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Il rituale del sacrificio perverso nel Thyestes di Seneca

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Academic year: 2021

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1

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA E STORIA

DELL’ANTICHITÁ

TESI DI LAUREA

Il rituale del sacrificio perverso nel Thyestes di Seneca

CANDIDATO

RELATORE

Marco Bonavia

Chiar.ma Prof.ssa Elena Rossi Linguanti

SECONDO RELATORE

Chiar.mo Prof. Alessandro Russo

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Il rituale del sacrificio perverso nel Thyestes di Seneca – Marco Bonavia

INDICE

Introduzione………5

1. Il prologo come processione……….19

1.1 Il rito sacrificale………19

1.1.1 Il sacrificio pubblico romano……….19

1.1.2 Il prologo del Thyestes……….. 20

1.1.3 La processione del prologo………21

1.2 Confronto con la lustratio agri di Catone………25

1.2.1 Confronto contenutistico………...27

1.2.2 Confronto strutturale………..28

1.2.3 Confronto stilistico………33

1.3 Una processione empia……….34

1.3.1 L’empietà del rito………..35

1.3.2 Il dedicatario del rito………..37

1.4 Conclusioni.………...37

2. Elementi prefatori nel Thyestes………...40

2.1 La praefatio………..40

2.1 La struttura del II atto………...42

2.2.1 I richiami al prologo………..43

2.2.2 Il dialogo col satelles……….44

2.2.3 L’ispirazione demoniaca………45

2.2.4 Il coinvolgimento dei figli……….49

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2.3.1 La preghiera di Medea………...50

2.3.2 La praefatio di Atreo……….52

2.3.3 Riferimenti sacrali e rituali………53

2.3.4 L’assenza del vino e dell’incenso………..57

2.4 Conclusioni………...57

3 L’incoronazione di Tieste come immolatio………..59

3.1 L’immolatio………..59

3.2 Il terzo atto………60

3.2.1 La prima scena: il personaggio di Tieste………...61

3.2.2 La seconda scena………...67

3.2.3 L’ironia nel III atto: il sacrificio incombente………73

3.2.4 La metafora della caccia e la confusione tra i livelli……….78

3.3 L’incoronazione-immolazione di Tieste………...82

3.4 Conclusioni

4. Il furioso sacrificio di Atreo……….87

4.1 Il quarto atto: il discorso del messaggero……….87

4.1.1 Il penetrale regni: l’Ade sulla terra………...89

4.1.2 Un rito senza dèi: l’uccisione sacrificale di Atreo……….91

4.1.3 La continua metafora della caccia e la cottura delle carni……….99

4.2 Conclusioni

5. Il banchetto empio di Tieste………...102

5.1 Il banchetto……….102

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4

5.1.2 L’interno del palazzo: Tieste a banchetto………105

5.1.3 Il canto di Tieste………..107

5.1.4 Il confronto finale………109

5.2 Conclusioni……….115

Conclusioni……….…...116

(5)

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Introduzione

Il Thyestes di Seneca è un’opera che si presta a molte letture diverse. Politica, metateatrale e, ovviamente, religiosa. Che la religione, e più nello specifico, il rituale sia al centro dell’opera è evidente: il dramma ruota intorno all’omicidio dei nipoti di Atreo che si svolge precisamente come un rito sacrificale. L’attenzione che ha Atreo nel compiere tutto rite è riflesso di una preoccupazione di Seneca e non si trova solamente nel quarto atto, quello in cui viene narrato il sacrificio. Infatti tutta l’opera è costellata di riferimenti al sacrificio e il lessico sacrale ha un peso importante in essa.

La tesi di questo lavoro è che l’intera tragedia sia un unico rituale sacrificale che va compiendosi nelle sue fasi, dalla processione iniziale fino al banchetto finale. La messa in scena, le scelte drammaturgiche e di lessico evidenziano la preoccupazione di riproporre situazioni ed elementi rituali nel corso dell’opera.

