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Parte 2. Approccio sistemico all’analisi dei conflitti intrattabili

7. La Teoria Sistemica per l’analisi dei conflitti

L’idea di analizzare il conflitto attraverso un approccio sistemico accompagna lo studio della risoluzione del conflitto fin dalle sue prime teorizzazioni. Già i primi autori ne facevano riferimento, studiosi quali Richardson, Boulding e Wright9. L’intuizione principale è che il conflitto sia qualcosa di

9Richardson, Boulding e Wright sono considerati tra i pionieri della Peace Reasearch.

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più della semplice somma delle parti che lo compongono, per cui anche un intervento per gestirlo deve tener conto delle numerose interconnessioni e delle loro ripercussioni. Negli ultimi decenni la Teoria dei Sistemi è stata utilizzata in modo ancora più approfondito per gestire la complessità dei conflitti e fornire una teoria congruente ai numerosi fallimenti di risoluzione, che si ancorano invece ai modelli tradizionali. Come afferma Ramsbotham (2011, p. 57), nel post-guerra fredda i conflitti sono differenti da quelli precedenti e s’inseriscono in un contesto globalizzato, tanto da poter parlare di “nuove guerre”.

Adam Kahane (2004) adotta proprio il termine complessità per descrivere tre situazioni presenti nei problemi difficili (tough problems): complessità dinamica, si riferisce al fatto che i legami di causa/effetto non sono lineari e non sono predicibili (nella nostra analisi questo richiede un approccio sistemico); complessità sociale, si riferisce all’esistenza d’idee conflittuali riguardo al problema (questo richiede un approccio partecipativo); complessità generativa, si riferisce all’evoluzione impredicibile del conflitto (questo richiede un approccio creativo per poterlo risolvere)10.

L’analisi dei confitti contemporanei come sistemi complessi nasce quindi da un’esigenza nel gestire le problematiche presenti. Un sistema complesso è definito come un gruppo di elementi interrelati che mostrano relazioni non lineari. Più ci sono elementi e interconnessioni più il sistema è complesso. In particolare, secondo Ramsbotham (2011, p. 58) sei fattori, emersi anche nel paragrafo precedente sulla Teoria dei Sistemi in generale, sono determinanti nel caratterizzare i sistemi complessi:

1. Connettività e interdipendenza degli elementi;

2. Nascita e auto-organizzazione: il sistema emerge dalle scelte accumulate degli individui che lo compongono;

per creare una teoria oggettiva, matematica e fisica, per comprendere le dinamiche che conducono alla guerra e le implicazioni per mantenere la pace. Per questo motivo è considerato oggi uno degli iniziatori dell’analisi scientifica del conflitto.

Kenneth Boulding (1910-1993) fu un economista e un pacifista. Durante la sua professione si convinse della necessità di un approccio interdisciplinare per l’analisi e la risoluzione dei conflitti. Nel 1957 diede avvio alla pubblicazione del Journal of Conflict Resolution (JCR), dandone un carattere appunto interdisciplinare, come si evince anche dalla pluralità di materie di riferimento dei co-fondatori. Alla genesi del giornale si era infatti formato un piccolo gruppo di accademici tra cui il matematico-biologo Anatol Rapoport, lo psicologo- sociale Herbert Kelman e il sociologo Rober Cooley Angell, che nel 1959 istituirono anche il Center for Research on Conflict Resolution. Quincy Wright (1890-1970) fu uno scienziato politico statunitense. Oltre che della peace reasearch, è considerato pioniere anche delle relazioni internazionali e del diritto internazionale. La sua opera principale, A study of war, pubblicata nel 1942, offre contributi importanti anche di altre discipline, come la biologia e il diritto, al fine di una comprensione più esaustiva del fenomeno della guerra e del mantenimento della pace.

10 Nel libro Solving Tough Problems (2004), Adam Kahane cerca di presentare un metodo di risoluzione per ciò che lui chiama i problemi

difficili. I problemi difficili sono tali proprio perché presentano le tre caratteristiche di complessità dinamica, generativa e sociale.

Secondo l’autore la possibilità di risolvere questi problemi inizia da una revisione delle tecniche di dialogo e di ascolto. In un conflitto spesso non si parla, si fanno valere le proprie posizioni; non si ascolta l’altra parte, l’orecchio è aperto solo alla nostra versione. Questo tipo di confronto, non aperto al vero dialogo, irrigidisce le relazioni, blocca il conflitto, in assenza di risoluzione se non quella che prevede l’uso della forza. Tuttavia, secondo Kahane, un problema difficile e complesso può essere risolto solo se le parti lavorano insieme per raggiungere una comprensione e una soluzione condivisa al conflitto.

