di seguito indicati si presume contraria alla diligenza professionale.

Le lettere b), c) e d) della medesima disposizione – con una formulazione, come si è già detto, maggiormente assimilabile a quella impiegata nella dir. 2005/29/CE per descrivere le pratiche «sleali in ogni caso» – elencano, invece, una serie di ipotesi in cui l'informazione è da considerare ingannevole perché non veritiera.

Poiché le informazioni false delineate dalle lettere b), c) e d) dell'art. 7, par. 1, reg. (UE) n. 1169/2011 costituiscono un'esemplificazione di condotte già astrattamente riconducibili a quelle di cui alla lett. a), e in particolare, a quelle inerenti le caratteristiche, ossia nello specifico le proprietà e la composizione dell'alimento si potrebbe effettivamente ipotizzare che il legislatore, derogando a quanto già previsto nell'art. 7, par. 1, lett. a), abbia voluto annoverare le condotte delineate alle lettere successive del par. 1 fra quelle «in ogni caso» ingannevoli.

Ne conseguirebbe che la condotta contrastante con l'art. 7, par. 1, lett. a), potrebbe essere considerata ingannevole e, quindi, ricadere nel divieto di cui all'art. 5, par. 1 della dir. 2005/29/CE, solo laddove si accertasse che induce o è idonea ad indurre il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. L'idoneità della pratica a falsare la decisione d'acquisto del consumatore è, infatti, una condizione imprescindibile per sanzionare una pratica come sleale e, detta condizione, risulta presunta solo nelle ipotesi di cui alla black list alla direttiva.

Pertanto, ove si ritenesse di ascrivere a differenti categorie di slealtà le condotte di cui all'art. 7, par. 1, reg. (UE) n. 1169/2011, si consentirebbe

all'operatore che ponga in essere una pratica contrastante con il precetto di cui alla lett. a) di dimostrare che il suo comportamento non era idoneo ad incidere sul comportamento economico del consumatore, prova, questa, che non sarebbe, invece, ammessa ove la condotta fosse riconducibile a quelle previste dalle lett. b), c), e d) della medesima disposizione.

D'altro canto, tuttavia, la formulazione dell'art. 7, par. 1, reg. (UE) n. 1169/2011 non esclude nemmeno che il legislatore abbia voluto predisporre un elenco esemplificativo di pratiche ingannevoli suscettibili di essere ricondotte all'ambito di operatività dell'art. 6, par. 1, dir. 2005/29/CE alla stregua del quale è da considerare ingannevole anche la pratica che «contenga informazioni false» e suscettibili di indurre in errore il consumatore. Poiché, in altri termini, la dir. 2005/29/CE qualifica come sleale la fornitura di informazioni false circa la natura del prodotto tanto nell'ambito dell'allegato I290, quanto nell'art. 6,

l'unico indice che indurrebbe a considerare ingannevole «in ogni caso» le condotte contrastanti con le lett. b), c) e d) dell'art. 7, par. 1, sarebbe da rinvenire nel grado di precisione con cui sono delineate le pratiche.

Come si è accennato, la condotta prevista all'art. 7, par. 2, reg. (UE) n. 1169/2011 risulta assai simile alle ipotesi prese in considerazione dall'art. 7, par. 2, della dir. 2005/29/CE, a mente del quale il professionista che occulti, presenti in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al par. 1, pone in essere un'omissione ingannevole291.

290 Si consideri che il legislatore ha ricompreso nell'elenco di cui all'allegato I, dir. 2005/29/CE alcune condotte consistenti nella fornitura di informazioni false nei casi in cui si può ritenere che la falsità sia così grave, oppure incida su aspetti così rilevanti da far presumere che influirà sul comportamento economico del consumatore

291 Una differenza nella formulazione delle norme che potrà essere foriera di problemi nella prassi applicativa attiene al fatto che l'art. 7, par. 2, reg. (UE) n. 1169/2011 non contempla fra gli elementi suscettibili di costituire una pratica commerciale ingannevole la fornitura di informazioni intempestive. Poiché in tale caso la descrizione delle ipotesi di omissioni ingannevoli risulta maggiormente precisa nell'art. 7, par. 2 della dir. 2005/29/CE si potrà ritenere che anche laddove siano fornite informazioni alimentari tardive si configuri una pratica commerciale sleale?

