A) CONTROVERSIA TRA IL CONSOLE FLAMINIO E IL SENATO (Livio, Ab Urbe condita, 21,63,1-3)
“Consulum designatorum alter Flaminius, cui eae legiones quae Placentiae hibernabant sorte evenerant, edictum et litteras ad consulem misit ut is exercitus idibus Martiis Arimini adesset in castris. Hic in provincia consulatum inire consilium erat memori veterum certaminum cum patribus, quae tribunus plebis et quae postea consul prius de consulatu qui abrogabatur, dein de triumpho habuerat, invisus etiam patribus ob novam legem, quam Q. Claudius tribunus plebis adversus senatum atque uno patrum adiuvante C. Flaminio tulerat, ne quis senator cuive senator pater fuisset maritimam navem, quae plus quam trecentarum amphorarum esset, haberet. Id satis habitum ad fructus ex agris vectandos; quaestus omnis patribus indecorus visus. Res per summam contentionem acta invidiam apud nobilitatem suasori legis Flaminio, favorem apud plebem alterumque inde consulatum peperit. Ob haec ratus auspiciis ementiendis Latinarumque feriarum mora et consularibus aliis impedimentis retenturos se in urbe, simulato itinere privatus clam in provinciam abiit. Ea res ubi palam facta est, novam insuper iram infestis iam ante patribus movit: non cum senatu modo sed iam cum dis immortalibus C. Flaminium bellum gerere. Consulem ante inauspicato factum revocantibus ex ipsa acie dis atque hominibus non parvisse; nunc conscientia spretorum et Capitolium et sollemnem votorum nuncupationem fugisse, ne die initi magistratus Iovis optimi maximi templum adiret, ne senatum invisus ipse et sibi uni invisum videret consuleretque, ne Latinas indiceret Iovique Latiari sollemne sacrum in monte faceret, ne auspicato profectus in Capitolium ad vota nuncupanda, paludatus inde cum lictoribus in provinciam iret. Lixae modo sine insignibus, sine lictoribus profectum clam, furtim, haud aliter quam si exsilii causa solum vertisset. Magis pro maiestate videlicet imperii Arimini quam Romae magistratum initurum et in deversorio hospitali quam apud penates suos praetextam sumpturum. Revocandum universi retrahendumque censuerunt et cogendum
60 omnibus prius praesentem in deos hominesque fungi officiis quam ad exercitum et in provinciam iret. In eam legationem -- legatos enim mitti placuit -- Q. Terentius et M. Antistius profecti nihilo magis eum moverunt quam priore consulatu litterae moverant ab senatu missae. Paucos post dies magistratum iniit…”
“Flaminio, uno dei due consoli designati, a cui erano toccate in sorte le legioni che svernavano a Piacenza, mandò al console l’editto senatorio e una lettera, con l’invito di fargli trovare accampato quell’esercito a Rimini per le Idi di marzo. Aveva egli in animo di assumere la carica là nella sua provincia, memore qual’era dei suoi antichi contrasti con i senatori: quelli che aveva avuti come tribuno della plebe, poi come console, sì per il consolato che si tentava di togliergli e sì per il trionfo negatogli161, e inviso qual era ai senatori per la nuova legge, che il tribuno della plebe Quinto Claudio aveva proposta con l’appoggio di lui, unico senatore, Caio Flaminio, secondo la quale nessun senatore o figlio di senatore avesse in mare una nave di più di trecento anfore162. Un siffatto carico, si pensava, era sufficiente per il trasporto dei raccolti agricoli; ogni altro traffico era indecoroso per i senatori. E la cosa, discussa con sommo accanimento, aveva procurato al sostenitore della legge, Flaminio, malevolenza da parte del patriziato, ma favore da parte della plebe , e poi una seconda elezione a console. Ritenendo egli che perciò essi l’avrebbero voluto trattenere in città o col falsare gli auspici o col pretesto delle Ferie Latine163 o con altri impedimenti consolari, finse un diverso viaggio e come privato partì occultamente per la sua provincia. Questo, quando fu risaputo, mosse a nuova ira i senatori già prima a lui ostili: non più al solo Senato, dicevano, ma agli stessi dei immortali Caio Flaminio muoveva guerra. Allora, eletto console senza aver preso gli auspici, non aveva obbedito né agli dei né agli uomini che lo richiamavano dal campo; ora, consapevole di quel suo dispregio, aveva fuggito il Campidoglio e la solenne offerta dei voti per non entrar , nel giorno dell’assunzione della carica, nel tempio di Giove Ottimo Massimo, per non vedere e non consultare il Senato, da cui egli era odiato e che egli, solo, odiava, per non indire le Ferie Latine e non celebrare sul monte Albano il solenne rito a Giove Laziale, per non recarsi sul Campidoglio, presi gli auspici, a far l’offerta dei voti, e di là partire, paludato, per la provincia, coi littori. Come un servo, senza insegne, senza littori egli era partito, di nascosto, di soppiatto, non altrimenti che se, condannato all’esilio, avesse mutato paese. Certo a scopo di maggiore solennità voleva iniziare il consolato a Rimini