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3. Caos: gli eventi producono dei risultati incerti;

4. Memoria sistemica: le dinamiche sistemiche di oggi sono legate a quelle di ieri;

5. Effetti di feedback: feedback positivi o negativi fra gli elementi;

6. Evoluzione e adattamento: il sistema nel suo insieme risponde continuamente a impulsi di cambiamento.

Data la complessità dei conflitti contemporanei, i peacebuilders che analizzano il lungo periodo devono quindi comprendere il conflitto nella sua profondità. L’intervento avviene seguendo obiettivi più complessi e anche più generali, non solo riferibili alla disputa in corso. Si devono quindi considerare più tipologie di cambiamento (Ramsbotham, 2011, p. 122): contestuale, considera il livello internazionale (attraverso per esempio modifiche volte a una maggiore uguaglianza); strutturale, considera il livello statale (attraverso l’instaurarsi di strutture politiche più giuste); relazionale, considera la relazione delle parti in conflitto (attraverso un lavoro di riconciliazione); culturale, considera tutti i livelli (attraverso un cambiamento radicale nei modi di vivere le relazioni in un conflitto).

L’approccio sistemico all’analisi del conflitto è utile anche per comprendere la stabilità di lungo periodo, dato che, nei sistemi complessi già affermati, spesso non si trovano stimoli sufficienti per apportarvi un cambiamento. Questi stimoli si scontrano, infatti, con le resistenze (o l’omeostasi) del sistema.

Il pensiero sistemico offre quindi un importante contributo negli Studi per la Pace, sia in termini di capacità analitica sia nello sviluppo di strategie effettive. Come riportato nello studio The Systemic Approach to Conflict Transformation, condotto da Berghof Foundation for Peace Support (Wils et al., 2006), la Teoria dei Sistemi può identificare importanti leve d’intervento e agenti del cambiamento, e offre uno schema per il coordinamento e l’interazione di attività nella gestione del conflitto.

Problematiche degli approcci tradizionali

La necessità di un approccio diverso, in grado anche di inglobare gli studi e i modelli già in utilizzo, scaturisce soprattutto dalla consapevolezza che gli Studi per la Pace, al giorno d’oggi, fronteggiano problemi e sfide che rendono obsoleti gli strumenti di analisi tradizionali. Nello studio in precedenza citato, della Berghof Foundation for peace support, sono descritte alcune cause della fallibilità di questi modelli connesse alle caratteristiche delle guerre contemporanee.

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Prima di tutto si fa riferimento all’alta complessità, alle dinamiche e alla longevità dei conflitti odierni. Un aspetto particolare dei moderni conflitti interstatali è la loro lunga storia, quindi la loro protrazione nel tempo. Questo ha delle ripercussioni nella gestione del conflitto. Per esempio nei conflitti protratti le cause originarie della controversia si pongono in secondo piano rispetto alle dinamiche del conflitto nel presente e gli effetti diretti della violenza commessa dagli attori in gioco. Gli attori in particolare sono coinvolti in una spirale distruttiva crescente di azione e reazione.

Un altro elemento di questi conflitti è la polarizzazione delle relazioni fra le parti per cui ogni individuo è etichettato o dalla “propria parte” o dalla “parte avversaria”. È necessario anche contestualizzare il conflitto e inserirlo all’interno di relazioni più ampie che vedono il coinvolgimento di attori esterni alla disputa, che ne influenzano le dinamiche a causa dei loro stessi interessi. Le potenze regionali possono, di fatto, impedire che un conflitto possa evolvere verso una sua risoluzione. Riguardo ai conflitti complessi e protratti nel tempo (i conflitti intrattabili, adottando la terminologia della prima parte della tesi) i metodi tradizionali di risoluzione mostrano ancora maggiormente la loro fallibilità. A questi è dedicato maggiore spazio nel prossimo paragrafo.

In secondo luogo, rispetto ai piani di risoluzione, si osservano la debolezza dei piani strategici e il fallimento nel coordinamento dei vari attori coinvolti nel peacebuilding; vengono individuati alcuni aspetti problematici, come la comprensione insufficiente delle complesse dinamiche politiche del conflitto, l’incapacità di adattamento a contesti in cambiamento e l’inadeguatezza delle risposte offerte, spesso in ritardo e incomplete.