Seneca pone all’inizio di questa tragedia la figura della Furia, demone che dà il via all’opera, ma soprattutto al rituale, evocando dagli inferi l’ombra di Tantalo per contaminare la sua discendenza e con essa la terra tutta, rendendo possibile il nefas. Infatti il valore rituale ottenuto in questo modo è rovesciato dall’empietà di mezzi e finalità che caratterizzano il rito altrimenti perfetto dal punto di vista della liturgia. All’alba la Furia conduce Tantalo, sua vittima, in una sorta di lustratio rovesciata nei pressi della domus da contaminare. Di seguito Atreo invoca gli dèi per ottenere l’ispirazione divina che gli consenta di ideare un nefas superiore a quello dei suoi antenati e persino superiore a qualunque limite umano. Riesce a convocare il fratello Tieste con i figli e a incoronarlo come una vittima da immolare. Procede dunque all’uccisione sacrificale delle vittime, i nipoti, le cui carni saranno approntate per l’empio banchetto vendicatore servito al solo Tieste.

La lettura dell’opera come un unico rito sacrificale compiuto dalla Furia restituisce fluidità e compattezza a una tragedia talvolta accusata di essere composta da quadri giustapposti, che invece sono solo diversi momenti di un solo rituale.

Preliminare a questo studio, nei prossimi paragrafi si trova una panoramica dello stato degli studi sulle tragedie di Seneca e sulle questioni irrisolte che ancora le riguardano.

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Le questioni del teatro di Seneca

Le tragedie di Seneca sono state trasmesse da due rami di tradizione manoscritta. Il ramo E (dal nome del manoscritto principale, detto Etruscus), considerato filologicamente più affidabile, presenta le tragedie in questo ordine: Hercules (Furens), Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus . Il ramo A riporta Hercules Furens, Thyestes, Thebais (Phoenissae), Hippolytus (Phaedra), Oedipus, Troas (Troades), Medea, Agamemnon, Octavia (presente solo nel ramo A della tradizione manoscritta), Hercules Oetaeus.

Queste tragedie pongono diversi problemi. Tralasciando quelli di carattere interpretativo, ci sono questioni ancora aperte riguardo l’autenticità delle opere, la cronologia e la loro eventuale rappresentazione.

È importante fare un resoconto sullo stato di questi problemi, in quanto potrebbero influenzare la lettura delle opere.

L’autenticità

Tutte le tragedie di Seneca hanno subìto l’accusa di non autenticità, sia singolarmente che in blocco. Infatti non risultava compatibile e congruente la produzione poetica passionale con quella sobria del filosofo, al punto che – fraintendendo un verso di Marziale1 – si ipotizzò l’esistenza di due Seneca, uno filosofo e l’altro tragediografo: Duosque Senecas unicumque Lucanum/ Facunda loquitur Corduba.2 Oggi la tesi non ha più sostenitori, non essendo difficile identificare i duos Senecas con Seneca e Seneca padre.

La tragedia la cui non autenticità è quasi certa è l’Octavia. I motivi principali:

- Mancanza di questa tragedia nel ramo migliore della tradizione manoscritta (E) - Presenza di Seneca come personaggio

1 Marziale, Epigrammi I, 61, vv.7-8 2

“… i due Seneca e l’unico Lucano / L’eloquente Cordoba ha sempre sulla bocca”; la traduzione è di Simone Beta in “Marziale. Epigrammi vol.I”, Beta S. (a cura di), 1995, pp. 58-9

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- Anacronismi e allusioni che rimandano a conoscenze successive all’anno 65 in cui moriva Seneca (come la profezia della morte di Nerone, troppo precisa e simile a ciò che accadrà veramente)

- Analisi tecniche sull’impianto e lo sviluppo del dramma hanno messo in risalto l’emulazione dello stile di Seneca, riadattato però in maniera differente.

Molti dubbi sono stati sollevati anche sull’Hercules Oetaeus, sia per la sua inusitata lunghezza, sia per la presenza di lunghi brani che sembrano tratti quasi alla lettera dalle opere filosofiche di Seneca. Per questo gli oppositori alla sua autenticità sostengono che sia opera di un ammiratore successivo.

La datazione delle tragedie di Seneca: vexatissima quaestio

La soluzione della questione dell’ordine cronologico delle tragedie di Seneca sembra ancora lontana dall’essere raggiunta.

