Parte 3. Caso studio: Il conflitto israelo-palestinese
10. Il conflitto israelo-palestinese: un conflitto intrattabile come sistema dinamico
dinamico
Le caratteristiche del conflitto esaminate nella mappatura lo pongono a un livello molto alto d’intrattabilità. Sebbene, non ci sia accordo nello stabilirne l’inizio, è innegabile che si protragga da
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molto tempo, attraversando più generazioni. L’ultima, in particolare, è nata e cresciuta non conoscendo altro che uno stato di conflittualità perenne e pervasivo nella relazione con l’altro. Riguardo al secondo aspetto dei conflitti intrattabili (la resistenza alla risoluzione), numerosi sono stati i tentativi di riconciliazione fra israeliani e palestinesi, per lo più guidati da terze parti. Tutti si sono conclusi senza giungere, per diversi motivi, a un accordo definitivo in merito alla risoluzione finale del conflitto. La sua gestione è risultata quindi fino a ora inefficace. Infine, riguardo al terzo elemento dei conflitti intrattabili, le parti hanno spesso ricorso, e ricorrono ancora, all’uso della violenza contro il nemico, nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi. I risultati di questo studio portano a considerare questo conflitto, visti i comportamenti posti in essere, focalizzato all’ultimo stadio di escalation secondo il modello sviluppato da Glasl (1982). Gruppi terroristici palestinesi hanno infatti fatto ricorso agli attentati suicidi, nella logica dei quali la distruzione dell’altro può essere raggiunta anche attraverso la distruzione di se stessi. Anche la percezione d’inevitabilità del conflitto, l’ultimo elemento che definisce la sua intrattabilità secondo Burgess e Burgess (2003), è molto radicata tra i due popoli, che osservano con sfiducia le trattative.
La complessità di questo conflitto ha ripercussioni anche nei tentativi volti a una sua risoluzione. Nel proseguimento del paragrafo riprendiamo alcune cause e caratteristiche dei conflitti intrattabili, riportate in modo generale nella prima parte della tesi, attribuibili al conflitto israelo-palestinese nello specifico.
Identifichiamo nella lotta per ottenere territorio una delle cause principali del conflitto e questa rappresenta una questione distribuzionale di alto interesse. Gli israeliani lottano per costituire Eretz Israel (il Grande Israele), il luogo d’origine del popolo ebraico; i palestinesi lottano per uno Stato Palestinese. Tra i primi c’è chi persegue l’espansione dello Stato ebraico in tutto il territorio biblico, nella Galilea, nella Samaria e nella Giudea. Tra i secondi c’è chi persegue la liberazione di tutta la Palestina dai coloni israeliani. Queste due posizioni si pongono a ostacolo l’una per l’altra. Secondo i più moderati la costituzione di uno Stato israeliano a fianco di uno palestinese può avvenire all’interno dei confini stabiliti dalla Linea Verde, includendo tuttavia alcuni insediamenti ebraici in Cisgiordania. Lo scambio di territorio è quindi un tema di scontro delicato, sia praticamente sia simbolicamente. Gerusalemme rimane, infine, un punto controverso fondamentale poiché Israele non ha intenzione di cedere la parte della città appartenente alla Cisgiordania. Riguardo alle questioni distribuzionali di alto interesse, anche l’accaparramento delle risorse, e in particolare quella dell’acqua, è un secondo punto sollevato durante le trattative e su cui le parti non riescono a trovare un accordo. Queste issues distribuzionali intrappolano il conflitto in una logica win-lose, in cui ci sarà per forza un solo vincitore.
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Tutti questi elementi rendono evidente l’asimmetria strutturale che pone le parti su livelli di potere differenti, poiché sia il territorio sia le fonti d’acqua principali sono state conquistate da Israele con la forza, peraltro in violazione del diritto internazionale. Perciò questo conflitto ha al suo interno anche una componente di lotta per il potere e l’acquisto di uno status per i popoli coinvolti. Lo stato di disuguaglianza si ripercuote in tutti gli aspetti dell’interazione fra i due popoli. Come accennato nella prima parte, nel capitolo sulle cause d’intrattabilità, è facile che un conflitto permanga fino a quando le strutture sociali e politiche non permettano un’uguaglianza di status e, in particolare, non permettano la tutela dei diritti fondamentali di entrambe le parti.