La mancanza di coerenza e di complementarietà dell’intervento di peacebuilding è dovuta a molti fattori. Questi possono riguardare ragioni strutturali e organizzativi, come per esempio le differenti culture organizzative dei paesi, le inuguaglianze tra attori locali ed esterni. Un altro fattore è l’incompatibilità di obiettivi fra i vari attori che intervengono, un fattore che può essere causa o conseguenza della mancanza di coerenza.

Una terza problematica che emerge nei conflitti di oggi è l’asimmetria di potere e il ruolo specifico di attori non statali armati. In questi casi, spesso gli attori statali fronteggiano una situazione di fallimento a livello burocratico e strutturale. Una gestione del conflitto con esiti positivi deve prevedere la trasformazione dei gruppi armati, statali e non, in attori civili con un’agenda democratica.

Infine l’intervento deve considerare i bisogni e gli interessi di tutti gli attori coinvolti. Questo è un aspetto molto problematico ma anche centrale. È critico perché in un conflitto, soprattutto protratto, soddisfare i bisogni di tutti gli attori appare come una missione impossibile, altrimenti non ci sarebbe un’opposizione fra le parti. Tuttavia è centrale ai fini di una risoluzione completa e funzionale.

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Per tutti questi motivi è necessario lo sviluppo di metodologie di peacebuilding con una base sistemica, in grado di osservare tutti gli aspetti del conflitto, in modo integrato e organico.

Una sfida soprattutto contemporanea per la trasformazione dei conflitti è comprendere la complessità del conflitto in esame. Per fare ciò è necessario acquisire una mentalità sistemica che sappia osservare il conflitto nel suo insieme, non come semplice somma dei suoi elementi, ma come relazione viva e mutevole di questi elementi. In questo senso si abbandona l’idea di una relazione di causa-effetto fra le componenti del sistema per abbracciare l’idea di processi di causalità complessa e circolare (anelli di retroazione, feedback loop, negativi o positivi, concetti che approfondiremo in seguito). Nell’approccio sistemico una delle idee centrali è proprio quella dell’esistenza di dinamiche interne circolari di causa ed effetto che alimentano il conflitto; un conflitto violento autoalimenta la violenza stessa. Per una sua trasformazione diventa importante individuare questi feedback e agire su di essi.

Origini del pensiero sistemico nella psicologia sociale

Coleman (2011) precisa che la necessità di pensare sistemico, non solo in una situazione conflittuale, è confermata anche da alcuni studi di psicologia sociale, che risalgono all’inizio del ‘900. Lo psicologo Wertheimer, uno dei pionieri della corrente della Gestalt11, già negli anni Venti del ‘900, affermava che la psicologia avrebbe dovuto utilizzare un approccio unificato allo studio della percezione e del comportamento umano; concetto simile al principio aristotelico dell’olismo.

La psicologia della Gestalt, una corrente psicologica incentrata sui temi della percezione e dell’esperienza, ha quindi elaborato alcune regole importanti. Innanzitutto, i fenomeni sociali sono concepiti come all’interno di un contesto più ampio. Da qui deriva il motto principale della corrente: l’insieme è più della semplice somma delle parti.

Inoltre, ciò che vediamo è frutto di un’elaborazione rispetto a ciò che percepiamo, dopo avergli dato un significato. Quindi, la percezione avviene attraverso due fasi: analisi della forma (ciò che osserviamo) ed elaborazione cognitiva (il significato che diamo alle percezioni).

Un semplice esempio di questo comportamento accade quando osserviamo un’immagine in cui ogni individuo vede qualcosa di diverso. Si tratta delle cosiddette figure geometriche ambigue che variano a seconda di come è percepito l’oggetto, come il vaso di Rubin o la donna di Leavitt. Nel momento in cui

11 La psicologia della Gestalt è una corrente che sorge agli inizi del Novecento in Germania, per poi svilupparsi negli Stati Uniti, dove

emigrano i suoi principali esponenti, quali M. Wertheimer, K. Koffka e W. Köhler. Il termine tedesco gestalt significa letteralmente “posizionato davanti agli occhi”, ciò che appare allo sguardo, ovvero “forma”. Si parla infatti anche di Teoria della Forma, per indicare che il significato che attribuiamo a tutto ciò che osserviamo deriva dalla nostra percezione. Il significato che diamo a una figura emerge da singoli dettagli che fungono da sfondo alla figura stessa. La somma è tuttavia più delle singole parti. Se pensiamo a una melodia per esempio, essa è composta da una serie di note; ma ciò che percepiamo è qualcosa di diverso della somma delle stesse.