Concetto Marchesi nella prima metà del Novecento, dopo aver definito il problema spinoso e quasi irresolubile, ipotizzò per la composizione il periodo del regno neroniano precedente al 62.3 Infatti nelle tragedie legge un intento pedagogico, di ammaestramento al buon governo, nei confronti del princeps, in una forma che risultasse dolce al giovane regnante.

Procedendo cronologicamente si arriva a un'altra pietra miliare in questo ambito, Le théâtre du Sénèque di Léon Hermann del 19244. Egli sostiene che sia difficile ammettere che Seneca abbia pubblicato le tragedie prima della morte di Claudio. Trova poco verosimile anche che siano del periodo dell’esilio – per quanto niente di veramente oggettivo si opponga a ciò – perché allora Seneca non aveva ancora pubblicato opere importanti, orientato come era all’ambizione dell’eloquenza. Invece, per quanto fosse impegnato nel tempo che va dal richiamo a Roma alla rottura con Nerone, è anche vero che quello fu il suo periodo di massima prolificità. Dopo il ritiro Seneca non cessa di scrivere, ma sembra ripiegarsi su sé stesso e sulle sue opere filosofiche, anche se non si può escludere che abbia prodotto tragedie in questo periodo.

3 C. Marchesi, Seneca, Messina, 1920 4

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Dopo quest’analisi dei periodi della vita di Seneca, Hermann, avendo passato in rassegna i punti deboli e i risultati contrastanti degli altri metodi, sceglie il proprio metodo di datazione: la ricerca delle allusioni storiche (con la raccomandazione di non vedere allusioni dappertutto, ma anche di ricordarsi che le allusioni è necessario che siano sottili e più chiare al pubblico di allora che a noi). Tiene anche conto dei confronti tra le tragedie stesse, tra le tragedie e le opere in prosa, il Ludus e le opere dei contemporanei.

Hermann arriva a difendere l’ordine tramandatoci dal manoscritto A come quello cronologico (chiaramente una volta espunta l’Octavia): Hercules Furens, Thyestes, Thebais (Phoenissae), Hippolytus (Phaedra), Oedipus, Troas (Troades), Medea, Agamemnon, Hercules Oetaeus. Dai suoi confronti giunge a ipotizzare che il Thyestes sia posteriore al Ludus e leggermente anteriore al De Clementia, databile quindi intorno al 55. Del 1928 è il lavoro di Herzog, Datierung der Tragödien des Seneca5, in cui lo studioso, con il metodo delle allusioni alla vita politica, propone per il Thiestes una datazione intorno al 43, nei primi anni dell’esilio.

Un importante studio è quello di Henry Bardon6: nel capitolo riguardante Nerone tratta anche della cronologia delle tragedie di Seneca. Dopo averle analizzate, arriva alla conclusione che non siano teatro di opposizione né pervase da spirito politico. Egli le colloca nel periodo del regno di Nerone prima della rottura definitiva fra il princeps e il suo ministro e difende l’ordine delle tragedie riportate dal manoscritto E come quello cronologico.

Per lui nel Thyestes la rivalità tra fratelli è semplicemente un topos obbligato della tradizione mitologica. I vv. 459 ss. parlano forse delle feste di Nerone, come forse i vv. 599 ss. possono essere un riferimento alla questione orientale del 62-3. Seneca è più duro che a inizio carriera: è la fine delle illusioni; si approssima l’ora del ritiro. La data è da porsi, secondo lo studioso, intorno al 62.

