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Approccio sistemico all'analisi dei conflitti intrattabili. Caso studio: Il conflitto israelo-palestinese

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Laurea Magistrale in Scienze per la Pace:

Cooperazione Internazionale e Trasformazione dei

Conflitti

Tesi di Laurea

Approccio sistemico

all’analisi dei conflitti intrattabili.

Caso studio: Il conflitto israelo-palestinese

Relatrice

Prof.ssa Valentina Bartolucci

Candidata

Ester Comanducci

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INDICE

Indice ...1

Indice delle figure ...3

Introduzione ...4

Parte 1. i Conflitti Intrattabili ...7

1. Introduzione ...7

2. Cause dell’intrattabilità ... 10

3. Caratteristiche dei conflitti intrattabili ... 15

4. Livelli d’intrattabilità ... 18

5. La prospettiva dei sistemi dinamici ... 20

Parte 2. Approccio sistemico all’analisi dei conflitti intrattabili ... 24

6. Teoria Sistemica ... 24

7. La Teoria Sistemica per l’analisi dei conflitti ... 31

Problematiche degli approcci tradizionali ... 33

Origini del pensiero sistemico nella psicologia sociale ... 35

Modello matematico di analisi di un sistema dinamico ... 37

I confini di un sistema ... 38

Bird’s eye e frog’s eye view ... 39

Resistenze ... 40

Cicli causali/cicli di retroazione ... 40

Il conflitto nello Sri Lanka ... 41

8. I conflitti intrattabili nella Teoria Sistemica ... 43

Perché i metodi tradizionali non funzionano con i conflitti intrattabili ... 44

I conflitti intrattabili nella Teoria Sistemica – la prospettiva dei sistemi dinamici ... 46

Feedback positivi ... 47

Collasso della complessità ... 48

Complessità, contraddizione e coerenza ... 49

La matematica della complessità ... 49

Attrattore ... 50

Un modello matematico specifico ... 54

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9. Mappatura del conflitto ... 59

Introduzione ... 59

Background ... 60

Breve descrizione del Paese ... 60

I confini e i Territori Palestinesi ... 63

Analisi storica ... 65

Sviluppi recenti del conflitto ... 79

Le parti in conflitto e le questioni centrali... 82

Israele ... 84

Il problema demografico ... 86

Gerusalemme ... 87

Gli insediamenti e l’annessione di territori occupati ... 88

La sicurezza ... 90

Al-Fatah e OLP ... 92

Gerusalemme e gli insediamenti in Cisgiordania ... 96

I rifugiati ... 99

L’accesso all’acqua ... 101

Hamas ... 103

Hamas, gli accordi di Oslo e il governo del 2006 ... 104

I leader ... 107

I finanziamenti ... 108

Le posizioni di Hamas ... 108

Il Jihad islamico ... 111

PFLP – PFLP-DC – DFLP ... 112

I palestinesi insorgenti – la Terza intifada ... 114

10. Il conflitto israelo-palestinese: un conflitto intrattabile come sistema dinamico ... 115

Conclusioni ... 124

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INDICE DELLE FIGURE

Figura 1. Linea continua del conflitto ... 8

Figura 2. Sistema dinamico con due attrattori ... 21

Figura 3. Modello di Glasl (1982). Conflict escalation and de-escalation ... 27

Figura 4. Diagramma dei cicli di retroazione ... 31

Figura 5. Cicli causali del conflitto climatico nello Sri Lanka ... 42

Figura 6. L'ambiente degli attrattori ... 50

Figura 7. Tangente iperbolica con costante c>0, feedback positivo... 55

Figura 8. Mappa geografica: Israele e i Territori Palestinesi ... 61

Figura 9. Mandato britannico e Stato d'Israele ... 69

Figura 10. Massima espansione dello Stato d'Israele ... 71

Figura 11. Gerusalemme e i nuovi insediamenti ... 97

Figura 12. Cisgiordania ... 98

Figura 13. National Water Carrier ... 101

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Introduzione

Il conflitto è una realtà inevitabile e costante nella vita dell’uomo. Esso infatti emerge nel momento in cui due o più parti, in relazione tra loro e inseriti in un contesto preciso, mostrano interessi e obiettivi divergenti; in questo senso è inevitabile, perché ogni relazione sociale porta con sé un potenziale conflittuale. Il conflitto, a differenza di come è comunemente percepito, può anche svolgere un ruolo positivo, perché, ricostruendo la relazione tra le parti, può fare evolvere una determinata situazione verso esiti migliori. I contesti in cui insorge sono i più svariati e vanno da quello individuale (i dilemmi interni), a quello di comunità (i meso conflitti), a quello internazionale (i macro conflitti).

Qui ci occuperemo dei conflitti internazionali, che sono un fenomeno estremamente disomogeneo perché riguardano una vasta gamma di eventi, ciascuno con i propri elementi distintivi; per cui non si tratta di casi unitari con delle caratteristiche comuni che si ripetono inevitabilmente in ogni contesto. Alcuni di essi si svolgono meno violentemente, il contrasto diventa un’occasione di confronto costruttivo tra le parti e la risoluzione può avvenire tramite metodi tradizionali di gestione del conflitto, come la negoziazione e la mediazione. Esiste tuttavia un secondo gruppo di conflitti, di cui ci occuperemo in modo particolare, che evolve in una direzione più distruttiva e più complessa ed è quindi più difficile da analizzare e gestire. Gli approcci classici a questo tipo di conflitto risultano spesso inefficaci; per questo tali conflitti vengono definiti come intrattabili.

L’intrattabilità è un concetto complesso, sia a livello analitico, perché riguarda un insieme non ben definito di eventi, sia a livello applicativo, perché per definizione riguarda conflitti difficilmente risolubili. Alcuni di questi insorgono all’interno di uno Stato, come le guerre civili, mentre altri sono combattuti da più Stati. In ogni caso si tratta di conflitti che hanno un impatto notevole nel territorio coinvolto e anche in quello circostante, determinando, in modo indelebile, le relazioni tra le persone che vi abitano oltre alle loro vite.

I conflitti intrattabili sono stati oggetto di numerosi studi recenti, condotti soprattutto in conseguenza all’emergere di nuove crisi a livello internazionale, che si prolungano nel tempo e resistono a tentativi di risoluzione. Oltre a questi due elementi, la violenza è la terza caratteristica discriminante di questi conflitti che, in apparenza, sembrano impossibili da risolvere.

I conflitti contemporanei hanno messo in dubbio le teorie, i modelli e gli strumenti di gestione classici, elaborati per lo più per analizzare conflitti simmetrici, con i quali, il più delle volte, è difficile giungere a una comprensione esaustiva dell’evento in analisi.

L’obiettivo di questa tesi non è quello presuntuoso di trovare una soluzione a questo tipo di conflitti o di elaborare una nuova teoria del conflitto, che comprenda un insieme di strumenti concettuali per

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capire il perché del verificarsi di alcune crisi e le loro caratteristiche principali. Questa tesi approfondisce piuttosto una nuova prospettiva di analisi per i conflitti intrattabili, un nuovo approccio di studio, capace di inglobare teorie e modelli già consolidati negli Studi per la Pace. Si tratta della prospettiva dei sistemi dinamici1, una prospettiva che analizza il sistema nella sua totalità, a partire

dall’insieme coordinato delle dinamiche che perpetuano il conflitto.

La prospettiva dei sistemi dinamici affonda le sue origini nel più generale approccio sistemico, che osserva la realtà da un punto di vista olistico, considerandone gli elementi interni e ciò che emerge dalla loro interazione. Il primo assunto di questo approccio è che l’insieme è qualcosa di più della semplice somma delle parti. In generale, qualsiasi tipo di sistema, non solo socio-relazionale, è composto da una serie di elementi che interagiscono fra loro. Per cui l’insieme dipende sia dagli elementi e le loro proprietà sia dall’interazione che si verifica fra di essi. Quest’interazione permette al sistema di auto-organizzarsi e di mutare nel tempo (la dimensione dinamica è infatti una sua caratteristica fondamentale). Per quanto simile a ciò che descrive, il concetto di sistema è qualcosa di artificiale, è una costruzione mentale utile per comprendere la realtà ma non assimilabile a essa. Infatti non esiste nessun insieme chiuso di elementi, isolati completamente dall’esterno.