L'art. 7, par. 2 del regolamento, tuttavia, sembrerebbe derogare in parte alla citata disciplina nella misura in cui estende l'obbligo di chiarezza, precisione e intelligibilità a tutte le informazioni alimentari e non solo a quelle da considerare rilevanti alla stregua del par. 1 della dir. 2005/29/CE. Ne consegue che nella valutazione di slealtà di una pratica consistente nella fornitura di informazioni alimentari ai consumatori si dovrà ritenere sleale anche il comportamento di colui che occulti, presenti in modo oscuro, ambiguo o incomprensibile informazioni differenti da quelle rilevanti ex art. 7, par. 1 della dir. 2005/29/CE.

In ogni caso, affinché l'operatore inadempiente all'obbligo di rendere informazioni precise, chiare e comprensibili possa essere assoggettato alle sanzioni previste dal legislatore interno in attuazione della dir. 2005/29/CE, sarà indispensabile accertare che la condotta è idonea ad influenzare le scelte di carattere economico dei consumatori.

Oltre a quanto già ricordato nel precedente paragrafo, con riguardo all'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011, occorre segnalare come, in assenza di un'esplicita menzione del legislatore circa il grado di slealtà della pratica ivi considerata, sia assai difficile stabilire se mediante la previsione de qua si sia voluto estendere il giudizio di slealtà espresso dall'allegato I, n. 17 della dir. 2005/29/CE anche alle informazioni alimentari veritiere relative agli effetti curativi dell'alimento, oppure, sia stata confermata la slealtà «in ogni caso» delle sole informazioni false.

Se l'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011 fosse una disposizione innovativa e non trovasse deroga nel reg. (CE) n. 1924/2006 si potrebbe ritenere preferibile aderire alla prima opzione: se le predette condizioni risultassero soddisfatte, invero, si potrebbe sostenere che il legislatore del reg. (UE) n. 1169/2011 abbia introdotto una disposizione speciale volta ad aggravare il giudizio di slealtà già previsto dalla dir. 2005/29/CE in relazione alla fornitura di informazioni alimentari. Potremmo essere indotti a ritenere, in altri termini, che il legislatore abbia ritenuto più grave attribuire proprietà

curative ai prodotti alimentari perché, a prescindere dalla veridicità dell'informazione fornita, tale condotta sarebbe idonea a confondere il consumatore e ad indurlo ad assimilare gli alimenti ai farmaci.

Tale lettura interpretativa sembra, tuttavia, smentita non solo in quanto la previsione dell'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011 ricalca pedissequamente le previgenti disposizioni previste nell'ambito delle direttive orizzontali in materia di etichettatura, ma anche perché il diritto alimentare europeo consente già, in realtà, sia pure con alcune cautele, l'impiego di indicazioni sulla salute: se ne desume che pare difficile ritenere che il legislatore del reg. (UE) n. 1169/2011 abbia voluto innovare sul punto e “sanzionare” così gravemente ogni eventuale riferimento ai possibili effetti terapeutici o curativi del prodotto alimentare. Poiché però il reg. (UE) n. 1169/2011 nulla prevede in ordine alla categoria di slealtà suscettibile di venire in considerazione nel caso di specie occorrerà giocoforza “mutuare” quanto previsto in via generale dalla direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali. Ne consegue che l'operatore che metta a disposizione del consumatore informazioni false relative alle proprietà curative dell'alimento porrebbe in essere una pratica sleale in ogni caso ai sensi dell'allegato I, n. 17 alla dir. 2005/29/CE.

L'operatore del settore alimentare che, viceversa, contravvenendo al divieto previsto dall'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011, includa nel messaggio pubblicitario relativo al proprio prodotto indicazioni veritiere circa gli effetti terapeutici dello stesso dovrebbe essere “sanzionato” alla stregua dell'art. 6, par. 1 della dir. 2005/29/CE, in virtù del quale può essere considerata ingannevole anche la fornitura di informazioni corrette qualora esse siano in qualsiasi modo idonee ad indurre in errore il consumatore e, conseguentemente, a sviare il comportamento economico del soggetto debole.

Nonostante la ricostruzione proposta, nel silenzio della disciplina settoriale, appaia astrattamente compatibile tanto con la natura sussidiaria della dir. 2005/29/CE, quanto con l'esigenza di trattare in modo eguale i professionisti che operano in differenti settori, pare poco logico ritenere che la

condotta violativa del medesimo divieto dia luogo ad una differente valutazione del carattere sleale della pratica e, ove previsto, all'applicabilità di una diversa sanzione.