161 Dopo la vittoria da lui riportata nell’anno 223 a.C. sugli Insubri,presso l’Adda. 162 Circa otto tonnellate.
163
Feste federali dei latini,nelle quli si sacrificava a Giove Laziale sul monte Albano;durante tale periodo i consoli dovevano rimanere a Roma,poiché da essi erano indettte le feste e compiuti i sacrifici.
61 invece che a Roma e avrebbe indossato la pretesta in un albergo invece che presso i suoi Penati. E tutti erano d’avviso che si dovesse richiamarlo e astringerlo a compiere di sua presenza i suoi doveri verso gli dei e verso gli uomini prima che giungesse alla sua provincia, presso l’esercito. Per tale legazione (si deliberò infatti di mandare legati) furono fatti partire Quinto Terenzio e Marco Antistio; ma non valsero essi a smuoverlo più che l’avessero smosso durante il suo primo consolato le lettere del Senato. Pochi giorni dopo entrò in carica…”
La vicenda prende corpo nel 218 A.C., durante la seconda guerra punica. Il console designato per l’anno successivo, Flaminio, aveva rapporti tesi col senato, in quanto in passato, come console, era stato sostenitore della lex di Quinto Claudio164, secondo la quale nessun senatore avrebbe potuto possedere navi di capienza superiore alle trecento anfore. Temendo quindi che alla sua rielezione i senatori avrebbero impedito una sua partenza da Roma per Rimini con pretesti vari , partì occultamente per la provincia. L’assemblea rispose lamentando un duplice vulnus alla costituzione:
- il console aveva esautorato il Senato dall’esercizio di quelle funzioni di indirizzo che istituzionalmente avrebbe dovuto essere in grado di esercitare attraverso una condotta materiale tale da sottrarlo alla dialettica coi patres. - empietà contro gli dei, lesione questa, connotata di una forte caratterizzazione politica stante il legame stretto esistente tra culto e administratio rei publicae, da ricondurre alla mancata indizione delle ferie Latine e dalla mancata celebrazione del rito a Giove, con annessa presa degli auspici165.
Il senato inviò quindi al console una legazione per ricondurlo a Roma, senza però riuscire a smuoverlo.
Alla fine dell’anno consolare Flaminio entrò regolarmente in carica.
Questa vicenda costituisce prova del fatto che il Senato non fosse dotato di un potere cogente nei confronti dei consoli, aveva certamente fortissimi strumenti persuasivi e di indirizzo, ma non tali da coartare una condotta inviso consule.