La Teoria Sistemica offre un importante contributo allo studio dei conflitti, considerati anch’essi sistemi caratterizzati da una pluralità di elementi interagenti. In particolare alcuni concetti del pensiero sistemico sono utili all’analisi dei conflitti, soprattutto quelli contemporanei.

Prima di tutto il carattere complesso dei conflitti intrattabili si riscontra nei numerosi elementi che compongono il sistema e la loro interazione. Alcuni di essi sono per esempio gli attori stessi del conflitto, i loro interessi, le loro posizioni e le loro emozioni; l’eredità storica che spesso emerge dalle diverse narrazioni è un altro elemento chiave del conflitto; l’intervento di terze parti, che siano o no imparziali, ne identifica un terzo. L’interazione di tutti gli elementi provoca dei cicli di retroazione (o feedback loops) per cui a un evento corrisponde una serie conseguente di reazioni all’interno del sistema. L’elaborazione di una mappa visiva dei cicli di retroazione può essere utile a comprendere tali connessioni. Un conflitto intrattabile è caratterizzato dalla maggiore forza dei cicli di retroazione positivi, proprio perché essi autoalimentandosi fanno sì che il conflitto si perpetri nel tempo.

Il carattere dinamico è un’altra caratteristica dei sistemi riscontrabile anche nei conflitti: le ragioni della crisi attuali sono diverse da quelle di ieri. Questa caratteristica è preziosa per l’analisi dei conflitti intrattabili, poiché, proprio per la loro protrazione nel tempo, essi assumono caratteristiche sempre diverse. Questa proprietà rappresenta sia una sfida, poiché è necessaria una comprensione del conflitto

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sempre aggiornata, sia un’opportunità, poiché alcune variabili possono mutare permettendo all’interazione fra le parti di indirizzarsi verso esiti più cooperativi.

Una terza proprietà dei sistemi è l’omeostasi, cioè la capacità di raggiugere una stabilità di lungo periodo. Nonostante i vari cambiamenti interni, il sistema tende a mantenere una certa stabilità. Così avviene per i conflitti intrattabili che anche in presenza di numerosi danni, materiali e non, che essi imprimono nella società, resistono a ogni tentativo di risoluzione. A questo proposito nella prospettiva dei sistemi dinamici è stato introdotto il concetto di attrattore, una forza presente nel sistema che attrae i pensieri, i sentimenti e i comportamenti verso lo stesso stato, nel nostro caso, conflittuale.

In sintesi, in questa prospettiva di analisi i conflitti sono studiati come sistemi complessi, composti da una serie di elementi interconnessi e l’intrattabilità è spiegata dalla forza di attrazione dello stato conflittuale.

Nella prima parte della tesi è riportata un’analisi dei conflitti intrattabili: le cause che possono condurre il conflitto verso una sua protrazione nel tempo e le caratteristiche che esso assume nel tempo. La seconda parte approfondisce la Teoria Sistemica e i punti fondamentali dell’approccio sistemico all’analisi dei conflitti e introduce la prospettiva dei sistemi dinamici, utile per la comprensione dei conflitti intrattabili.

L’ultima parte della tesi è dedicata all’analisi di un conflitto intrattabile: il conflitto israelo-palestinese. Per le sue caratteristiche, esso è considerato l’emblema dei conflitti complessi e maggiormente intrattabili. Si protrae da circa un secolo (anche se la data d’inizio è dibattuta), ha resistito a numerosi tentativi di risoluzione e, nel tempo, ha attraversato diverse volte le fasi di escalation, raggiungendo più volte la fasi di gestione violenta aperta e conclamata. Per una comprensione quanto più esaustiva, questo conflitto viene analizzato attraverso una mappatura sistemica, un metodo, proposto da Ramsbotham et al. (2011), di portare avanti un’analisi strutturata e approfondita di un conflitto in un particolare momento storico. Tale mappatura comprende la descrizione del Paese o i Paesi in cui ha luogo, un approfondimento storico e un’analisi degli attori coinvolti e delle questioni centrali per ognuno di essi. L’approccio dei sistemi dinamici è quindi utilizzato per comprendere a fondo la complessità dell’interazione fra palestinesi e israeliani e individuare i fattori che tendono a mantenerla in uno stato di conflittualità perenne.

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PARTE 1. I CONFLITTI INTRATTABILI

1. Introduzione

I conflitti intrattabili sono essenzialmente conflitti che persistono perché apparentemente sembra impossibile risolverli. In questa accezione viene però introdotto un elemento di inevitabilità del prolungarsi del conflitto, elemento che tuttavia promuove gli effetti della cosiddetta profezia che si auto avvera, per cui al conflitto viene conferita definitivamente un’etichetta e le parti interagiscono rendendola ineludibile (Crocker, 2005; Putnam e Wondolleck, 2003). Per evitare di attribuirne un significato inderogabile, nella letteratura presente gli autori concordano nell’affermare che l’intrattabilità di un conflitto non implica l’impossibilità di risoluzione; il termine delinea piuttosto una difficoltà maggiore nell’analisi, nella comprensione e nella gestione del conflitto (Putnam e Wondolleck, 2003).

Analizzando i conflitti intrattabili nei vari contesti, alcuni autori li denominano in modo diverso a seconda dell’aspetto che più emerge nei casi da loro studiati e dell’elemento che vogliono puntualizzare: ad esempio, deeply rooted conflict (Burton, 1987); protracted social conflict (Azar, 1990); moral conflict (Pearce e Littlejohn, 1997); enduring rivalries (Goertz e Diehl, 1993)2. In ogni

2 John W. Burton distingue due aspetti di un conflitto: il suo livello di serietà (seriousness) e di profondità (deep-rooted). Il primo aspetto

riguarda l’impatto del conflitto negli individui e nella società: più una controversia è seria più ha bisogno di essere gestita con strumenti sofisticati ed efficaci. Il secondo aspetto fa riferimento sia alle cause sia alla natura del conflitto: una controversia che è sorta e dibattuta su interessi non negoziabili richiede strumenti di risoluzione più sofisticati.

Edward E. Azar assume che i conflitti sociali protratti (protracted social conflict) avvengono quando “le comunità sono deprivate della

soddisfazione dei loro bisogni primari sulla base dell’identità comune. Tuttavia, la privazione è un risultato di una serie di cause complesse che riguardano il ruolo dello Stato e i modelli di connessioni internazionali. Inoltre le condizioni iniziali (eredità coloniale, contesti storici domestici, e la natura multi condivisa della società) giocano un ruolo importante nella genesi dei conflitti sociali protratti” (Azar, 1990: p. 12). Nella sua definizione, l’autore si allontana da una nozione realista delle politiche che vede i conflitti come

delle lotte di potere inevitabili mentre si sofferma su concetti come sicurezza collettiva, edificazione di comunità e prosperità.

W. Barnett Pearce e Stephen W. Littlejohn si soffermano sul concetto di conflitti morali definendoli come situazioni in cui i mondi sociali o gli ordini morali delle parti sono incommensurabili. In questo senso i conflitti morali emergono da differenze che non sono solo di opinione; piuttosto traggono la loro origine da differenze incommensurabili nei modi di vedere il mondo o le realtà sociali. Di conseguenza i conflitti morali assumono alcune caratteristiche: sono intrattabili, interminabili e moralmente attenuati.

Gary Goertz e Paul F. Diehl introducono il concetto di rivalità durature che hanno tre componenti concettuali: la competitività, il tempo e la consistenza/coerenza spaziale. La competizione può essere su un bene tangibile o intangibile, deve persistere per un periodo esteso di tempo perché la rivalità sia considerata duratura e infine deve comprendere un consistente numero di stati, definiti come diadi/coppie in natura, anche se possono riguardare anche relazioni fra più stati. Secondo questo approccio le rivalità sono osservate nella loro continuità storica: andando oltre l’evento conflittuale violento si afferma per esempio che molte guerre si svolgono all’interno di una rivalità temporalmente più ampia (vedere anche Cameron G. Thies, A Social Psycological Approach to Enduring Rivalries, 2001).