Un altro fattore importante riguarda l’identità dei due popoli. Spesso le parti definiscono il conflitto come una lotta per il diritto di esistere e come un mezzo per ottenere riconoscimento dalla controparte. Questo elemento si osserva per esempio nel modo in cui le parti definiscono il territorio e costruiscono la narrazione del conflitto, arricchendola di simbolismo e ideologia: gli israeliani fanno riferimento alle radici ebraiche della terra, il luogo promesso da Dio al suo popolo, in cui è sorta la sua identità religiosa e nazionale; i palestinesi invece fondano la propria narrazione nelle centinaia di anni di dominazione araba del territorio. Inoltre, fin dall’origine del conflitto le parti si sono poste l’una in contrapposizione all’altra, autodefinendosi come due gruppi polarizzati con elementi discriminanti di in-group e out-group. Inoltre, le relazioni fra individui dei due gruppi sono molto ridotte a causa delle barriere, non solo sociali, ma anche fisiche, costituite dal Muro di separazione.
Anche il contesto geopolitico contribuisce a rendere il conflitto ingestibile. Stati esteri che si pongono come terze parti e mediatori non sono imparziali nelle loro posizioni, ma intervengono nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi strategici nella regione. Inoltre le politiche domestiche sono spesso disfunzionali rispetto a una soluzione pacifica. In particolare al-Fatah e l’OLP non hanno avuto la capacità di far valere i propri interessi sul tavolo negoziale. Ancora oggi il presidente Abbas deve gestire la crisi interna dovuta alla perdita di legittimità, al conflitto ancora aperto con Hamas e al fallimento nei tentativi di risoluzione.
Infine l’esperienza di traumi protratti, dovuti agli scontri violenti, ha prodotto sentimenti profondi di rabbia, odio e frustrazione che si radicano nelle modalità in cui è gestita la relazione con la controparte. A questi si accompagna una perdita di fiducia che non permette di creare un’interazione costruttiva ma, al contrario, tende a far rimanere le parti intrappolate in una spirale di violenza apparentemente senza via d’uscita.
Per i motivi qui sintetizzati il conflitto israelo-palestinese si pone a un livello d’intrattabilità molto elevato. In particolare, l’alto livello d’intensità, di diffusione, di complessità rendono difficile una
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gestione del conflitto stesso. Riguardo al primo aspetto, il grado di coinvolgimento delle parti si osserva nel continuo riferimento alla crisi che i leader e le persone attuano nelle proprie narrazioni in ambito di politica interna. Riguardo al secondo aspetto, si osserva che il conflitto permea anche la vita sociale e privata di entrambe le parti, che definiscono se stesse in contrapposizione l’una con l’altra. Perciò esso influenza ogni relazione sociale, interpersonale e intergruppo. Infine l’elevata complessità è determinata dai numerosi attori e dalle numerose issues in gioco, oltre che dal livello di coinvolgimento di tutti strati sociali.
Dall’analisi del conflitto fin qui condotta emerge quindi la necessità di indagare la sua complessità e le sue caratteristiche di dinamicità. La complessità, in particolare, trae la sua origine nelle numerose interconnessioni degli elementi che compongono l’interno sistema, che permettono il formarsi di cicli di retroazione, per cui un evento ha degli effetti anche importanti sugli altri elementi. In questo senso esistono dei processi circolari che collegano le variabili del conflitto, perciò essi s’influenzano e, in particolare, si stimolano o s’inibiscono. Adottiamo quindi gli strumenti della Teoria Sistemica, introdotta nel secondo capitolo, per creare un framework di analisi capace di indagare il conflitto in profondità e al contempo estrapolarne le dinamiche che guidano il sistema.
Possiamo quindi costruire un diagramma dei cicli causali (o feedback loops) del conflitto israelo- palestinese, analizzando i diversi elementi che lo compongono, emersi in precedenza, e le loro connessioni. Alcuni di essi rappresentano i comportamenti messi in atto dalle parti per raggiungere i propri obiettivi (incluso quelli delle terze parti); altri sono gli atteggiamenti che esse hanno in relazione agli eventi e agli altri attori; infine, alcuni elementi rappresentano i veri e propri obiettivi che, come accade nei conflitti, vicendevolmente sono individuati dalle parti come ostacoli reciproci al raggiungimento dei propri interessi (in questo senso rappresentano la contraddizione del conflitto)150.
