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L’ispirazione demoniaca

2. Elementi prefatori nel Thyestes

2.1 La struttura del II atto

2.2.3 L’ispirazione demoniaca

I due riprendono a discutere della vendetta finché Atreo non cade preda dell’ispirazione divina, l’enthusiasmòs greco:

SAT: Quonam ergo telo tantus utetur dolor? AT: Ipso Thyeste. SAT: Maius hoc ira est malum. AT: Fateor. Tumultu pector attonitus quatit Penitusque volvit; rapior et quo nescio, sed rapior. – imo mugit e fundo solum, tonat dies serenus ac toti domus ut fracta tectis crepuit et moti lares vertere vultus: fiat hoc, fiat nefas

quod, di, timetis. SAT: Facere quid tandem paras? AT: Nescioquid animus maius et solito amplius Supraque fines moris humani tumet

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VV. 248-53: “GUARDIA: Non ti muove nessuna pietà?/ AT: Pietà vattene, se pure una volta sei stata nella nostra casa./ Venga la funesta schiera delle Furie/ E l’Erinni della discordia e Megera/ Che scuote le duplici fiaccole: non è abbastanza grande il furore/ Che brucia il mio animo, è bene che si riempia/ Di una mostruosità più grande.”

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Instatque pigris manibus – haud quid sit scio, sed grande quiddam est. Ita sit. Hoc, anime, occupa (dignum est Thyeste facinus et dignum Atreo, quod uterque faciat)111

Atreo giunge alla conclusione di utilizzare lo stesso Tieste come mezzo della sua vendetta, a una simile conclusione arriva nell’Hercules Furens Giunone che capisce che l’unico modo per vendicarsi di Eracle è utilizzare Eracle stesso112. Dopo questa idea Atreo viene rapito dall’ispirazione divina, o piuttosto demoniaca. Rapior è un verbo tipicamente usato per esprimere tale forma di invasamento, possessione.113 Che Atreo sia portato oltre i limiti umani è reso evidente dai versi successivi che esprimono la mancanza di comprensione connaturata alla deficienza insita nello spirito umano: rapior et quo nescio, sed rapior… nescioquid… supraque fines moris humani… haud quid sit scio. Atreo è posseduto: il rito della Furia è riuscito.

Questa possessione genera una reazione nella natura: lo sconvolgimento dell’ordine naturale è uno dei temi ricorrenti nella tragedia. La terra rimbomba dalle sue profondità, il palazzo sembra crollare e tuona a ciel sereno. Sembrano tutti chiari presagi di sventura, ma quest’ultimo elemento genera qualche perplessità. Dalle testimonianze antiche risulta chiaro che un fulmine a ciel sereno era considerato un prodigio, ma il suo status era ambiguo. È un presagio di vittoria per Svetonio (Aug. 95), ma più avanti nello stesso Svetonio (Aug. 97. 2) è un presagio di morte, come anche in Tit. 10. 1.114 Di base si può dire che la brontoscopia latina riteneva un fulmine a ciel sereno un presagio favorevole

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Vv. 258-72: “GUARDIA: Di che arma si servirà un odio così grande?/AT: Di Tieste stesso. GUARDIA: Questo è un male più grande dell’ira che lo provoca./ AT: Lo ammetto. Un tumulto sbigottito scuote il mio cuore,/ e lo rivolge fin nel profondo;/ sono trascinato via e non so dove,/ ma sono trascinato via. – Il suolo rimbomba/ dalle sue profondità più riposte,/ tuona il giorno sereno e la casa scricchiola/ come spaccata in ogni sua parte/ e i Lari turbati volgono il loro viso: si compia, si compia/questo sacrilegio che, o dei, voi temete-/ GUARDIA: Ma, alla fine, che cosa ti appresti a fare?/AT: Non so cosa sia, ma il mio animo/ Si gonfia di qualcosa di più grande e smisurato del solito/ E al di là dei limiti della natura umana/ E sta addosso alle mie mani inerti – non so cosa sia,/ ma è qualcosa di enorme. È così, animo mio, afferralo/ (è un atto degno di Tieste e degno di Atreo,/ che entrambi lo compiano!)”

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HF 86-112

113 Cf. Ovid. Met. 8. 481; Sen. Ag. 720-2.

114 Cf. anche Cic. De div. 1. 18; Hor. Carm I. 34, 5-8; S. I.I.13, Festo 285 (Lindsay); Serv. ad Ge. I. 487; Plut

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qualora la sua potenza non producesse effetti distruttivi e qualora si verificasse sul lato sinistro.115 Seneca sostiene anche che, semplicemente, un fulmine a ciel sereno è portatore di pioggia e tempesta.116 In tale contesto di presagi inferi però, un fulmine in un cielo limpido sembra essere solo un altro sconvolgimento dell’ordine del mondo, ma quest’ambiguità era degna di essere segnalata.