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caso, sono tutte definizioni che fanno emergere alcuni aspetti complessi di questo tipo di conflitti, e se anche concordiamo che non sia impossibile risolverli, certo sono molto diversi dai conflitti più gestibili. Se per questi ultimi può essere sufficiente un approccio tradizionale, che comprenda nella gestione mezzi come la negoziazione o la mediazione, i conflitti intrattabili necessitano di una diverso approccio per essere analizzati e compresi, di diversi strumenti e di un’attenzione più prolungata e profonda per essere risolti. La completezza per esempio è fondamentale perché ogni accordo che non consideri tutti gli aspetti del conflitto risulterà sicuramente fallace, soprattutto nel lungo periodo. Per esempio gli accordi sul cessate il fuoco devono essere supportati in un secondo momento da trattative più complete, che indaghino il conflitto nella sua profondità, affinché i risultati raggiunti non siano solo temporanei.

Contro ogni etichetta e ogni visione statica, l’attribuzione d’intrattabilità a un conflitto è momentanea, data la possibilità di cambiamento e di passaggio a una nuova fase più gestibile della controversia. L’intrattabilità non è quindi un insieme chiuso in cui inserire alcuni conflitti ed escluderne altri; piuttosto diversi autori la pongono su un continuum in cui in un estremo ci sono i conflitti più difficili da gestire, più complessi, che eludono la risoluzione, mentre all’altro estremo i conflitti più trattabili, facilmente risolvibili (Burgess e Burgess, 2003).

Figura 1. Linea continua del conflitto

Immagine tratta da beyondintractability.org

Questa linea continua mostra come nel tempo il conflitto possa assumere caratteristiche più o meno trattabili e gestibili.

Putnam e Wondolleck (2003), utilizzando lo stesso concetto ma, dandone una propria interpretazione, pongono agli estremi di questa linea obiettivi comuni e problem solving da un lato e l’intrattabilità dall’altro, mentre le dispute trattabili sono al centro, dato che contengono un potenziale di risoluzione. Nel tempo i conflitti possono spostarsi da un estremo all’altro di questa linea continua. Infatti, pochi conflitti quando iniziano sono subito intrattabili: piuttosto lo diventano in un momento successivo, quando aumenta la complessità e la disputa viene gestita male o non viene gestita affatto.

Se, da una parte, la dinamicità di un conflitto può essere considerata come un elemento positivo, perché vi è un’implicita possibilità che, nel cambiamento, la disputa venga indirizzata verso fasi più gestibili, dall’altra parte la continua evoluzione crea difficoltà maggiori nell’analisi e quindi nella risoluzione. Le tre caratteristiche principali e distintive dei conflitti intrattabili sono la persistenza nel tempo, la

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9 resistenza alla risoluzione e la tendenza alla distruzione.

Riguardo al primo elemento si parla di conflitti che hanno un passato esteso, un presente turbolento e un futuro nebuloso (Coleman, 2000). Ciò che viene definito come un periodo lungo potrebbe essere arbitrario: per esempio, per alcuni la persistenza di un anno potrebbe essere eccessiva, mentre per altri non sufficiente per definire un conflitto intrattabile. L’aspettativa sociale potrebbe essere un parametro adatto per dare un giudizio in merito. Tuttavia, a livello analitico, è utile dare alcuni parametri precisi e, per i conflitti sociali di larga scala, la persistenza può essere attribuita a quegli che superano una generazione sociale: in questo modo si considera che le parti abbiano appreso e interiorizzato le ragioni per continuare lo scontro (Kriesberg, 2003).

Riguardo al secondo elemento, il ripetuto fallimento di una parte nel tentativo di imporre una fine al conflitto, quello di tutti gli autori coinvolti nel tentativo di negoziazione e quello di parti esterne nel tentativo di fermare o trasformare il conflitto conferma la sua intrattabilità (Kriesberg, 2003). La presenza di una vasta letteratura precedente su tentativi di accordo poi falliti aumenta sentimenti di sfiducia, conferma gli stereotipi conferiti precedentemente agli avversari e diventa un’arma per la politica della guerra riducendo le possibilità di risoluzione. Questo secondo aspetto solleva quindi il problema dell’incapacità delle tecniche usate per gestire il conflitto e richiede lo sviluppo di metodi creativi alternativi. Ciò può accadere per diversi motivi: alcune tecniche potrebbero prendere in esame solo alcune caratteristiche del conflitto, tralasciandone altre che risultano invece importanti; alcuni accordi potrebbero non essere mantenuti o potrebbero altresì essere contrastati dalle parti; infine le parti potrebbero ritenere più vantaggioso per loro rimanere nel conflitto, considerando i loro obiettivi irrinunciabili e inconciliabili con quelli della parte avversaria o calcolando un costo troppo elevato nel tentativo di accordo (Putnam e Wondolleck, 2003).

A queste due caratteristiche Kriesberg (2005) aggiunge anche la tendenza alla distruzione: poiché non tutti i conflitti che persistono nel tempo e che resistono alla risoluzione possono essere considerati intrattabili, perché ad esempio non danneggiano o non vengono percepiti dalle parti come preoccupanti, il comportamento disposto ad atti di violenza può invece essere un elemento discriminante.

Quindi, questi tre elementi insieme definiscono l’intrattabilità, mentre nessuno dei tre è sufficiente da solo per farlo. Inoltre tutti e tre sono in una certa misura dipendenti: alti livelli in una delle tre dimensioni possono comportare alti livelli nelle altre due; per esempio un uso eccessivo di violenza e distruzione tende a prolungare il conflitto, a renderlo più complesso e quindi più difficile da risolvere. In questo modo spesso un conflitto intrattabile si autoalimenta, generando il continuo perpetrarsi d’interazioni violente, in cui ogni parte sviluppa un interesse nella continuazione del conflitto.

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Burgess e Burgess (2003) infine aggiungono che nel definire un conflitto intrattabile anche la percezione, che differisce in ogni persona, è importante perché influenza le azioni. Infatti, se si pensa di poter gestire e risolvere una disputa verranno impiegati strumenti tradizionali per farlo; se, invece, la possibilità di risoluzione si allontana dalla percezione delle persone coinvolte è più facile che vengano utilizzati strumenti alternativi, anche distruttivi come gli attentati suicidi, che rientrano nella logica del vinci/perdi.

Oltre questi elementi comuni i conflitti in esame differiscono nelle cause che generano l’intrattabilità, esaminate nel prossimo capitolo, e in altre caratteristiche proprie dei vari contesti, come l’evoluzione, il livello di intensità e di violenza (per questi ultimi vedi capitolo 3 e 4).

2. Cause dell’intrattabilità

Nonostante non si possa conoscere l’evoluzione di un conflitto, alcuni elementi sono segnali di un possibile acuirsi futuro dello scontro, direzionato verso una maggiore difficoltà di gestione. Questi elementi predisponenti riguardano per esempio questioni e problematiche di alto interesse, irriducibili, che implicano una logica del vinci/perdi e che non prevedono una zona di possibile accordo3. Con

questi elementi è molto probabile che il conflitto diventi presto intrattabile.

Con le cause si fa quindi riferimento a quei fattori che contribuiscono a rendere il conflitto intrattabile, tuttavia esse non coincidono necessariamente con quelle che sono alla genesi della disputa perché, col tempo, le problematiche centrali possono mutare o anche essere sostituite da altre. Vari autori hanno creato delle tassonomie con lo scopo poi di utilizzarle nello studio dei vari casi.

Burgess e Burgess (2003) fanno riferimento a tre cause principali dell’intrattabilità: differenze morali irreconciliabili (irreconcilable moral differences), issues distribuzionali di alto interesse (high-stakes distributional issues), conflitti di dominazione o di scala gerarchica (domination or “pecking order” conflicts).