164 Del 218 a.C.
165
Si lamentava altresì una lesione delle “forme”, in quanto il console era partito senza insegne o littori: ”Sine insignibus, sine lictoribus profectum clam, furtim, haud
62 Si trattava di un potere politico più che giuridico, anche se il peso di questi atti di indirizzo non era trascurabile, posto che Flaminio sentì pur sempre il bisogno di partire nottetempo, forse perchè, se si fosse trovato in Roma le decisioni del senato avrebbero avuto un peso ben maggiore. 166
B) PROPOSTA DI PARIFICAZIONE TRA IL DITTATORE ED I CONSOLI (Livio, Ab urbe condita, 22,25,1-3)
“De iis rebus persaepe et in senatu et in contione actum est. Cum laeta ciuitate dictator unus nihil nec famae nec litteris crederet, ut uera omnia essent, secunda se magis quam aduersa timere diceret, tum M. Metilius tribunus plebis id unum enimuero ferendum esse negat, non praesentem solum dictatorem obstitisse rei bene gerendae sed absentem etiam gestae obstare [et in ducendo bello] ac sedulo tempus terere quo diutius in magistratu sit solusque et Romae et in exercitu imperium habeat. Quippe consulum alterum in acie cecidisse, alterum specie classis Punicae persequendae procul ab Italia ablegatum; duos praetores Sicilia atque Sardinia occupatos, quarum neutra hoc tempore prouincia praetore egeat; M. Minucium magistrum equitum, ne hostem uideret, ne quid rei bellicae gereret, prope in custodia habitum. Itaque hercule non Samnium modo, quo iam tamquam trans Hiberum agro Poenis concessum sit, sed et Campanum Calenumque et Falernum agrum peruastatos esse sedente Casilini dictatore et legionibus populi Romani agrum suum tutante. Exercitum cupientem pugnare et magistrum equitum clausos prope intra uallum retentos; tamquam hostibus captiuis arma adempta. Tandem, ut abscesserit inde dictator, ut obsidione liberatos, extra uallum egressos fudisse ac fugasse hostes. Quas ob res, si antiquus animus plebei Romanae esset, audaciter se laturum fuisse de abrogando Q. Fabi imperio; nunc modicam rogationem promulgaturum de aequando magistri equitum et dictatoris iure. Nec tamen ne ita quidem prius mittendum ad exercitum Q. Fabium quam consulem in locum C. Flamini suffecisset. Dictator contionibus se abstinuit in actione minime populari. Ne in senatu quidem satis aequis auribus audiebatur tunc, cum hostem uerbis extolleret bienniique clades per temeritatem atque inscientiam ducum acceptas referret, magistro equitum, quod contra dictum suum pugnasset, rationem diceret reddendam esse. Si penes se summa imperii consiliique sit, propediem effecturum ut sciant homines bono imperatore haud magni fortunam momenti esse, mentem rationemque dominari, et in tempore et sine ignominia seruasse exercitum quam multa milia hostium occidisse maiorem gloriam esse. Huius generis orationibus frustra habitis et consule creato M. Atilio Regulo ne praesens de iure imperii
166
Del resto il console Flaminio non potè godere a lungo di questa sua vittoria, dal momento che di lì poco sarebbe morto nella battaglia del Trasimèno (217 a.C.).
63 dimicaret, pridie quam rogationis ferendae dies adesset, nocte ad exercitum abiit. Luce orta cum plebis concilium esset, magis tacita inuidia dictatoris fauorque magistri equitum animos uersabat quam satis audebant homines ad suadendum quod uolgo placebat prodire, et favore superante auctoritas tamen rogationi deerat. Unus inventus est suasor legis C. Terentius Varro, qui priore anno praetor fuerat…”
“ Questi eventi167 furono spesso oggetto di discussione sia in senato che nelle assemblee popolari. Nella gioia che coinvolgeva tutta la città, l'unico a non credere nè alla notizia nè alle lettere era il dittatore il quale affermava che, ammesso che fosse tutto vero, egli temeva la buona fortuna più della cattiva. Fu a quel punto che il tribuno della plebe Marco Metilio ebbe a dire che si trattava di un fatto davvero intollerabile. Non solo, queste erano le sue considerazioni, il dittatore quando era presso l'esercito si opponeva ad una corretta condotta bellica, ma anche dimostrava contrarietà quando ne era
lontano e l'impresa era già stata compiuta.
