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Il confronto finale

2. Elementi prefatori nel Thyestes

5.1 Il banchetto

5.1.4 Il confronto finale

Atreo si rivolge finalmente al fratello. I suoi discorsi continuano a essere densi di anfibologia, ed egli prosegue nel plasmare il linguaggio godendo del proprio potere. Già dal primo verso con cui si presenta a Tieste in questo atto emerge tale caratteristica (vv. 970-2): Festum diem, germane, consensu pari / celebremus: hic est, sceptra qui firmet mea / solidamque pacis alliget certae fidem.279 Festum diem e celebremus riprendono la sfera sacrale su cui spesso gioca l’anfibologia di Atreo: Tieste ancora non sa di quale

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“e geme il petto di un gemito non mio.”

277

“cade una pioggia di lacrime / e il volto la rifiuta”

278 “Mi ha preso la sazietà del cibo non meno del vino”

279 “Celebriamo questo giorno di festa, fratello, / con pari consenso: questo è il giorno che rafforzerà / il

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celebrazione sta parlando Atreo, ma ritiene che si riferisca ai festeggiamenti per la riconciliazione. Sempre in questa direzione si può intendere consensu pari che sottolinea l’accordo che Atreo ritiene di aver ricevuto da Tieste a partecipare al rito in qualità di vittima sacrificale. Infine l’anfibologia è palese quando Atreo sostiene che per lui è giunto il giorno che gli assicura il potere. A Tieste lascia pensare che ciò sia dovuto alla pace ristabilita, mentre egli sa di aver annientato il suo unico potenziale nemico insieme con la sua stirpe.

L’anfibologia pervade in misura ragguardevole anche il suo successivo intervento (vv. 976-83):

Hic esse natos crede in amplexu patris. Hic sunt eruntque; nulla pars prolis tuae Tibi subtrahentur. Ora quae exoptas dabo Totumque turba iam sua implebo patrem. Satiaberis, ne metue. Nunc mixti meis Iucunda mensae sacra iuvenilis colunt; sed accientur. Poculum infuso cape gentile Baccho.280

Notevole è l’abilità retorica con la quale Atreo raggiunge l’anfibologia: per esempio al verso 978 ora quae exoptas dabo, il tiranno lascia intendere al fratello che egli stia utilizzando una sineddoche, quando invece sta parlando in senso letterale. Un’altra sottile

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“Che i tuoi figli sono qui stretti nell’abbraccio del padre / ritienilo cosa sicura. Qui sono e ci staranno; / nessuna porzione della tua prole ti verrà sottratta. / Ti darò i volti che brami / e tutto il padre riempirò della sua stirpe. / Sarai saziato, non temere. Ora insieme ai miei figli / onorano i giocondi riti di un banchetto di giovani; / ma saranno fatti venire. / Prendi questa coppa dei nostri avi, /colma di vino.”

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ambiguità si gioca su poculum gentile: Tieste crede che Atreo gli offra una coppa appartenente alla loro famiglia, mentre Atreo si diverte nell’anticipargli il contenuto di quella coppa, il sangue della sua gens, dei suoi figli. Che l’offerta sia nefasta si comprende anche dal ritorno di cape che Atreo ha usato al v. 525 quando ha offerto a Tieste gli ornamenti regali che lo hanno portato alla rovina. Anche la parola con cui Tieste accetta la coppa nefasta, capio, è eco della sua prima sconsiderata ricezione della corona offerta da Atreo (v. 542 accipio).

Tieste ripercorre a questo punto un destino da vittima simile a quello dell’ombra di Tantalo nel prologo. Prima non riesce a bere perché il liquido rifugge le sue labbra come l’acqua del Tartaro quelle di Tantalo. Poi, venuto a conoscenza della tragica sorte dei figli, prova il desiderio di rifugiarsi nel Tartaro, come l’avo di fronte alle empie intenzioni della Furia.