La prima causa riguarda le dispute su cosa sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, e rientra in un ambito morale che difficilmente scende a compromesso. Spesso si tratta di visioni del mondo che emergono e si appoggiano alle differenti religioni e culture ed essendo i valori stabili nel tempo è molto

3 La zona di possibile accordo (Zone Of Possible Agreement-ZOPA) comprende quegli accordi eventuali che beneficiano entrambe le parti

in conflitto più di quanto non facciano le loro opzioni individuali. Spangler fa l’esempio dell’interazione fra due uomini, un venditore di auto e un acquirente. Se il primo vuole vendere un’auto per minimo 5000 dollari e il secondo ne vuole acquistare una per un massimo di 6000 dollari, i due hanno una zona di possibile accordo. Ma se il prezzo del venditore sale più di 1000 dollari o quello dell’acquirente scende dello stesso valore, allora i due non potranno accordarsi per eseguire la transazione (Spangler, 2003).

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improbabile che siano negoziati. Quindi, se questi valori sono ben radicati in un gruppo coinvolto e differiscono diametralmente rispetto a quelli di un altro, questi porteranno a uno scontro. I conflitti morali avvengono quando gli attori agiscono all’interno di mondi sociali differenti (Pearce e Littlejohn, 1997): quando due gruppi hanno modi diversi di dare significato ai fatti è molto probabile che una stessa azione possa essere considerata buona e accettabile da una parte e negativa e abominevole dall’altra. Coerentemente con quanto affermato, spesso le culture hanno un’influenza determinante sull’ordine morale e permettono lo sviluppo di sistemi di significato e modi di pensare che differiscono tra l’una e l’altra. Conseguentemente i conflitti morali producono spesso degli effetti dannosi perché le azioni violente vengono giustificate dal comportamento immorale dell’altra parte, a tal punto che si arriva a pensare che l’unico modo per uscire dal conflitto sia la sua eliminazione.

Nel secondo gruppo di cause (issues distribuzionali di alto interesse) rientrano quei conflitti su “chi ottiene che cosa” rispetto a un bene prezioso che non si rinuncia ad avere. Nella maggior parte dei casi il bene in questione è qualcosa di tangibile, che si può quantificare. Si fa riferimento per esempio a quei beni come la terra, l’acqua, il cibo. Tuttavia il prodotto da distribuire può anche non essere tangibile, come per esempio la salute e il benessere. In ogni caso, questo tipo di problematiche genera conflitti intrattabili soprattutto quando ci sono alti livelli di disuguaglianza nell’accesso al bene prezioso o quando è la quantità ad essere scarsa. In quest’ultimo caso in particolare, quando sembra che tutti non possano essere soddisfatti, il conflitto assume la logica del vinci/perdi, per cui si lotta per ottenere la maggiore quantità di quel bene a discapito dell’altra parte.

Nell’ultimo gruppo rientrano quei conflitti per ottenere potere o status. Emergono in particolare da situazioni iniziali di disuguaglianza, di povertà o in presenza di minoranze sistematicamente emarginate e sono quindi insite nella natura della controversia. A questo proposito, diversi autori come Burton (1993) e Kelman (1980) pongono l’accento sui diritti umani fondamentale identificando nella loro assenza la ragione di molti conflitti profondamente radicati (deep-rooted). Si tratta di bisogni che non possono essere negoziabili per cui i conflitti che ne scaturiscono rimangono intrattabili fino a quando il cambiamento delle strutture sociali non ne permette la tutela. Sono per esempio i bisogni di sicurezza, identità, rispetto, e controllo (Burgess e Burgess, 2003).

In presenza di uno di questi elementi è probabile, anche se non inevitabile, che il conflitto si evolva verso una maggiore intrattabilità. Se sono presenti più di una di queste cause il conflitto è ancora più complesso e quindi anche più difficile da gestire.

Putnam e Wondolleck (2003) propongono una classificazione differente e più dettagliata delle cause dell’intrattabilità: ne individuano sette suddivise in tre gruppi.

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Il primo di questi gruppi riguarda la natura delle relazioni tra le parti e comprende quindi quei conflitti generati da incompatibilità nelle identità opposte che rappresenta una delle cause principali. Infatti, secondo Lederach (1997) quasi i due terzi dei conflitti mondiali più intensi si radicano intorno a dispute sull’identità. I conflitti caratterizzati da fratture comunitarie o etniche ben radicate ruotano intorno a questo tema e le parti rischiano di definire la propria esistenza in termini del conflitto stesso.

Il fattore dell’identità emerge in alcuni ambiti precisi che identificano le prime quattro cause dell’intrattabilità.

L’ideologia, il primo di questi e già in parte trattato nei suoi aspetti principali dagli autori precedenti, permea il modo di vedere la realtà e crea incompatibilità fondamentali su valori e credenze. L’ideologia è ancora più evidente nei conflitti etnici e razziali, dove l’identità è condivisa da un gruppo. La seconda causa è l’appartenenza a un gruppo. Quando questa diventa un aspetto cruciale della vita sociale dell’individuo il perseguimento del conflitto acquista una motivazione aggiuntiva e ne aumenta la complessità. Ciascuna parte vede se stessa come la vittima del conflitto e crea e reinterpreta i simboli chiave e religiosi che perpetuano emozioni di risentimento.

Un ulteriore ambito riguarda le lotte di potere e di dominazione politica sui gruppi. Le parti in conflitto che hanno più potere spesso mantengono la propria posizione preminente attraverso un accesso alle risorse diseguale fra i gruppi. Gli squilibri di potere aumentano la divisione nel conflitto e la sua longevità.

Un’ultima causa riguardante la relazione fa riferimento all’organizzazione delle parti. I gruppi con confini definiti, con caratteristiche di in-group e out-group ben delineate e obiettivi precisi e stabiliti permettono l’evolversi di trattative di risoluzione più chiare senza rischi di incomprensione e vaghezza e meno aperte a interpretazioni sbagliate. Le trattative più complicate sono invece quelle condotte da gruppi meno organizzati, senza ruoli, strutture e obiettivi definiti.

Il secondo gruppo di cause include le issues che sono dibattute. La prima di queste comprende i valori fondamentali opposti, che possono essere di natura morale, religiosa o personale. Le autrici fanno una distinzione fra issues consensuali, in cui le parti concordano su ciò che ha valore ma non sulla sua allocazione, e issues non condivise, in cui invece le parti dibattono intorno alle differenze di valore. In quest’ultimo caso è più difficile trovare un punto d’incontro tra le parti perché i valori opposti sono difficilmente conciliabili e discutibili.

La seconda causa riguarda invece le issues distribuzionali: si tratta di dispute sull’accaparramento di risorse in cui il costo di accordarsi è maggiore del costo del conflitto. La logica che s’instaura è di tipo win-lose, per cui diventa improbabile scendere a compromessi o fare concessioni.

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Infine le autrici pongono l’attenzione sul sistema sociale e il contesto all’interno del quale le parti sono in conflitto. In particolare identificano due sistemi sociali: il primo di questi è un sistema prescrittivo che ha sia regole formali sia informali per la gestione delle dispute. Il secondo sistema invece è definito come ambiguo perché ha regole comportamentali non statiche, ma mutevoli, non definite in modo chiaro e incomplete. È in quest’ultimo contesto che le parti hanno più difficoltà a gestire il conflitto rendendo difficile una risoluzione con i metodi tradizionali.

Altri elementi, in aggiunta a quelli precedenti e analizzati da Crocker, Hampson e Aall (2005), completano il quadro delle possibili cause di un conflitto intrattabile.

Un primo gruppo di cause viene identificato nelle motivazioni geografiche e geopolitiche: si tratta per esempio di quei conflitti che sorgono dallo scontro di due civiltà, che disputano in un territorio che si contendono, oppure di quei conflitti che, per la loro capacità di diffondersi o perché sono portatori di alti interessi, travolgono gli Stati vicini pur non essendone inizialmente coinvolti. Riguardo al primo contesto Zartman (2005) parla di “buffer states” in riferimento a quelle aree, zone o Stati neutrali che si trovano però tra due blocchi, poteri o addirittura civiltà contrapposte4. Il problema sorge quando questa stessa area è contestata da entrambe le parti, spesso a protezione del proprio territorio, per cui l’alternativa è fra una spartizione della zona o la dominazione completa di una delle parti. Riguardo al secondo contesto, gli autori parlano di “cattivo vicinato” in riferimento a quegli Stati terzi e vicini che intervengono nel conflitto e che hanno più interesse nel suo proseguimento, finendo per ostacolare ogni tipo di accordo. Si crea quindi una confusione fra chi è coinvolto nel conflitto e chi non le è.