Gli elementi si possono distinguere anche fra variabili di stato e variabili di attività (distinzione introdotta nel secondo capitolo). I primi caratterizzano lo stato in sé del sistema, per cui non sono influenzati da ciò che accade (corrispondono spesso ai sentimenti delle parti). Le variabili di attività rappresentano invece le azioni svolte (corrispondono quindi ai comportamenti). Mentre queste ultime possono essere implementate o interrotte con una decisione, quindi anche da un momento all’altro, le prime non rispondono a nessuno stimolo esterno. Perciò è più difficile che le variabili di stato mutino
150 La distinzione tra comportamenti, atteggiamenti e contraddizione fa riferimento a quella adottata da Galtung nel paradigma da lui
ideato del Triangolo ABC (Attitudes, Behaviors, Contradiction). L’autore rappresenta il conflitto a partire dall’interazione di questi tre elementi. I comportamenti rappresentano le azioni compiute; gli atteggiamenti corrispondono invece ai sentimenti che il più delle volte stanno all’origine dei comportamenti; la contraddizione rappresenta il fatto oggettivo per cui le parti sono in conflitto. Questi tre elementi sono connessi l’uno all’altro (infatti sono rappresenti ai vertici di un triangolo) e determinano insieme l’esistenza di un conflitto e la sua descrizione nel preciso momento analizzato.
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nel breve periodo; per farlo hanno bisogno di sollecitazioni maggiori indirizzate verso il cambiamento dello stato. Nel diagramma dei cicli causali qui presentato, nella pagina seguente, la minaccia al diritto di esistere, sia palestinese sia israeliano, corrisponde a una variabile di stato poiché è un sentimento che le parti provano l’una nei confronti dell’altra. Da essa dipendono alcune azioni conseguenti, come la costruzione del muro (da parte d’Israele) e gli attacchi dei palestinesi rivoltosi, che rappresentano invece variabili di attività.
Utilizzando invece la terminologia del paradigma di Galtung, distinguiamo tre elementi che potremmo porre ai tre vertici del Triangolo: l’obiettivo comune di Gerusalemme capitale rappresenta una contraddizione nell’interazione fra i due popoli, poiché entrambi reclamano la città nei termini già descritti in precedenza; la costruzione del muro intorno alla città, secondo le indicazioni del governo israeliano, designa invece un comportamento unilaterale, messo in atto da una parte; infine il sentimento israeliano di minaccia al proprio diritto di esistere indica un’attitudine, poiché informa riguardo al modo in cui il Paese vive il conflitto.
Osserviamo adesso alcune caratteristiche emerse dall’analisi dei conflitti intrattabili nella Teoria dei Sistemi e riscontrabili nel conflitto israelo-palestinese.
Innanzitutto un primo fattore, già accennato e che emerge dal diagramma, è la complessità del conflitto. Essa è evidente se si osservano i numerosi elementi interconnessi, che includono anche degli eventi storici che permangono nella narrazione attuale del conflitto di oggi. Questi ultimi sono per esempio la spartizione dei territori dell’Impero Ottomano fra le potenze vincitrici occidentali, alla fine della Grande Guerra (vissuta come un’imposizione estera sui confini regionali); interessi geopolitici occidentali nella regione; una lunga storia di persecuzione degli ebrei culminata nell’Olocausto durante la Seconda Guerra Mondiale; una lunga storia di frustrazione dovuta alla dominazione israeliana sugli arabi palestinesi. A questi si aggiungono altri elementi: identità contrastanti, non solo fra israeliani e palestinesi, ma anche all’interno dei due gruppi (per esempio nel primo fra i partiti israeliani e nel secondo fra Hamas e al-Fatah); una competizione sulla scarsità delle risorse (territorio e acqua) che implica una logica di win-lose; un’intransigenza nelle posizioni da parte di alcuni movimenti, come Hamas e il movimento dei coloni; il fallimento dei tentativi di risoluzione e il solo vissuto conflittuale nella memoria storica delle ultime generazioni; narrazioni contrastanti su eventi storici comuni; il ricorso alla violenza da entrambe le parti. Oltre a questi elementi interni, altri a livello internazionale contribuiscono a complicare il quadro del conflitto israelo-palestinese: intervento di Stati esteri non imparziali (come Stati Uniti, Iran, Egitto); l’intensificarsi del fenomeno del terrorismo in tutto il mondo; l’aumento delle tensioni fra l’Occidente e il mondo arabo in tutto il Medio Oriente. In sintesi il
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conflitto oggi è alimentato da una serie di elementi interconnessi che agiscono in tre ambiti principali: fra israeliani e palestinesi, fra Israele e gli Stati arabi e fra gli Stati dell’arena internazionale portatori d’interessi nella regione (Coleman, 2011a).