Fabio faceva passare di proposito il tempo per rimanere in carica più a lungo e detenere da solo l'autorità su Roma e sull'esercito. Infatti uno dei due consoli era caduto in battaglia, l'altro era stato mandato lontano dall'Italia col pretesto di incalzare la flotta cartaginese; i due pretori erano impegnati in Sicilia e in Sardegna e in quel momento, nè in un'isola nè nell'altra, c'era bisogno di un pretore. Marco Minucio, il maestro delle cavalleria, era stato tenuto quasi sotto sorveglianza, perchè non arrivasse in vista del nemico e non intraprendesse alcuna azione militare. E, per Ercole, ormai non si trattava solo dell'aver ceduto il passo davanti ai nemici nel Sannio, quasi questo territorio fosse al di là dell'Ebro, ma di accettare la devastazione dell'agro campano e del territorio di Cales e Falerno, mentre il dittatore se ne stava tranquillo a Casilino e mentre le legioni romane erano impiegate a proteggere il suo podere. L'esercito romano avido di combattere e il comandante della cavalleria erano stati quasi tenuti rinchiusi entro il vallo ed erano stati privati delle armi come prigionieri nemici. Poi, quando finalmente il dittatore se n'era andato, erano usciti dal vallo come chi viene liberato da un assedio e avevano sbaragliato e messo in fuga il nemico. Per tutti quei motivi, se la plebe romana possedeva l'antico furore politico, egli senza esitazioni avrebbe avanzato una proposta di legge per destituire dalla sua magistratura Quinto Fabio. Per il momento si limitava a promulgare una proposta moderata consistente nel conferire pari potere al maestro della cavalleria e al dittatore. Anche in presenza di una legge simile, tuttavia, non si doveva consentire a Quinto Fabio di tornare presso l'esercito, prima che egli avesse presieduto le elezioni del console che doveva sostituire Gaio Flaminio. Il dittatore evitò di intervenire nelle assemblee, perchè quando
64 parlava non era abile nel conciliarsi il favore dell'uditorio. Ma nemmeno in senato lo si ascoltava volentieri perchè egli esaltava i nemici, spiegava le sconfitte dei due anni precedenti con la temerarietà e l'incompetenza dei comandanti e affermava che il comandante della cavalleria doveva rendere conto di aver combattuto contro i suoi ordini. Se il comando supremo e la decisione sulle strategie rimanevano sue, aggiungeva Il dittatore, in poco tempo avrebbe fatto in modo che tutti sapessero come, sotto un buon condottiero, non abbia grande valore la fortuna, ma siano l'intelligenza e la razionalità a prevalere. E sarebbe stato chiaro che salvare un esercito senza ricorrere ad azioni scorrette è maggior titolo di merito che uccidere molte migliaia di nemici. Ma questi discorsi li andava ripetendo senza ottenere nulla e allora, una volta proclamata l'elezione a console di Marco Atilio
Regolo, non volendo essere presente e dover
quindi intervenire sulla legittimità del suo potere, il giorno prima che venisse presentata la proposta di legge, se ne andò di notte presso il suo esercito. Al mattino, durante l'assemblea della plebe, l'inconfessato risentimento nei riguardi del dittatore e la simpatia verso il comandante della cavalleria agitavano gli animi, ma nessuno osava farsi avanti a sostenere quello che pure era un orientamento diffuso; sebbene fosse chiaro che c'era una maggioranza a favore di quella proposta, mancava l'appoggio di uomini autorevoli. Si fece avanti un solo sostenitore della legge, Gaio Terenzio Varrone.”
L’esercito Romano, alla guida di Minucio, il magister equitum, aveva riportato una vittoria di lieve entità sulle forze Cartaginesi. Nonostante il numero dei caduti fosse pressochè equivalente nei due schieramenti168, questa vittoria fu magnificata dal condottiero così come dall’opinione popolare, che si mostrò sempre più invisa alla tecnica di temporeggiamento di Quinto Fabio, soprattutto dopo la tiepida accoglienza da lui fatta al resoconto di questa scaramuccia bellica.
Questo malcontento popolare fu portato sul piano istituzionale dal tribuno della plebe Metilio che accusò il dictator di temporeggiare al solo scopo di prolungare il proprio imperium. Questa pesante accusa venne sostenuta evidenziando come, dei due consoli, l’uno fosse morto, l’altro, assieme ai due pretori, distaccato lontano da Roma. Allo stesso tempo al magister equitum veniva impedito di dar battaglia.
La soluzione costituzionale proposta da Metilio fu quella di scongiurare un uso personalistico del potere da parte del dictator parificando il suo
65 imperium con quello dei consoli169. Si trattava di una proposta moderata, il
cui antefatto sarebbe stato la reintegrazione del seggio consolare rimasto vacante alla morte del console Flaminio.
Era un mutamento significativo che, sostituendo il centralismo delle decisioni da parte di un soggetto unico, il dictator, con un sistema quasi duumvirale, rischiava di compromettere quella celerità delle statuizioni vitale in tempo di guerra. 170
Quinto Fabio Massimo reagisce con un comportamento omissivo, squisitamente de facto, che ricorda molto quello di Flaminio171, ovverosia si sottrae all’assemblea deliberante, e la sua assenza rende la stessa non validamente formata.