Sempre Zartman osserva come un ulteriore fattore problematico sia l’intervento di parti esterne al conflitto, che si pongono come mediatori ma che manifestano tuttavia una parzialità nelle relazioni (biased mediator), dando quindi un giudizio non obiettivo. Nel tentativo di gestione, cercano di influenzare le parti verso i propri interessi e tentano di evitare l’intervento di mediatori che invece assumerebbero un ruolo di maggiore indipendenza e imparzialità.

L’intervento di una terza parte, seppure imparziale, potrebbe anche generare degli effetti comportamentali negativi in alcuni casi e aumentare quindi l’intrattabilità del conflitto. Ciò si verifica quando le parti adottano strategie per raggiungere i propri scopi senza avere l’intenzione di negoziare; le parti potrebbero incentivare fraintendimenti intenzionali per cui gli sforzi esterni per chiarire posizioni e interessi risultano inutili. In questo caso l’intervento di una terza parte fa emergere strategie

4 A un livello di analisi globale, in questo ambito si afferma l’ipotesi di Huntington (1996) di uno “scontro di civiltà” (clash of

civilizations) come causa di molti dei conflitti post guerra fredda. Secondo l’autore le incompatibilità che emergono nelle nuove guerre

traggono la loro origine nell’incontro/scontro fra culture diverse. La cultura è l’elemento a cui l’individuo più ricorre per definire la propria identità; per cui lo scenario politico internazionale che si è delineato dagli anni ‘90 mostra come aspetto centrale quello dello scontro fra gruppi di civiltà diverse.

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14 di doppio gioco.

Infine, in alcuni casi, una spinta eccessiva data da una o più parti esterne verso tentativi di accordo può paradossalmente creare una resistenza alla risoluzione.

In un secondo gruppo, sono analizzati i casi in cui l’intrattabilità viene raggiunta tramite politiche domestiche negative, poco efficaci o completamente assenti. Rientrano in questo ambito anche quelle politiche poco chiare e poco coerenti delle parti. Le maggiori problematicità si riscontrano nei casi in cui c’è una mancanza di responsabilità della leadership e nei casi in cui le strutture dei decision making sono deboli o assenti. Questi contesti diventano terreno fertile per quegli individui e quei gruppi che, approfittando della debolezza delle politiche interne, cercano di guadagnare potere, status o benessere. Di conseguenza s’istaura una lotta per il controllo del potere politico che potrebbe assumere la logica del “chi vince prende tutto”, allontanando le possibilità di accordo e ponendo il conflitto in una situazione di stallo.

Un ulteriore problema riscontrato nelle strutture politiche deboli è la loro difficoltà a mantenere gli accordi di pace perché hanno poca influenza diretta su coloro che rappresentano, rendendo quindi meno appetibile ogni tipo di negoziato. Inoltre leader deboli hanno anche poca influenza decisionale ai tavoli negoziali, non riuscendo a portare i propri interessi in maniera efficace.

Un’altra causa comune a molti dei conflitti intrattabili riguarda l’ambito socio-psicologico della leadership: Deutsch (2002) osserva come molte controversie fra gruppi non giungono a un termine perché sono alimentate da difficoltà interne al gruppo. I leader arrivano ad avere bisogno del conflitto esterno per mantenere la coesione interna o la propria autorità. Inoltre dopo aver intrapreso la strada del conflitto diventa difficile ritornare sui propri passi e ammettere che si è sbagliato: pur di non perdere la faccia e ammettere un errore, si richiedono maggiori sacrifici al proprio gruppo.

Una terza causa che determina l’aumento della complessità è rappresentata dalla presenza di forze politiche, militari e civili che traggono beneficio dalla guerra. In ogni guerra c’è qualcuno che ne trae un guadagno: è ciò che Zartman (2005) chiama la profittabilità del conflitto. Sono evidenti i casi di risorse che sono scambiate durante i conflitti, come diamanti e droghe, attraverso operazioni di contrabbando e altre pratiche illecite. Inoltre i governi valorizzano alcune risorse, come il petrolio, perché permettono il perseguimento del conflitto. Poi ci sono i casi di quelle aziende che aumentano la loro produzione nei periodi bellici, come i venditori di armi, e i casi di quei militari che guadagnano posizioni politiche di prestigio. Infine anche molti attori politici assumono e mantengono la propria leadership proprio grazie al conflitto, per esempio coloro che si fanno promotori di alcune rivendicazioni e di alcune identità.

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Quindi anche il contesto geopolitico, le scelte di politica interna e la profittabilità del conflitto sono elementi da considerare nell’analisi delle controversie intrattabili.

3. Caratteristiche dei conflitti intrattabili

Analizzando le caratteristiche dei conflitti intrattabili, Coleman (2000) crea una classificazione, comprendendo alcuni elementi già citati. Si tratta di caratteristiche che discriminano i conflitti trattabili da quelli di difficile gestione e che, secondo l’autore, sono presenti, in diversi gradi e in una connessione diversa tra di loro, in ogni conflitto intrattabile. Queste caratteristiche riguardano alcuni ambiti: il contesto, le issues centrali, la relazione, i processi e i risultati.

Il contesto in cui si sviluppano i conflitti intrattabili è spesso caratterizzato da squilibrio di potere e da instabilità, sono due caratteristiche che già abbiamo incontrato perché in alcuni casi sono alla radice dell’intrattabilità stessa, quindi possono esserne una causa. Si tratta di circostanze in cui un gruppo si afferma su un altro, o su altri gruppi, e sfrutta, controlla e abusa del suo potere (legacies of dominance and injustice). Spesso questa posizione gerarchica permette il perpetrarsi e il rinforzarsi dello squilibrio di potere. Molti di questi conflitti hanno un passato di colonialismo, etnocentrismo e razzismo. Ci sono inoltre contesti in cui un cambiamento sostanziale crea instabilità e quindi conflitto (instability). In questo modo nuove dispute emergono da cambiamenti nella bilancia dei poteri, quando cresce un senso di privazione rispetto alle proprie aspettative.

Riguardo alle issues, trattandosi spesso di dilemmi centrali dell’esistenza dell’uomo, del suo essere individuale e sociale, che non possono essere derogabili o trattabili, perché si tratta di opposti bisogni, tendenze, principi (human and social polarities), esse diventano ancora più pervasive nelle dinamiche del conflitto quando sono caricate di simbolismo e ideologia (symbolism and ideology). A questo scopo sono importanti le narrazioni che ciascuna parte costruisce intorno al conflitto, definendo ciò che è giusto, morale e indispensabile. Quindi nelle dispute sulle identità, il simbolismo ne diventa una caratteristica irrinunciabile.

Anche la relazione fra le parti, il terzo ambito, subisce un cambiamento quando è in atto una disputa intrattabile. In particolare Coleman afferma che il conflitto può generare tre conseguenze nelle interazioni.

La prima di queste comporta una riduzione al minimo dei contatti tra le parti, isolandole, anche all’interno delle strutture sociali, e favorendo lo sviluppo di stereotipi negativi dell’altro (exclusive and inescapable relationship). Tutto ciò comporta un’aspettativa di inevitabilità del conflitto e un aumento

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di sfiducia nell’altra parte. Quando a dominare sono la sfiducia e gli stereotipi ogni atto che conferma tale posizione viene esaltato mentre ogni comportamento che contrasta con l’immagine costruita dell’avversario viene dimenticato o visto con sospetto.

Una seconda conseguenza si osserva nella polarizzazione delle identità opposte (oppositional group identities) per cui esse costruiscono un’immagine della controparte completamente differente e in contrasto con la propria, l’immagine dell’in-group. Quando è l’identità di un gruppo, in particolare, a essere negata, il conflitto tende a persistere.