Una seconda proprietà di ogni sistema in generale e che emerge dal diagramma nello specifico, è la dinamicità del conflitto, per cui le varie connessioni fra gli elementi gli permettono di mutare nel tempo e di adattarsi a nuove condizioni. Il conflitto israelo-palestinese di oggi è differente rispetto a quello del passato: per esempio nuovi attori hanno acquistato un ruolo importante, come i gruppi salafisti e i palestinesi insorgenti. Su questi ultimi è necessario porre l’attenzione poiché, nonostante non abbiano un’organizzazione strutturata, né un leader di riferimento, perché rappresentano una sollevazione popolare, essi sono identificativi di un sentimento di frustrazione e d’insoddisfazione individuale. È un sentimento radicato nella vita dei cittadini, difficile da mutare perché riguardante uno stato del sistema, emerso dopo anni d’interazione conflittuale con l’altro. Anche le narrazioni delle parti cambiano nel tempo, poiché la loro sensibilità e attenzione sono poste su elementi diversi. Il tema della sicurezza per esempio ha acquistato sempre maggiore importanza nella narrazione israeliana poiché trova fondamento nei ripetuti attacchi armati della controparte, in particolare di Hamas, del Jihad islamico e dei gruppi salafisti. Perciò la realtà del conflitto è sempre in movimento, una proprietà che rappresenta sia una sfida (comprendere sempre l’evoluzione del sistema) sia un’opportunità (sfruttare il cambiamento per promuovere processi di pace che prima non sarebbero stati possibili).
Un terzo fattore che si osserva nel diagramma è l’esistenza di molteplici connessioni circolari, chiamati anche feedback. Non esiste un ciclo lineare di causa-effetto fra due elementi, per cui un qualsiasi evento A determina il verificarsi di un evento B; piuttosto i diversi elementi sono interconnessi attraverso processi circolari, per cui l’evento B può essere stimolato dall’evento A e allo stesso tempo essere inibito dal fattore C, e così via attraverso una molteplicità d’interconnessioni. I conflitti intrattabili sono caratterizzati dall’aumento di feedback positivi e la diminuzione di quelli negativi, determinando dei cicli di retroazione che si autoalimentano. Nel diagramma esaminato un esempio di un ciclo che si autoalimenta è quello che facciamo iniziare dalla minaccia al diritto di esistere palestinese, che è un’attitudine: questa variabile determina l’aumento del sentimento di frustrazione e, come conseguenza, il verificarsi di attacchi dei palestinesi rivoltosi, un comportamento che alimenta il sentimento di minaccia al diritto di esistere israeliano. Quest’ultimo rappresenta la base delle rappresaglie israeliane che alimentano la minaccia al diritto di esistere palestinese. Questo descritto è un ciclo che presenta solo connessioni positive che, se non venisse inibito da feedback negativi, esso si alimenterebbe all’infinito. Osserviamo inoltre che gli elementi qui esaminati fanno riferimento a livelli
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diversi della realtà sociale e psicologica. La frustrazione palestinese per esempio è un sentimento individuale che determina atti di violenza a un livello interpersonale. La minaccia al diritto di esistere invece è un sentimento presente sia a livello sociale sia a livello politico. Si nota infatti che esiste una connessione e un allineamento profondo e consolidato fra i diversi livelli interni ai due popoli: per esempio fra le credenze e i sentimenti individuali, l’identità sociale, le narrazioni comunitarie e le istituzioni sociali, come l’educazione, l’informazione e la cultura. L’aumento delle connessioni fra elementi che agiscono su livelli diversi è un fattore caratterizzante dei conflitti intrattabili, poiché la controversia permea i pensieri, i sentimenti e le azioni di tutti gli ambiti, individuale, interpersonale, sociale e nazionale.