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rileviamo un oggetto cerchiamo di dare coerenza a tutta l’immagine congruentemente a ciò che abbiamo visto; a questo punto è difficile vedere qualcos’altro, anche se altri individui ci spingono a farlo. L’idea che non riusciamo a vedere ciò che invece l’altro vede produce tensione e ci spinge ancora di più a dare coerenza a ciò che invece abbiamo visto.

Kurt Lewin12, un altro psicologo, sostenitore del gruppo della Gestalt, osserva alcune regole del campo sociale in cui l’individuo è inserito; sono quindi regole che si riferiscono al gruppo. Prima di tutto Lewin osserva il gruppo sociale come un solo fenomeno unitario, e non solo la somma di fenomeni isolati; esso è quindi una totalità. Una sua proprietà fondamentale è la dinamicità: il gruppo è una struttura in divenire. I gruppi e gli individui sono vivi; da ciò si comprende che il sistema evolve, non può rimanere statico.

In questa relazione dinamica possono sorgere anche dei conflitti, delle tensioni che producono cambiamento. Quindi, per comprendere un conflitto è utile considerarlo prima come un sistema in cui le parti interagiscono, per creare qualcosa che è diverso dai singoli elementi. Solo dopo aver considerato il conflitto nella sua realtà olistica si possono osservare le questioni centrali.

Inoltre, ogni elemento nel gruppo, e quindi anche i singoli individui che ne fanno parte, si influenzano a vicenda; e, ancora di più, gli elementi sono interdipendenti. Nell’analisi del gruppo non bisogna enfatizzare i singoli elementi, ma le relazioni fra essi. Lewin arriva a definire l’essenza dei gruppi come il modo in cui gli individui vedono i loro obiettivi legati fra loro.

Nonostante la dinamicità del gruppo, il tutto tende sempre a un equilibrio. Bisogna comprendere le forze che agiscono nel momento presente, e che creano stabilità nel sistema; il passato è importante solo per capire come le persone agiscono oggi. La materia principale è l’oggi.

Questa tendenza all’analisi sistemica portava l’autore ad affermare la necessità di utilizzare le discipline rigorose, le cosiddette scienze dure, per studiare i fenomeni sociali. Secondo Lewin, la psicologia deve essere aiutata anche da modelli matematici.

Quest’ultima intuizione è stata messa in pratica negli studi recenti sui conflitti intrattabili analizzati come sistemi dinamici, che esaminiamo nel prossimo capitolo. Di seguito invece forniamo un esempio di modello matematico di analisi di un sistema dinamico.

12 Kurt Lewin (1890-1947) fu uno psicologo fenomenologo che mise in evidenza le interconnessioni fra l’individuo e l’ambiente che lo

circonda. Dai suoi studi nacque la teoria sistemica che è alla base della terapia della famiglia. Secondo lo studioso americano, di origine tedesco-polacca, si può capire meglio un individuo se lo si inserisce all’interno del contesto in cui vive. Nella teoria del campo

psicologico egli pone l’accento sull’importanza dell’interazione fra ambiente e individuo nel determinare il comportamento, che a sua

volta agisce su di esso. Gli individui sono inseriti in uno spazio sociale strutturato come “campo”, nel quale coesistono significati e interazioni complesse. La sua teoria ruota intorno al concetto di ambiente comportamentistico, di spazio vitale: si tratta dell’ambiente in cui l’individuo è inserito e che lo influenza. Lewin elabora anche la teoria del campo sociale in cui prende in esame le dinamiche di gruppo. Il gruppo sociale, secondo lo psicologo, è qualcosa di più della semplice somma degli individui che ne fanno parte.

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Modello matematico di analisi di un sistema dinamico

Il modello di Rachardson13 è un esempio di analisi sistemica di una realtà, in cui l’approccio

matematico è utilizzato per comprendere le azioni nel mondo sociale e le scelte individuali. In particolare questo modello studia le scelte di due Paesi potenzialmente in conflitto, scelte che possono portare a una corsa agli armamenti. È quindi un modello dinamico perché non analizza una realtà statica.

Il modello presenta due Paesi avversari, le cui azioni si influenzano a vicenda. In particolare l’arsenale difensivo di ciascun Paese è misurato dipendentemente dalla percezione di aggressione dell’altro, indicata dalla forza militare. Quest’ultima è quindi contemporaneamente fonte di sicurezza per l’uno e percezione di pericolosità per l’altro.