Un’ultima caratteristica che si delinea nella relazione, soprattutto quando il conflitto è sempre più complesso, è la difficoltà a identificare le motivazioni e i bisogni precisi in disaccordo (intense internal dynamics). Il senso di poca chiarezza anche all’interno del gruppo contribuisce allo sviluppo di comportamenti volti alla difensiva e alla segretezza.

Riguardo ai processi, Coleman individua tre elementi che caratterizzano i conflitti intrattabili. Il primo di questi sono le emotività forti (strong emotionality): solitamente i conflitti protratti sono carichi di fulcri emotivi pieni di umiliazione, frustrazione, rabbia, minaccia, e risentimento tra i gruppi che guidano le reazioni e ogni comportamento delle parti. Così ogni azione nel conflitto viene interpretata alla luce di strutture cognitive che riempiono questi sentimenti di significato.

Inoltre nei conflitti intrattabili s’istaurano alcuni processi sociali negativi (malignant social processes) che permettono il perpetrarsi di alcuni comportamenti. Tra questi vi sono per esempio quei processi di stereotipo, etnocentrismo, percezione selettiva, le profezie che si auto avverano e la rigidità cognitiva. Sono tutti processi che hanno come conseguenza ultima la disumanizzazione del nemico.

Un ultimo elemento che riguarda quest’ambito è la diffusione di questi processi in ogni aspetto della vita sociale dell’individuo (pervasiveness, complexity, and flux). L’esperienza dei conflitti intrattabili si diffonde e diventa pervasiva aumentandone la complessità.

Analizzando le conseguenze di tutti questi elementi, l’autore indica due risultati. L’esperienza di traumi protratti (protracted trauma) è il primo di questi e rappresenta un aspetto problematico dei conflitti intrattabili: la violenza che ne scaturisce provoca spesso la perdita diffusa di vite e molti danni alla proprietà. Agli elevati costi economici del conflitto, personali ma anche pubblici, come il costo della difesa, si aggiungono i costi, sociali e psicologici, non meno preoccupanti: la paura, la minaccia, l’odio, la rabbia, il senso di colpa sono tutti sentimenti di difficile gestione. Il radicamento di esperienze forti del conflitto genera una perdita di fiducia e di speranza, elementi che invece sono fondamentali per un cambiamento di direzione verso una migliore gestione delle relazioni.

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hostility and violence): tutto ciò che riguarda la controversia e le modalità in cui essa viene gestita sono percepite come ineludibili. In quest’ultimo aspetto viene sollevato da Coleman il problema della narrazione del conflitto, il modo cioè in cui quest’ultimo viene raccontato dalle parti. La costruzione della realtà conflittuale e violenta e la sua narrazione genera il proseguo intergenerazionale delle ostilità. In questo modo il conflitto intrattabile finisce per cadere in una trappola, dato che conduce le parti a distruggere se stesse e le cose in cui credono pur di difendersi, nello sforzo di eliminare la controparte (Burgess e Burgess, 2003).

Un’ulteriore caratteristica, analizzata da Crocker, Hampson e Aall (2005) e insita nei conflitti intrattabili, riguarda la difficoltà di intervento di parti terze, che spesso falliscono nel loro tentativo di gestione della disputa. L’intervento di attori esterni è diventato negli ultimi decenni un fenomeno frequente ma non sempre efficace e può non esserlo per diversi motivi.

Uno di questi risiede nella fallibilità del negoziato stesso. Ci sono dei casi in cui l’intervento esterno viene rifiutato dalle parti per cui è impossibile procedere con la negoziazione. In altri casi è proprio il negoziato a risultare inefficace. Questo può accadere perché gli accordi diplomatici sono inadatti, poco strutturati, poveri o difettosi oppure perché l’intervento di più parti esterne al conflitto non è sufficientemente coordinato e quindi risulta confusionario.

Un’altra motivazione risiede nell’incapacità di alcuni conflitti di attrarre l’attenzione della comunità internazionale. Ci sono dei conflitti, denominati “orfani”, che sono ritenuti talmente insignificanti dagli altri attori da non tentare nessun tipo di trattativa. A volte, seppure gli attori internazionali mantengano la relazione con le parti in conflitto, è la situazione conflittuale a non essere posta come priorità nelle azioni diplomatiche. Questo avviene perché l’attore esterno privilegia altri aspetti della relazione con le parti, spesso di natura economica, piuttosto che concentrarsi sull’analisi del conflitto.

Infine le parti esterne potrebbero avere un interesse strategico nella controversia; esse preferiscono quindi gestire il conflitto senza tentare di risolverlo. In questi casi la risoluzione diventa improbabile fino a quando tali interessi strategici non vengano meno.

Crocker, Hampson e Aall (2005) propongono un’ulteriore classificazione delle caratteristiche che distingue i conflitti intrattabili in tre categorie.

Nella prima sono distinti i conflitti interstatali da quelli che si svolgono all’interno di uno Stato. A livello numerico le guerre civili sembrano essere maggiori, ma i conflitti interstatali risultano essere più duraturi. Tuttavia, in particolare quando si tratta di conflitti intrattabili, la linea di demarcazione fra

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controversie interne e interstatali è molto labile5. Ciò si nota per esempio nei casi di guerra civile, in cui la sovranità dello Stato è contestata da una parte, oppure in quei conflitti interni in cui l’interesse alla crisi si estende oltre i confini dello Stato, coinvolgendo altri attori esterni. Questi ultimi potrebbero essere dei vicini regionali, ma anche degli Stati lontani che hanno un interesse geopolitico nel territorio. Una seconda categoria comprende i conflitti intrattabili attivi e prende come misura il livello di violenza e la persistenza dei combattimenti. Rientrano in questo gruppo quei conflitti definiti “caldi” in cui il ricorso alla violenza è piuttosto permanente e diventa una costante, anche se intervallato da pause. In questi casi spesso le parti eludono la risoluzione perché il costo di negoziare sembra essere maggiore del costo di combattere. Si tratta di conflitti che non hanno ancora raggiunto il momento di maturità, in cui le parti prendono seriamente in esame le trattative esplorando le proprie opzioni politiche e indirizzandosi verso relazioni più pacifiche (Crocker, Hampson e Aall, 2005). Infatti, i conflitti intrattabili attivi sono riconosciuti tali anche dalle parti.

Nella terza categoria rientrano invece i conflitti intrattabili in sospeso. In questo caso il ricorso alla violenza è interrotto, per l’intervento di un attore esterno o per volontà delle parti, tuttavia il conflitto non è ancora risolto. Spesso i conflitti in sospeso non sono maturi per una risoluzione perché le parti non hanno ancora sperimentato i costi di una relazione conflittuale in stallo. Attori esterni che garantiscano un eventuale cessate il fuoco possono essere determinanti nell’evitare il ricorso alla violenza.

Uno dei problemi principali, comune a tutti i conflitti intrattabili, nonostante le possibili differenze nelle cause e nelle caratteristiche di ciascuno, rimane quello della complessità che contribuisce ad allontanare ogni via d’uscita dalla controversia. Ci sono talmente tante problematiche e tanti attori che s’intrecciano in un conflitto che la sua risoluzione appare impossibile da raggiungere.

4. Livelli d’intrattabilità

Come abbiamo affermato in precedenza i conflitti intrattabili variano nei loro aspetti peculiari, nonostante le caratteristiche generali esaminate. Nello studio delle possibili differenze alcuni elementi, alcuni di essi già citati fra le cause o le caratteristiche, definiscono in particolare anche i diversi livelli

5 Edward Azar (1990) nella sua analisi sui conflitti sociali protratti rigetta invece una divisione netta fra conflitti domestici e conflitti

internazionali. Secondo l’autore la separazione fra politiche nazionali e internazionali è qualcosa di artificiale poiché esiste un solo ambiente sociale, e il suo volto domestico è quello più convincente. Il ruolo dello Stato risiede solamente nella capacità di soddisfare o meno i bisogni comuni, e solo in questo senso previene o promuove i conflitti. Quindi i conflitti sociali protratti giacciono principalmente all’interno degli Stati o attraverso di essi, più che tra di essi (vedere anche Ramsbotham, 2011, 99-104).