Il capitolo La questione cronologica di Francesco Giancotti nel suo Saggio sulle tragedie di Seneca del 1953 (pp.17-29) è la pars destruens con cui chi si occupa di questi studi deve fare i conti7: Giancotti non propone una cronologia, ma smonta ogni metodo che è stato usato per tentare quest’impresa e arriva a concludere: “la cronologia delle tragedie

5 O. Herzog, Datierung der Tragödien des Seneca, in “Rheinisches Museum”, 1928; pp.51-104 6 H. Bardon, Les empereurs et les lettres latines d’Auguste à Hadrien, Paris, 1940, pp.189-273 7

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senechiane è assolutamente oscura. Le datazioni variamente proposte sono soltanto congetturali. Solo l’affiorare di un elemento documentario filologicamente sicuro potrebbe permettere una datazione certa.”8

Italo Lana sostenne che Seneca produsse le proprie tragedie in parte prima dell’ascesa al trono di Nerone e in parte dopo – dato il loro evidente intento paideutico – e più frequentemente dopo la morte di Agrippina, sulla base di un passo di Tacito molto citato per questo argomento9: obiciebant etiam […]carmina crebrius factitare, postquam Neroni amor eorum venisset.10 Questo passo non è risolutivo per molti motivi, uno su tutti: non è immediato intendere carmina come tragedie.

Ettore Paratore è arrivato alla conclusione, frutto dei numerosi studi che ha dedicato a questo argomento, che il Thyestes sia l’ultima opera, apice ed esasperazione del furor.11 Con Paratore anche Remo Giomini sostenne la produzione delle tragedie durante l’arco di tutta la vita, riconoscendone alcune più giovanili di altre.12

Negli stessi anni degli studi di Lana, Paratore e Giomini abbiamo un lavoro interessante di Luisa Balzamo dal titolo Della possibilità di una poetica di Seneca in relazione alla cronologia delle sue tragedie, pubblicato nel 1957.13

L’idea di questo articolo è che la produzione delle tragedie debba essere considerata contemporanea alla produzione di De beneficiis, Naturales quaestiones e delle Epistulae ad Lucilium. Infatti in queste opere le citazioni poetiche si infittiscono, mentre sono rade, se non trascurabili, nel resto del corpus di Seneca (ovviamente non contando le tragedie). In queste opere l’autrice riconosce una maggior forza dei riferimenti all’arte, mentre sono in genere neutrali, quando non negativi, gli accenni nelle altre opere.

8

Ibid., p. 29

9 I. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino, 1955 10

Tacito, Ann. XIV, 52, 3: “Gli rinfacciavano anche […] di essersi dedicato a comporre versi con maggiore frequenza proprio quando Nerone era stato preso da quella passione.”La traduzione è di Bianca Ceva in B. Ceva, Tacito. Annali vol.II, Milano, 1997, p.669

11

Paratore ha dedicato all’argomento numerosi studi, Storia del teatro latino, pp. 239-80, cf. anche La

poesia nell’Oedipus di Seneca e L’Hercules Oetaeus è di Seneca e anteriore all’Hercules Furens. 12 R. Giomini, Saggio sulla “Fedra” di Seneca, Roma, 1955, pp.7-14

13 L. Balzamo , Della possibilità di una poetica di Seneca in relazione alla cronologia delle sue tragedie, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli” 7, 1957, pp.93-106

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La studiosa sostiene che: “Generalmente una maggiore o minore quantità di citazioni poetiche in un’opera è indicativa di un maggiore o minore interesse dello scrittore per la poesia.”14

In seguito sostiene che le tragedie non possono essere contemporanee al Ludus perché in quell’opera l’arte appare come un’attività di ordine trascurabile e inferiore, e la studiosa nega la possibilità che lo stesso autore nello stesso periodo dipinga due Eracle opposti come quelli del Ludus e del Furens. Ma questa conclusione è opinabile.

Lo studio di Cervellera, La cronologia delle tragedie di Seneca in relazione al trimetro recitativo, analizza la metrica delle tragedie.15 Individuando delle norme metriche, alcune riguardanti l’intera poesia latina, altre il solo Seneca, studia quante volte queste norme non vengono rispettate in ciascuna tragedia.

Partendo da questa analisi, Cervellera nota che la maggior parte degli errori (dopo aver scartato quelli che considera come scelte stilistiche) si trovano in Hercules Oetaeus, Agamemnon e Oedipus. Perciò la studiosa le identifica come le più imperfette metricamente, prodotto di un autore più giovane e meno esperto; mentre le più corrette sarebbero Thyestes e Hercules Furens. Quindi il suo giudizio viene sostanzialmente a coincidere con quello del Paratore.