A seguito dell’invasamento Atreo riesce infine a concepire la propria vendetta: fiat hoc, fiat nefas/ quod, di, timetis.117 Quest’esclamazione ha delle caratteristiche paragonabili a quelle della Furia nel prologo, quali lo stato di smaniosa eccitazione che il demone manifesta con le proprie ripetizioni (vv. 101-2: hunc, hunc…sic, sic…)118, ma anche il riferimento al nefas di Tracia (v. 56: Thracium fiat nefas). Diventa chiaro a questo punto che la possessione di Atreo è la buona riuscita del rito della Furia svoltosi nel prologo. Ciò è già anticipato dal v. 262 imo mugit e fundo solum in quanto i rimbombi della terra – resi anche dall’allitterazione del verso – sono spesso associati a violazione e rovesciamento delle norme che regolano l’universo e all’emergere di figure infernali sulla terra, come Tantalo in questo caso.119 Inoltre Atreo, in un momento di invasamento, di ispirazione divina – in questo caso demoniaca – ha proprio l’idea che la Furia auspicava di generare e di ispirargli per il tramite di Tantalo, il nefas Thracium. Infatti nei versi seguenti Atreo, spiegando il suo piano al satelles, invoca per ottenere l’ispirazione finale e ulteriore assistenza Daulis parens sororque, la madre e la sorella della Daulide, Procne e Filomela, protagoniste del noto mito.120

In questo passo, in cui Atreo concepisce il suo piano, torna anche il lessico familiare generico usato dalla Furia nel prologo (parens, soror, liberos, pater):

vidit infandas domus

Odrysia mensas – fateor, immane est scelus, sed occupatum: maius hoc aliquid dolor

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Cf. Ser. Ad Ae. 293. Sul fulmine come presagio favorevole cf. anche Virg. Aen. 2. 693; 7. 141-2 e 9. 630- 1; Cic. De Div. 2. 82; Ov. Fas. 3. 369; Staz. Thebais 5. 86-7. In materia cf. anche S. Curletto; La norma e il suo

rovescio, pp.25-6 e 31 ss. 116

Sen. NQ 2. 27, 1-2

117

Vv. 265-6: “si compia, si compia questo sacrilegio che, o dei, voi temete.”

118 Per l’uso enfatico della ripetizione per rendere lo stato d’eccitazione cf. Med. 423-4. 119 Cf. Tro. 171-2; Oed. 173, 576-7 Verg. Aen. 4.490.

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inveniat. Animum Daulis inspira parens sororque; causa est similis: assiste et manum impelle nostram. Liberos avidus pater

gaudensque laceret et suos artos edat.

Bene est, abunde est: hic placet poenae modus Tantisper.121

Il brano rivela una preoccupazione di Atreo che percorre tutta la tragedia: il suo ossimorico oscillare tra volontà di originalità e necessità di ripetizione.

Inoltre ci sono ancora diversi rimandi al prologo. Atreo caratterizza Tieste con l’aggettivo avidus che lo identifica con il loro avo, infatti Tantalo si definisce in apertura di tragedia avido fugaces ore captantem cibos (v. 1), colui che prova ad afferrare cibi con bocca avida. Il confronto è sostenuto anche dal fatto che Atreo lo chiama pater, così come Tantalo è, ideologicamente e fisicamente, il pater di tutta la stirpe. Alla fine della tragedia, una volta appresa la terribile sorte dei suoi figli, Tieste definirà sé stesso con identiche parole, avidus pater (v. 1040). La sovrapposizione continua di Tantalo con i suoi discendenti – talvolta con Atreo, talvolta con Tieste – è tematica: centrale è il ruolo che ricopre nella tragedia sia la commistione di questa particolare stirpe, sia l’ereditarietà del male che la caratterizza.

Il termine mensa è già comparso in bocca alla Furia (v.64) come anche espresso dal coro in riferimento alla vicenda del banchetto di Tantalo (vv. 146-7). Ugualmente abunde, pronunciato da Atreo, è ripreso dal discorso dell’entità demoniaca del prologo al verso 105 che segna la riuscita del rito, il cui buon esito ha concesso l’ispirazione nefasta che ora soddisfa Atreo.

Questo confronto continua anche nei versi successivi (vv. 280-1): ubinam est? Tam diu cur innocens| servatur Atreus?122 Uno smanioso Atreo si pone delle domande ancora con la stessa impazienza della Furia ai versi 57-9.

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Vv. 272-80: “mense indicibile vide la casa Odrisia – lo ammetto, è un delitto disumano, ma già vi hanno messo sopra le mani: il mio odio escogiti qualcosa di più grande. E voi, madre e sorella della Daulide, ispiratemi l’animo; la causa è simile, statemi accanto e spingete la mia mano. Il padre avido godendo sbrani i suoi figli e divori le membra che sono sue. Va bene così, è abbastanza: mi piace questo limite della sua pena, per ora.”

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Atreo già pregusta la vendetta e si spinge all’azione: anime, quid rursus times! Et ante rem subsidis? Audendum est: age (vv.283-4)123. Da notare, oltre all’ennesima ripresa dal prologo (age v.24), una tipica caratteristica dei personaggi senecani: la periodica necessità del rinforzo della propria volontà per spingerla a compiere ciò che si vuole fare, per spingerla oltre.124 Nei versi successivi Atreo rivela la peculiarità del suo piano: quod est in isto scelere praecipuum nefas,/ hoc ipso faciet125. Nonostante sia stato Atreo a macchinare il tutto, sarà Tieste a macchiarsi oggettivamente del nefas maggiore: aver mangiato i propri figli, terribile atto contro natura, per quanto commesso involontariamente. Tieste è un colpevole incolpevole sotto questo punto di vista, inconsapevolmente empio.

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