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d’intrattabilità, determinando lo scorrere del conflitto sul continuum che va dalla situazione più gestibile a quella più intrattabile della controversia.

Putnam e Wondolleck (2003) ne individuano quattro. In particolare, ogni conflitto presenta un diverso grado di controvertibilità, l’estensione della disputa che coinvolge e divide le persone. Il livello di controvertibilità è proporzionale al livello d’intrattabilità poiché le parti non riescono a gestire le proprie posizioni senza perdere la faccia. Gli elementi che definiscono la controvertibilità di una disputa sono anche il grado di polarizzazione e la distinzione tra in-group e out-group. Ciò è evidente nei conflitti etnici o di classe in cui l’appartenenza a un gruppo definisce ogni tipo di relazione e diventa difficile creare dei legami che si possano sovrapporre a quelli conflittuali.

Il livello d’intensità, il secondo elemento, può variare e riguarda il grado di emozionalità, coinvolgimento e impegno delle parti. Livelli intensi di conflittualità spesso conducono a episodi critici di difficile soluzione in cui gli interessati aumentano il loro impegno nella propria causa.

Un terzo elemento riguarda i livelli di diffusione del conflitto nella vita sociale e privata: a una elevata diffusione corrisponde un alto grado di difficoltà nel gestirlo. I conflitti più duraturi spesso permeano le istituzioni culturali, educative, politiche e sociali. Gli attori individuali e sociali finiscono per vedere ogni aspetto della loro vita legato alla controversia in atto.

L’ultimo elemento direttamente proporzionale al livello d’intrattabilità è il livello di complessità della disputa. Esso fa riferimento al numero e all’intreccio delle issues e delle parti in questione, al livello degli strati sociali coinvolti e alla difficoltà nella localizzazione delle arene del conflitto. In situazioni molto complesse diventa difficile comprendere il conflitto e quindi anche gestirlo. In questi casi anche l’informazione è confusa. Nessun livello sociale, interpersonale, intergruppo, e internazionale, da solo può gestire un conflitto di questo genere.

Nel giudicare il livello di trattabilità di un conflitto, Kriesberg (2003) propone altri quattro componenti della crisi in cui si può osservare il carattere mutevole della sua trattabilità.

Il primo di questi pone l’accento sulle identità e le concezioni che le parti hanno di se stesse e dei propri avversari. In generale il conflitto è ancora più intrattabile quando l’identità è definita in opposizione a quella della controparte, quando si considera l’altro gruppo inferiore o, ancor di più, lo si classifica come subumano. Quest’ultimo caso, in particolare, diventa una giustificazione per la distruzione dell’altro. Per cui a un alto livello di polarizzazione delle identità corrisponde un alto livello di intrattabilità.

La seconda componente riguarda le recriminazioni che le parti si fanno a vicenda, che in alcuni casi possono condurre il conflitto verso una maggiore intrattabilità. Per esempio, ciò avviene se una parte

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considera eccessivamente ingiusto un trattamento di oppressione e di abuso portato avanti dalla controparte, oppure percepisce minacciata la propria esistenza.

La terza componente comprende quegli obiettivi che, in conseguenza alle recriminazioni, una parte si impone con il fine di diminuirle. Questi obiettivi chiaramente contribuiscono a rendere il conflitto più complesso quando si ostacolano e sembra non possano scendere a compromesso.

Le modalità in cui le parti cercano di raggiungere i propri obiettivi rappresentano l’ultima componente del conflitto e ne influenzano il livello di trattabilità. Il conflitto è ancora più complesso da gestire se le parti pensano che l’avversario non possa cedere sui propri obiettivi e sia quindi capace di utilizzare anche atti di violenza nel tentativo invece di costringere la parte avversaria a farlo (Kriesberg, 2003).

5. La prospettiva dei sistemi dinamici

Come appena analizzato, numerose ricerche sono state condotte per analizzare i conflitti intrattabili nelle loro cause e caratteristiche particolari. Tuttavia è utile a questo punto un approccio che tenti di rendere lo studio più sistemico e organico, un approccio in cui ogni ricerca possa essere compresa e analizzata. La prospettiva dei sistemi dinamici, esaminata nell’articolo Rethinking Intractable Conflict. The perspective of Dynamical Systems, ha come scopo proprio quello di creare un resoconto teorico in cui analizzare i conflitti intrattabili, ponendo anche le basi per una modalità di gestione (Vallacher et al., 2010). In questo resoconto rientrano quindi quei processi e fattori comuni appena analizzati; tuttavia il punto di partenza è proprio lo studio della prospettiva dei sistemi dinamici perché vi è una pressione per un ordine di coerenza più alto che comprenda gli elementi idiosincratici dei conflitti intrattabili e che riesca a includere gli aspetti specifici di ogni caso.

In questa prospettiva6, il tentativo di risoluzione non si concentra sui temi particolari della disputa (ad esempio la scarsità delle risorse, gli aspetti ideologici, le disuguaglianze) ma piuttosto sul sistema e, in particolare, partendo dall’insieme coordinato delle dinamiche che perpetuano il conflitto, cerca di capire come “creare un differente stato coerente che comprenda relazioni positive tra le parti”. In questo resoconto rientrano, oltre agli studi specifici sui conflitti intrattabili, anche quegli approcci tradizionali allo studio del conflitto che si basano ad esempio sulle nozioni di potere, giustizia, competizione sulle risorse, identità. Si tratta di una prospettiva che trae le sue origini nelle scienze fisiche e matematiche e che identifica le dinamiche di processi inerziali che sono comuni a ogni sistema.

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Nella prospettiva dinamica è introdotto e risulta fondamentale il concetto di attrattore (attractor) per spiegare la genesi e la permanenza nel tempo dei conflitti intrattabili, nonostante le loro ripercussioni visibilmente nocive sulle società coinvolte. L’attrattore è ciò che guida ogni azione all’interno di un sistema e può essere descritto come un range ristretto di stati mentali e azioni che sono comunemente sperimentati dagli individui o dal gruppo (Vallacher et al., 2010). Quando si sviluppa uno stato mentale globale, esso resiste agli input che lo minacciano. In questo senso il concetto di attrattore è simile a quello di equilibrio e di omeostasi. Di conseguenza quando un sistema è governato da un attrattore, ogni evento lo condurrà verso lo stesso stato di cose, anche se quest’ultimo non è così piacevole e anche in presenza di spinte avverse.

Un attrattore è definito dalla sua forza di attrazione (o resistenza al cambiamento) e dall’ampiezza del bacino di attrazione (dalla quantità di stati che evolvono verso di esso). In particolare, un conflitto protratto riflette un bacino e una forza di attrazione ampi. La larghezza del bacino dei conflitti intrattabili indica che una numerosa quantità di pensieri, azioni e sentimenti convergono verso lo stesso stato del sistema. L’ampia profondità riflette invece l’inerzia del sistema quando il suo stato è governato dall’attrattore. In un conflitto intrattabile le parti resistono fortemente alle spinte opposte all’attrattore.

Il sistema in figura mostra come l’attrattore B abbia una forza maggiore dell’attrattore A, per cui se la palla si trova nel secondo bacino di attrazione è necessaria una maggiore spinta verso l’alto per farle cambiare bacino.

Supponiamo a questo punto che l’attrattore B corrisponda a una situazione conflittuale, è probabile che diventi presto protratto perché gli sforzi per trasformare il conflitto dovranno essere maggiori e più continuativi della forza di attrazione; se le azioni di pace si interrompono o non sono abbastanza forti (da risalire la collina), la situazione rimarrà invariata (la palla ritornerà inesorabilmente verso il basso).