Così Tieste descrive la propria subitanea impossibilità a bere (vv. 983-9):

Capio fraternae dapis

Donum. Paternis vina libentur deis,

tunc hauriantur – sed quid hoc? Nolunt manus parere, crescit pondus et dextram gravat; admotus ipsis Bacchus a labris fugit circaque rictus ore decepto fluit, et ipsa trepido mensa subsiluit solo.281

281

“La prendo come dono / del banchetto fraterno. Si libi il vino agli dei della stirpe, / e poi si beva sino in fondo la coppa, ma che succede? Le mie mani / non vogliono obbedire, cresce il peso e grava la destra; / il vino avvicinato alle labbra da esse rifugge / e gronda giù intorno alla bocca spalancata, / e delude il suo aprirsi, / e la mensa stessa sussulta e il suolo ha tremato.”

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Riferimenti al banchetto sono dapis, mensa, ma anche libentur, infatti, come già detto, la libagione segnava anche la fine del banchetto.282 Torna ancora una volta il lessico familiare a sottolineare l’orrore di un tale delitto rivolto contro la propria famiglia. Nolunt manus riprende il tema della coercizione operata dal tiranno, mentre ipsis a labris è una evidente ripresa dal prologo in riferimento alla pena di Tantalo: labrisque ab ipsis (v. 69). Rictus è lessico appartenente alla sfera semantica animale che Tieste continua a utilizzare nei propri confronti. E’ interessante accostare ore decepto a una precedente descrizione di Atreo mentre compiva l’uccisione sacrificale: ore violento (v. 692). Gli aggettivi riferiti allo stesso termine sono decisamente diversi e indicano la differenza che intercorre tra i fratelli: mentre Tieste è l’ingannato, Atreo è un feroce vendicatore e maestro di inganni. Viene descritto poi da Tieste il rifiuto da parte dell’universo di una tale empietà. Ciò spinge Tieste a temere per la sua famiglia, compreso il fratello, e a offrirsi come vittima degna su cui far sfogare la furia degli dèi pur di salvare i cari. Chiede quindi sempre più insistentemente di vedere i figli, anche perché sente le proprie viscere rivoltarsi e un suono venire da dentro. Atreo allora fa entrare dei servi con le teste e gli arti mozzati dei suoi nipoti nella nota scena dell’agnizione (vv. 1004-6): AT: Expedi amplexus, pater; / venere. Natos ecquid agnoscis tuos? / TH: Agnosco fratrem.283

Tieste poi si chiede come faccia a sopportare una tale mancanza di lealtà la terra e perché lui e Atreo non siano nel posto che più compete loro, nel Tartaro al fianco del padre della stirpe Tantalo. Persino la reazione di Tieste è sottomessa: infatti chiede al fratello di poter seppellire i suoi figli senza nuocere alla gravità del delitto (vv. 1026-7): scelere quod salvo dari / odioque possit284.

Il controllo totale di Atreo può proseguire perché a Tieste non è ancora stato svelato l’elemento più empio del crimine, l’antropofagia, quindi Atreo può continuare a godere della sua ignoranza (vv. 1030-1): Quidquid e natis tuis / superest habes, quodcumque non superest habes.285 Alla domanda di Tieste che vuole sapere in che modo si sia liberato dei

282

Virg. Aen 1. 736-7

283

“Atreo: Prepara ad abbracciarli, padre; / sono venuti. Riconosci i tuoi figli? / Tieste: Riconosco mio fratello.”

284 “prego quello che si può concedere / senza che spariscano il crimine e l’odio”. 285

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corpi dei suoi figli finalmente Atreo dà una risposta terribilmente chiara (v. 1034): Epulatus ipse es impia natos dape.286 La centralità del banchetto e la sua importanza viene resa in questo verso coinciso con il termine di apertura e quello di chiusura del verso, epulatus e dape: Tieste non ha solo mangiato i suoi figli, ci ha banchettato festeggiando e provando gioia nel farlo.287 La disposizione delle parole rende la situazione drammatica: impia e dape racchiudono natos come Tieste racchiude i propri figli a causa di questo banchetto sacrilego.