Di conseguenza, in considerazione del fatto che l'art. 3, comma 2, lett. a) del reg. (CE) n. 1924/2006, già prevede che «l'impiego delle indicazioni nutrizionali e sulla salute non può: a) essere falso, ambiguo o fuorviante» si potrebbe intendere che sin dall'introduzione di tale regolamento fosse considerato illecito non solo attribuire all'alimento proprietà curative che esso non possiede292, ma anche utilizzare le indicazioni (veritiere) sulla salute al fine

di sviare la decisione di natura commerciale del consumatore293. Alla luce del

fatto che la citata disposizione fa espressamente salva la dir. 2000/13/CE, che dalla fine del 2014 è destinata ad essere sostituita dal reg. (UE) n. 1169/2011, si potrebbe ritenere che l'intervento del nuovo regolamento in materia di informazioni alimentari imponga una rilettura dell'art. 3, comma 2, lett. a) del reg. (CE) n. 1924/2006 e induca a considerare sleali le condotte violative del combinato disposto tra la predetta disposizione e l'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011.

Infatti, poiché per la prima volta il legislatore annovera fra le pratiche sleali le condotte contrastanti con i medesimi precetti precedentemente contenuti negli artt. 2 della dir. 79/112/CEE e dir. 2000/13/CE e poiché tali precetti devono essere coordinati con il reg. (UE) n. 1924/2006, potremmo essere indotti a ritenere che oggi la disciplina risultante dal raccordo tra l'art. 3, comma 2, lett. a) del reg. (CE) n. 1924/2006 e l'art. 7, par. 3, reg. (UE) n. 1169/2011 delinei, a mente della rubrica di cui al predetto art. 7, una pratica commerciale sleale «in ogni caso» anche laddove l'informazione fornita sia 292 Il reg. (CE) n. 1924/2006 vieta, come si è visto, l'impiego di indicazioni nutrizionali e sulla

salute false.

293 Si ritiene, in particolare, che laddove il reg. (CE) n. 1924/2006 vieta di fornire informazioni ambigue e fuorvianti intenderebbe appunto impedire che informazioni (anche) veritiere circa gli effetti terapeutici del prodotto vengano impiegate al fine di confondere o indurre in errore il consumatore e sviare la sua capacità di scegliere consapevolmente quale alimento sia maggiormente rispondente ai propri bisogni.

veritiera, ma fuorviante. Tale ricostruzione, tuttavia, sebbene consenta di accordare una protezione maggiore al consumatore, non risulta in alcun modo supportata dal dato normativo del reg. (UE) n. 1169/2011, perciò sembrerebbe più opportuno far ricorso in via integrativa alla valutazione di slealtà compiuta sul punto dalla dir. 2005/29/CE, con l'effetto di considerare sleale in ogni caso la fornitura di informazioni false circa gli effetti terapeutici dell'alimento e ingannevole ai sensi dell'art. 6, par. 1, dir. 2005/29/CE l'impiego di indicazioni salutistiche veritiere (e non autorizzate ai sensi del reg. (CE) n. 1924/2006) purché idonee ad indurre in errore il soggetto debole294.

In ogni caso, laddove si ritenesse che la condotta contrastante con i precetti di cui all'art. 7, reg. (UE) n. 1169/2011 sia idonea a indurre in errore il consumatore, occorrerebbe pur sempre accertarne anche l'idoneità a falsare il comportamento economico del soggetto debole: quest'ultimo requisito è infatti una condizione imprescindibile per far sì che la pratica possa essere considerata sleale ai sensi della dir. 2005/29/CE e, quindi, vietata.

Conseguentemente qualora i precetti posti dall'art. 7, reg. (UE) n. 1169/2011 siano intesi a proteggere valori diversi rispetto alla libertà di autodeterminazione del consumatore in funzione dell'assunzione di scelte di carattere economico, la pratica sleale d'informazione (alimentare) sarebbe estranea all'ambito di applicazione della direttiva concernente le pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori: la predetta normativa, invero, è diretta alla tutela degli interessi economici dei consumatori e, per tale ragione, attrae nel divieto di cui all'art. 5, par. 1, le sole pratiche lesive di detti interessi, escludendo, invece, dal proprio ambito di operatività le condotte che ledono interessi di altri professionisti, oppure incidono esclusivamente solo su interessi non economici295.

294 Come rilevato in dottrina infatti, nel dubbio in merito alla disciplina applicabile alla condotta imprenditoriale sleale il criterio risolutore dei conflitti è da rinvenire nel principio di specialità e non del favor per il consumatore. In tal senso espressamente DE CRISTOFARO

G., L'attuazione della direttiva 2005/29/Ce nell'ordinamento italiano: profili generali, cit., p. 81.

5. La possibilità di ricondurre le pratiche di cui all'art. 7 del reg. (UE)

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