Il dictator cede nella richiesta di nominare un nuovo console in sostituzione di quello deceduto172, ma adotta nuovamente la strategia di fuggire nottetempo per evitare di presenziare al dibattito sui suoi poteri.
Il giorno dopo si riunisce il popolo e Marco Terenzio Varrone173 caldeggia di fronte allo stesso la proposta tribunizia: ancora una volta si ricorre dunque al popolo, fonte prima di tutti i poteri, per superare l’impasse costituzionale data dall’assenza del dictator, non superabile istituzionalmente. Si arriva così alla parificazione dei poteri tra dittatore e consoli.174
C) NOMINA DI UN DITTATORE EXTRA ROMANUM AGRUM (Livio, Ab urbe condita 27,5,3)
“Haec recitata a consule ita mouere senatum ut non exspectanda comitia consuli censeret, sed dictatore comitiorum habendorum causa dicto
169
Nel discorso di Metilio riportato da Livio il tribuno prende in considerazione anche l’ipotesi di privare il dictator di ogni potere e non sostiene questa ipotesi solo perché ritiene insicuro l’appoggio della plebe a questa proposta, stante il fatto che il
dictator godeva della legittimazione popolare al momento dell’elezione, anzi fu il
primo dittatore ad essere eletto proprio dai comitia.
170 La subordinazione dei consoli al dictator nel nostro caso specifico era stata
evidenziata da Livio nel passo a questo precedente dove si legge dell’obbedienza del console superstite all’intimazione di Quinto Fabio Massimo di presentarglisi disarmato e senza littori.
171 Cfr. passo precedente. 172
Marco Attilio Regolo in sostituzione del defunto Flaminio.
173 Personaggio non molto gradito a Livio che lo dipinge come intrigante e
interessato al seggio consolare.
174
Salvato di lì a poco, nel 216 a.C., nel corso di uno scontro campale con Annibale da Fabio Massimo, fu lo stesso Minucio a rinunciare alla carica conferitagli, riconoscendo la superiorità strategica del collega.
66 extemplo in prouinciam redeundum. illa disceptatio tenebat quod consul in Sicilia se M. Ualerium Messallam qui tum classi praeesset dictatorem dicturum esse aiebat, patres extra Romanum agrum—eum autem Italia terminari—negabant dictatorem dici posse. M. Lucretius tribunus plebis cum de ea re consuleret, ita decreuit senatus ut consul priusquam ab urbe discederet populum rogaret quem dictatorem dici placeret, eumque quem populus iussisset diceret dictatorem; si consul noluisset, praetor populum rogaret; si ne is quidem uellet, tum tribuni ad plebem ferrent. cum consul se populum rogaturum negasset quod suae potestatis esset, praetoremque uetuisset rogare, tribuni plebem rogarunt, plebesque sciuit ut Q. Fuluius, qui tum ad Capuam erat, dictator diceretur. sed quo die id plebis concilium futurum erat, consul clam nocte in Siciliam abiit; destitutique patres litteras ad M. Claudium mittendas censuerunt ut desertae ab collega rei publicae subueniret diceretque quem populus iussisset dictatorem. ita a M. Claudio consule Q. Fulvius dictator dictus, et ex eodem plebis scito ab Q. Fuluio dictatore P. Licinius Crassus pontifex maximus magister equitum dictus.” “Queste notizie175 comunicate dal console176, commossero a tal segno il Senato, che deliberò di non far attendere il console fino ai comizi, ma di farlo tornar subito alla provincia dopo che avesse nominato un dittatore per presiederli. Questa discussione però intervenne: il console diceva che in Sicilia egli avrebbe nominato dittatore M.Valerio Messalla, allora comandante della flotta; i senatori invece negavano che si potesse nominare un dittatore fuori dal territorio romano (il quale infatti era limitato all’Italia177) . Avendo il tribuno della plebe Marco Lucrezio consultato su ciò il Senato, questo deliberò: che il console, prima di partire dall’Urbe, chiedesse al popolo chi voleva fosse eletto dittatore e nominasse dittatore quello che il popolo avrebbe designato; se il console avesse rifiutato di far ciò, che il pretore interpellasse il popolo; se a ciò si fosse rifiutato anche il pretore, allora i tribuni avrebbero deferito la cosa alla plebe. Avendo il console rifiutato di interrogare il popolo su una questione che era di sua competenza