In conseguenza a ciò che è stato appena affermato, un quarto fattore dei conflitti intrattabili e riscontrabile anche in quello israelo-palestinese, è il collasso della complessità, usando una terminologia introdotta nella seconda parte della tesi. I numerosi possibili aspetti della relazione fra israeliani e palestinesi, siano a livello interpersonale, sociale o politico, sono annullati dalle sole problematiche intrattabili. Esse definiscono e determinano ogni dimensione dell’interazione. La questione di Gerusalemme per esempio è divenuta discriminante per qualsiasi trattativa151. Per questo motivo l’articolo di Coleman et al. (2011) afferma che il collasso della complessità è il fattore che determina l’intrattabilità del conflitto, piuttosto che le problematiche in sé. Questo fattore ha delle conseguenze anche nella polarizzazione dei due gruppi, poiché gli individui sono portati a stigmatizzare l’altro, in conformità con la problematica intrattabile, e a inserirlo nel proprio gruppo o in quello avversario. La definizione e la polarizzazione dell’in-group e dell’out-group sono utili alle parti anche per dare coerenza al sistema conflittuale. La logica noi contro loro dà significato a ogni interazione conflittuale fra israeliani e palestinesi e gli conferisce quella coerenza di cui l’individuo ha bisogno. Come afferma Coleman (2011, p. 210) la durata del conflitto israelo-palestinese ha incoraggiato lo sviluppo di “identità auto-definite e mutualmente esclusive”. In conseguenza all’aumento delle connessioni fra livelli diversi e al collasso della complessità, queste identità sviluppano un comune senso della verità storica e attuale del conflitto.
Il diagramma dei cicli causali mostra la logica del sistema e l’origine, o la pluralità di origini, degli eventi. Tuttavia esso è utile se permette di individuare i cicli che alimentano il conflitto e gli elementi critici che lo fanno perdurare.
In sintesi, nonostante la complessità data dai numerosi elementi interagenti, il conflitto israelo-
151 A questo proposito si osserva quanta risonanza abbia ottenuto il dibattito intorno allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel
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palestinese è spesso ridotto alla semplice dicotomia noi contro loro. Alcuni elementi contribuiscono a far permanere il conflitto in uno stato d’intrattabilità perenne, definendo l’ambiente di un attrattore negativo, concetto introdotto nella seconda parte. Coleman (2011, p. 208) identifica alcuni di questi elementi: l’intransigente dicotomia e contrapposizione delle parti nelle dimensioni psicologica, politica, comunitaria, religiosa e internazionale; il perenne stato di negatività; gli effetti sproporzionati che piccoli gruppi di estremisti hanno sul conflitto; la volontà di alcuni gruppi di perpetuare il conflitto; l’intervento di terze parti senza considerare il loro reale impatto; la minaccia alla sicurezza che crea il paradosso della continuazione delle ostilità e, quindi, maggiore insicurezza (Coleman, 2011a). Attraverso questi elementi il sistema conflittuale si autoalimenta e mantiene la sua natura: l’ambiente dell’attrattore negativo è stato creato, con un bacino di attrazione profondo e ampio (perché numerosi e resistenti al cambiamento sono gli stati della relazione fra israeliani e palestinesi che alimentano il conflitto). Il ricorso alla violenza sembra la scelta più logica alle questioni principali ritenute intrattabili e ai disagi profondi sentiti nei confronti della controparte. Inoltre, la sua interruzione svuoterebbe di senso gli atti violenti compiuti fino a oggi e le persone rimaste uccise risulterebbero morte invano. In questo senso la violenza si autoalimenta: la sua continuazione offre la giustificazione agli atti violenti precedenti che altrimenti non troverebbero un senso, soprattutto per i palestinesi, i cui obiettivi non sono stati raggiunti. Un cambiamento di direzione rispetto al comportamento fino a ora messo in atto sembra essere troppo rischioso a entrambe le parti e non congruente con gli schemi di pensiero ormai consolidati. Ricordiamo infatti che un attrattore è definito proprio dall’insieme di stati verso cui il sistema tende a convergere; questi stati sono rappresentativi di modi di pensare, di sentire e di reagire, che riflettono l’esperienza della relazione con l’altro, in questo caso conflittuale. Perciò israeliani e palestinesi hanno interiorizzato un giudizio globale e integrato della controparte. Gli eventi che si contrappongono a questo schema di pensiero conflittuale sono offuscati e interpretati alla luce del giudizio ormai conferito all’altro. Infatti l’attenzione pubblica è posta sugli atti di competitività e non su quelli cooperativi. La relazione, conformandosi a un unico giudizio collettivo, è ridotta al sistema di significato conflittuale, semplificando la reale complessità di un’interazione sociale. In questo modo l’attrattore serve anche a dare coerenza al conflitto. Tutti i cicli di retroazione positivi, che alimentano la conflittualità, sono rafforzati; mentre ogni evento che si oppone alla violenza è molto più debole e finisce per confluire nel bacino di attrazione conflittuale, come accade per i tentativi di negoziazione che non riescono a imporre un cambiamento definitivo al sistema.
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Conclusioni
Molti conflitti, per le loro caratteristiche, sono semplici da comprendere e da gestire: le parti e le