Tieste reagisce con una dubitatio: egli, contrariamente ad Atreo, non è affatto maestro del linguaggio e non sa che parole trovare per esprimere la grandezza di ciò che gli è successo, caratterizzando ancora una volta la propria persona con l’incertezza e l’incapacità (vv. 1036-7): Quas miser voces dabo / questusque quos? Quae verba sufficient mihi?288

L’orrore di Tieste continua (vv. 42): hoc est quod avidus capere non potuit pater. / Volvuntur intus viscera et clusum nefas /sine exitu luctatur et quaerit fugam289. La scelta dei termini rimanda precisamente a Tantalo, pater della stirpe e avidus per eccellenza, tanto che è così che si presenta al verso 2 della tragedia: avido ore. Torna ancora il verbo capere, usato in precedenza da Atreo e Tieste con differente significato, ma sempre con sfumatura nefasta.290 Anche l’uso del termine viscera è significativo e rimanda alla sfera sacrale: infatti viscera era la parte della vittima destinata al consumo da parte degli uomini, oltre a significare le interiora umane. Quindi i figli di Tieste sono da lui identificati ora sia come umani che come vittime sacrificali. Anche in precedenza, quando Tieste costatava la repulsione della natura, ammetteva di sentire uno sconvolgimento dentro di sé e utilizzava lo stesso termine viscera (v. 99 ): Quis hic tumultus viscera exagitat mea?291 L’ironia risiede nel fatto che viscera mea oltre a indicare l’interno del corpo di Tieste, può anche significare la carne sacrificale (viscera) dei suoi figli, che ora

286

“Sei tu che hai mangiato i tuoi figli in un banchetto sacrilego.”

287 Cf. v. 278 gaudensque 288

“quali voci emetterò, / quali lamenti? Quali parole mi basteranno?”

289

“questo è quello che il padre, pur avido, / non potè contenere dentro di sé. / Si rivoltano le loro viscere dentro le mie / e l’empio misfatto chiuso dentro di me lotta / senza uscita e cerca la fuga”.

290 Cf. supra. 291

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risiede dentro di lui.292 La carne dei figli (viscera) si trova nelle viscere (viscera) di Tieste. Questa commistione è riflesso del tema della confusione dei livelli e della stirpe che ha percorso tutta l’opera, diretta conseguenza del superamento di ogni limite messo in atto da Atreo.

Tieste chiede al fratello la spada per uccidersi, ma non ottiene neanche questa. Tieste, come il messaggero, non riesce a credere di trovarsi tra popoli civilizzati, quando questo delitto sarebbe immane persino per i barbari. Ma Atreo dà mostra di non essere ancora soddisfatto: avrebbe preferito far bere al fratello il sangue dei figli ancora vivi direttamente dalle loro ferite, di modo che tutti sapessero cosa stava accadendo loro e soffrissero maggiormente. Tieste si appella agli dèi, di cui constata la fuga, chiede a Zeus di essere fulminato in modo da poter cremare i propri figli, ma il cielo non risponde e le preghiere sono inutili. Finalmente Atreo è soddisfatto del dolore del fratello ed è anche convinto di aver ristabilito la propria mascolinità e la paternità certa all’interno della sua stirpe. Crede di aver solamente anticipato Tieste nel delitto e crede che il fratello non avrebbe esitato se gli avesse lasciato il tempo e soprattutto se non avesse temuto che i figli di Atreo fossero in realtà figli suoi. Tieste prova ad affidarsi agli dèi della vendetta, nonostante abbia riconosciuto già che gli dèi sono fuggiti al cospetto di una tale empietà (vv. 1110-2): TH: Vindices aderunt dei; his puniendum vota te tradunt mea. /AT: Te puniendum liberis trado tuis.293

Così si conclude la tragedia, scrive Boyle: “The play does not so much end as stop”.294

Forse con vindices dei Tieste fa riferimento alla Furia e al proseguire della catena dei delitti che coinvolgerà gli Atridi. Però Tieste si rivolge direttamente contro Atreo con te e non vos, quindi è più probabile che questo suo affidarsi agli dèi dopo averne riconosciuto l’assenza sia l’ennesimo esempio della sua incostanza e impotenza, Seneca sembra differenziarsi dalla versione del mito di Accio che forse prevedeva una rivolta popolare ai danni di Atreo alla fine della tragedia.295 Ciò è testimoniato dall’assenza di qualsivoglia

292

Cf. Ag. 29 exedi viscera mea.

293

“TIESTE: Vendicatori si presenteranno gli dei; / a loro perché tu sia punito ti consegnano le mie preghiere. ATREO: Ma perché tu sia punito io consegno te ai figli tuoi.”