In un modello matematico la forza militare dei due Paesi può essere misurata prendendo i dati sulla spesa militare, così come appare nel bilancio della difesa.

La spesa militare dipende sia dal livello di armamenti del Paese avversario, in questo caso in modo direttamente proporzionale, sia dal proprio arsenale difensivo, in modo inversamente proporzionale. Si assume infatti che maggiore è la forza militare dell’avversario, maggiore è la percezione di insicurezza e quindi la propria spesa difensiva. Mentre se il proprio livello di armamenti è alto, minore è la motivazione di aumentarlo ancora.

A questi termini Richardson aggiunge nel modello un altro elemento che tenga conto del livello di ostilità fra i due Paesi. Si tratta di un coefficiente indipendente dal livello di armamenti, ma indicativo della situazione di tensione fra i due. Se questo coefficiente è negativo, i due Paesi sono in uno stato di amicizia.

Descriviamo ora in modo formale il modello di Richardson14. Dati i due paesi X e Y, indichiamo con x

e y la loro spesa militare. Essendo funzioni del tempo esse sono indicate con x(t) e y(t). Il modello di Richardson semplificato è descritto dalle seguenti equazioni:

x(t+Δt) = x(t) + f(x(t), y(t))Δt y(t+Δt) = y(t) + g(x(t), y(t))Δt

Il livello di spesa di X e Y dopo il periodo Δt, la parte sinistra dell’equazione, dipende dal livello di spesa del proprio paese al tempo t, più la variazione avvenuta nel periodo Δt, ottenuta moltiplicando il tasso di crescita dei due paesi per Δt.

13 Il modello in forma semplificata sulla corsa agli armamenti fu presentato sulla rivista Nature nel 1935, s’inserisce quindi in un contesto

storico determinante per lo studioso: Richardson aveva vissuto il dramma della Grande Guerra, non partecipando in forma diretta al conflitto, in quanto obiettore di coscienza, e negli anni ‘30 si prospettava lo scoppio della Seconda.

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Il tasso di crescita del livello di spesa dei due Paesi è rappresentato dalle funzioni f(x,y) e g(x,y) a loro volta determinate nel seguente modo:

f(x,y) = ky – αx + p g(x,y) = lx - βy + q.

I coefficienti k e l sono i rispettivi coefficienti di difesa, dipendenti cioè dal livello di spesa militare del Paese avversario (valore positivo perché direttamente proporzionale).

I coefficienti α e β sono detti i coefficienti di costo perché rappresentano il costo di aumentare ancora la spesa militare (valore negativo perché inversamente proporzionale).

I valori p e q sono detti coefficienti di ostilità perché indicano la situazione di tensione fra i due Paesi. Se quest’ultimo valore fosse negativo, inciderebbe negativamente sul tasso di crescita della spesa militare perché la relazione fra i due Paesi non è conflittuale, e quindi non c’è necessità di aumentare la spesa.

Nel caso in cui αβ > kl è molto probabile che si verifichi una corsa agli armamenti.

Al contrario se αβ ≤ kl il coefficiente di costo supera quello di difesa, per cui è meno probabile che scoppi un conflitto armato.

In conclusione questo modello mostra il comportamento di due attori in conflitto e come esso cambia nel tempo, dipendentemente dall’azione avversaria. In questo modo dimostriamo come l’analisi matematica possa essere utile per comprendere l’azione sociale e, in alcuni casi, anche saperla determinare in anticipo.

Osservate le problematiche principali degli approcci tradizionali per i conflitti contemporanei e la caratteristica interdisciplinarietà del pensiero sistemico, le origini nella psicologia sociale e l’utilità delle scienze matematiche, approfondiamo adesso alcuni concetti utili per l’analisi sistemica di un conflitto.

I confini di un sistema

Come già accennato nel paragrafo precedente, importante è la definizione dei confini del sistema per comprendere quali elementi devono rientrare nell’analisi e quali rimanerne esclusi.

È un concetto polivalente perché può riguardare vari aspetti della realtà conflittuale.

In primo luogo, viene spesso utilizzato proprio il territorio degli scontri come confine del sistema fisico. Tuttavia questo non è sufficiente a causa di alcuni fattori che giocano un ruolo importante nel conflitto: per esempio gli attori vicini possono avere un’influenza determinante nella disputa, così da

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