Figura 2. Sistema dinamico con due attrattori

Immagine tratta da Vallacher (2010)

Il concetto di attrattore è efficace perché, a differenza di altre nozioni, come obiettivo, schema e attitudine, riesce a cogliere gli aspetti dinamici permettendo di inquadrare meglio le caratteristiche di un sistema. Inoltre spiega come, nonostante il conflitto non sia una situazione desiderabile, questo si

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mantenga nel tempo, anche con picchi di violenza alti. In un sistema organico, ogni informazione che contrasta con l’attrattore provoca una serie di eventi che tentano di indebolirla, perché l’attrattore fornisce coerenza nei pensieri e nelle azioni. Infatti, è molto probabile che, se questa coerenza è messa in dubbio o si indebolisce, un’informazione nuova, che la contrasterebbe ulteriormente, generi picchi di violenza nel tentativo di ristabilire la situazione conflittuale.

Per spiegare lo sviluppo di un attrattore negativo forte, gli autori affermano che nei contesti sociali benigni i vari comportamenti riflettono l’equilibrio tra feedback positivi e feedback negativi, per cui degli inibitori fungono da spinte opposte a elementi conflittuali. Tuttavia alcuni fattori contribuiscono a rompere l’equilibrio precedente e a favorire situazioni conflittuali; si tratta di fattori come l’equilibrio di potere, il livello d’interdipendenza, l’importanza dell’ideologia e dell’identità sociale, la natura delle risorse a somma zero. Quando un attrattore inizia a essere influente l’equilibrio fra i due feedback è scosso, a favore di quegli elementi che confermano lo stato proposto dall’attrattore e rendono meno o non influenti quegli eventi che invece lo indeboliscono.

In un conflitto intrattabile è difficile identificare l’attrattore che mantiene la situazione, perché un evento può essere interpretato in diversi modi che conducono a diversi significati. Tuttavia, secondo gli autori, il punto di partenza dell’analisi risiede proprio nelle caratteristiche del bacino e della forza di attrazione. In particolare può essere utile osservare quanto una situazione si mantenga nel tempo nonostante le informazioni contrastanti introdotte nel sistema.

L’analisi è ancora più complessa perché gli attrattori che agiscono a diversi livelli della realtà sociale, individuale, interpersonale e intergruppo, s’influenzano a vicenda a causa dei feedback tra i livelli di un sistema dinamico. Per esempio, un attrattore può sorgere in un livello interpersonale scaturito dallo squilibrio di potere fra gruppi, per poi generare attrattori che si sovrappongono a quello precedente, rinforzandolo, negli altri livelli psicologico-individuali. In questi casi il sistema perde la sua multidimensionalità, che rappresenterebbe i diversi livelli in cui si riproducono diverse percezioni, giudizi e azioni verso l’outgroup: le dimensioni non sono più separate ma seguono tutte lo stesso attrattore negativo. Infatti il conflitto permea tutte le dimensioni della vita sociale e individuale di un individuo; anche quelle che, in condizioni normali, sarebbero indipendenti, durante la controversia diventano mutualmente rinforzanti. Ciò non accade in un sistema in cui c’è equilibrio tra feedback positivi e negativi, giacché un evento conflittuale verrebbe compensato da un altro costruttivo in un’altra dimensione della relazione.

Nell’ultima parte dell’articolo, gli autori propongono una possibile strada di risoluzione per i conflitti intrattabili alla luce della teoria sui sistemi dinamici. In particolare vengono delineati tre scenari di

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23 risoluzione.

Nel primo scenario, partendo dalla comprensione della genesi dell’attrattore conflittuale si prosegue creando un attrattore diverso più benigno. Seguendo questa strada devono essere introdotti dei feedback che contrastino e indeboliscano la coerenza del sistema data dall’attrattore da sostituire. In questo modo gli individui diventano più vulnerabili al cambiamento e possono essere attratti da un sistema di coerenza diverso e meno conflittuale. L’introduzione di un attrattore differente (positivo) comporta il ristabilirsi della multidimensionalità del sistema, per cui le parti iniziano a interagire non più seguendo lo stesso schema di pensiero e di azione in tutte le dimensioni.

Un ulteriore scenario è dato dallo spostamento del sistema da un attrattore manifesto (quello distruttivo) a un attrattore latente (più costruttivo). Questi ultimi sono sicuramente invisibili alle parti, e possono esserlo anche ad attori esterni, ma diventano manifesti sotto alcune pressioni che poi spingono il gruppo verso il nuovo bacino di attrazione.

Nell’ultimo scenario assumono un rilievo quegli eventi che apportano cambiamenti qualitativi nel sistema. L’obiettivo è di agire sugli attrattori esistenti per promuovere il cambiamento nel numero e nel tipo di attrattori. Questi eventi per essere efficaci devono agire sui parametri di controllo del sistema, che riguardano appunto quelle variabili che possono produrre dei mutamenti che non siano solo quantitativi, ma soprattutto qualitativi.

Anche tralasciando la parte risolutiva proposta, la prospettiva dei sistemi dinamici offre un punto di partenza utile per l’analisi e la comprensione dei conflitti intrattabili in cui i pensieri e le azioni di ciascuna parte, rispetto alla parte avversaria, convergono sempre verso un ristretto range di possibilità di azione, nonostante le numerose proposte alternative. In questo senso gli attrattori di entrambe le parti sono molto simili rispetto alla loro valenza, in entrambi casi negativa (Coleman, Vallacher, Nowak, Bui-Wrzosinska, 2007).

L’analisi dinamica dei conflitti intrattabili emerge dalla più generale Teoria Sistemica, la quale esamina in modo alternativo e interdisciplinare i rapporti che si vengono a creare fra gli elementi di un sistema. Il prossimo capitolo è dedicato proprio all’analisi di tale teoria e della sua particolare applicazione allo studio dei conflitti. L’ultimo capitolo della seconda parte approfondisce nello specifico la dinamica sistemica dei conflitti intrattabili per creare un framework di analisi congruente ai nuovi conflitti sociali protratti.

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PARTE 2. APPROCCIO SISTEMICO ALL’ANALISI DEI

CONFLITTI INTRATTABILI

6. Teoria Sistemica

Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca sui conflitti e la pace, si è fatta strada l’utilità di adottare una visione sistemica delle situazioni conflittuali che sapesse tener conto della complessità dei conflitti violenti contemporanei, soprattutto di quelli intrattabili, e che sapesse comprendere i processi comportamentali non lineari. Questo filone di ricerca si rifà alla Teoria dei Sistemi (o Teoria Sistemica), ispirata alle scienze matematiche e fisiche, che analizza i sistemi sociali complessi.

Come afferma Coleman (2011 a), è stato dimostrato che circa un conflitto su venti (intorno al 5%) si trasforma presto in una disputa7 intrattabile, assumendo quindi le caratteristiche sopra citate che lo

rendono resistente a tentativi di risoluzione e finisca dunque per protrarsi nel tempo. La Teoria dei Sistemi cerca di studiare soprattutto questo tipo di problematiche, includendo teorie e modelli già consolidati, arricchendone tuttavia gli strumenti di analisi.

Prima di focalizzarsi sulle implicazioni dei conflitti intrattabili (nel capitolo 8), diamo uno sguardo al più generale pensiero sistemico cercando di offrire strumenti per comprenderlo. Scopo della Teoria Sistemica è quello di osservare la realtà nel suo insieme, da un punto di vista olistico, senza cadere nell’errore di tenere separate le parti di un evento.

Considerare la realtà come un sistema significa osservarla come un insieme di elementi che interagiscono fra loro, fino a creare qualcosa che supera la semplice somma delle parti. La Teoria dei Sistemi studia quindi la realtà nella sua completezza, integrità e complessità. È un approccio che trae la sua origine nelle scienze matematiche e fisiche.

Esistono vari tipi di sistemi che prendono in esame dimensioni diverse della realtà: ad esempio quelli biologico, sociale, cognitivo, ed ecologico. In ogni caso il sistema può essere analizzato a partire dalle sue componenti, aventi una relazione fra loro di diversa intensità, per cui il comportamento di una di esse dipende dal comportamento delle altre.

7 Siamo consapevoli dell’esistenza di un dibattito in corso intorno ai concetti di “disputa” e ”conflitto”, poiché ritenuti da alcuni studiosi

rappresentativi di realtà non assimilabili, e quindi non identificabili come sinonimi. In questa sede, per semplicità di trattazione, essi sono tuttavia utilizzati come sinonimi.

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