294 Boyle, p. 452. 295

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riferimento a quest’evento nel corso dell’opera e soprattutto dall’Agamennone, altra tragedia dello stesso Seneca, nel quale si trova l’ombra di Tieste, ancora invendicata. In questa tragedia Atreo dimostra il proprio controllo verbale e la propria superiorità fino all’ultimo verso, con il quale rovescia le parole usate da Tieste contro di lui, vincendo anche l’ultimo scontro verbale.

5. 2 Conclusioni

L’ultimo atto del Thyestes mette in scena l’ultima fase del sacrificio, il banchetto. I riferimenti al banchetto sono continui nell’atto e la conclusione di esso, la libagione agli dèi, è momento climatico. Come il resto del rituale anche il banchetto è empio e sovverte un’importante base sociale e civile di condivisione. Prima di tutto il cibo servito è il più empio immaginabile: carne umana, di fanciulli, servita al loro stesso padre. Inoltre il rovesciamento del banchetto è compiuto facendolo consumare al solo Tieste, mentre il banchetto era l’istituzione che nel mondo antico stabiliva i legami nella comunità. Atreo trasforma uno strumento di socialità in uno di isolamento.

Il legame tra la struttura del sacrificio romano e quella del Thyestes è sottolineato dal fatto che entrambe pervengano alla medesima conclusione, alla libagione conclusiva del banchetto, al termine del quale può infine dirsi concluso anche il rito di Atreo e della Furia, iniziato con il prologo.

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Conclusioni

Caratteristica peculiare di Atreo nel Thyestes di Seneca è il superamento dei limiti che gli deriva dall’ispirazione demoniaca della Furia. La confusione di livelli e lo sconvolgimento dell’intero ordine naturale è diretta conseguenza di ciò, e avviene in una forma particolare: la ciclicità in perpetuo peggioramento che si riflette nel gioco di specchi dato dal ripetersi negli atti di scene parallele in crescendo.

La confusione di livelli pervade la tragedia e ha varie declinazioni. Innanzitutto Atreo non rispetta l’ordine gerarchico naturale che vede al suo vertice il mondo divino, poi quello umano e infine animale. Questo ordine si riflette comunemente nel sacrificio: gli uomini sacrificano gli animali per ottenere il favore degli dèi. Atreo invece arriva a uccidere esseri umani per ottenere il proprio favore e piacere, sovvertendo l’ordine naturale e cosmico (fas). Atreo contagia di sé ogni livello della chain of being divenendo paradossalmente sia bestia che dio. Inoltre assomma su di sé tutti i ruoli propri del sacrificio: offerente, dedicatario e addirittura vittima in quanto sacrifica la propria famiglia. Ma l’empia confusione che Atreo genera non risparmia nemmeno le istituzioni umane. Infatti negli ultimi tre atti Atreo sovverte le fondamenta alla base della civiltà, rispettivamente l’incoronazione (l’ordine politico), il sacrificio (l’ordine religioso) e il banchetto (l’ordine sociale). I riti sociali su cui si è basata l’umanità sono stati trasformati in strumenti di orrore e sottomissione.

Questa tesi ha provato a dimostrare che tale catastrofico rivolgimento non sia altro che il risultato del rito che la Furia ha prodotto attraverso Atreo, e che il Thyestes sia un succedersi di diversi momenti di uno stesso rito che scaturiscono l’uno dall’altro.

Più volte questa tragedia è stata accusata di non avere una sua unità strutturale, ma di essere semplicemente composta da quadri giustapposti. Secondo questa lettura invece, sono stati messi in scena organicamente i momenti costitutivi del rituale sacrificale: processione, praefatio, immolatio, uccisione e banchetto, con riferimenti anche alla probatio, all’extispicina e alla litatio. Non si tratta di quadri separati, ma di fasi, come riconosce anche il messaggero (vv. 476-7): Sceleris hunc finem putas? / Gradus est. La tragedia è resa compatta dal costante riferimento del lessico e dell’azione drammatica al

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mondo rituale religioso e dal fatto che ogni fase è possibile solo come conseguenza dell’altra. Il risultato finale è lo sconvolgimento ottenuto da un rito empio perfettamente eseguito, atto fondante di un nuovo mondo basato sul nefas.

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