Costa16 ipotizza – per quanto conscio che non possano essere datate con certezza – una loro composizione durante l’esilio in Corsica, quindi tra 41 e 49.

Pociña Perez nel suo studiodel 1976 crede che fungano da insegnamento per Nerone in una veste che sarebbe risultata a lui gradita, e che quindi vadano collegate al periodo in cui Seneca era precettore di Nerone e successivamente suo ministro.17 Pierre Grimal, pur conscio della fragilità della propria ipotesi, propone una datazione in due blocchi.18 Il primo, più sostanzioso, durante l’esilio, quando Seneca aveva più tempo libero. Questo gruppo comprenderebbe Agamemnon, Troades, Thyestes, Hercules Furens e Hercules

14

Ibid. p.94

15

M. A. Cervellera, La cronologia delle tragedie di Seneca in relazione al trimetro recitativo in,” Rivista di Cultura Classica e Medievale” 15, 1973, pp. 19-34

16

C. D. N. Costa, The tragedies, in “Seneca”, Costa C. D. N. (a cura di), London and Boston, 1974, pp. 96-115

17 A. Pociña Perez, Finalidad politico-didactica de las tragèdias de Sèneca, in “Emerita” 44, 1976¸

pp.279-301

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Oetaeus. Del secondo blocco, datato all’epoca del ritiro, della delusione e del disincanto, farebbero parte Oedipus, Medea e Phaedra.

Un approccio statistico è applicato nell’articolo del 1981 di John G. Fitch, Sense-pauses and relative dating in Seneca, Sophocles and Shakespeare19. Fitch usa le statistiche degli speaker change e più in generale delle pause di senso per determinare una cronologia relativa delle tragedie senecane. Per speaker change egli intende un cambiamento di parlante in mezzo al verso, per pausa di senso intende una pausa logica rappresentata graficamente dai moderni punti fermi, esclamativi, interrogativi, due punti, punti e virgola, parentesi, trattini e virgolette. Fitch analizza la frequenza di queste caratteristiche nei versi non corali delle tragedie poiché ritiene che ogni poeta inizi la propria attività col rispettare nel verso l’unità di senso: un verso contiene un concetto; in seguito, man mano che prosegue, migliora la propria abilità e inizia inconsciamente a prendersi delle libertà, infrangendo ciò che inizialmente considerava alla stregua di un tabù. Per Fitch questo processo non è un artificio retorico o letterario, ma il naturale evolversi delle capacità dell’autore nel gestire la propria arte, quindi è un processo del tutto inconscio. Una maggiore quantità di versi spezzati al mezzo indicherebbe un autore più navigato e pertanto una datazione relativamente più tarda.

Anche se questo genere di analisi si è già rivelata affidabile per quanto riguarda Sofocle e Shakespeare, l’autore dell’articolo mette in guardia dall’affidarsi troppo a questo metodo se le differenze sono minime (minori per esempio di due o tre punti percentuali). Con Seneca si sente sicuro, in quanto le differenze sono sostanziali. Infatti egli ha calcolato la percentuale dei versi spezzati al mezzo rispetto a ogni pausa di senso in ciascuna tragedia (escluse Hercules Oetaeus e Octavia, da lui ritenute spurie):

-Agamemnon: 32.4% -Phaedra: 34,4% -Oedipus: 36,8% -Medea: 47,2% -Troades:47,6%

19 J. G. Fitch, Sense-pauses and relative dating in Seneca, Sophocles and Shakespeare, in “American Journal

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12 -Hercules Furens: 49%

-Thyestes: 54,5% -Phoenissae: 57,2%.

Questo gli ha permesso di identificare tre gruppi20: 1. Early group: Agamemnon, Phaedra, Oedipus 2. Middle group: Medea, Troades, Hercules Furens 3. Late group: Thyestes, Phoenissae.

Il cambiamento percentuale è significativo e Fitch sostiene che abbia bisogno di molto tempo per svilupparsi, pertanto ritiene che l’interesse di Seneca per i drammi debba aver occupato una parte consistente della sua vita, sicuramente non meno di alcuni anni.

William Calder ha sostenuto la posteriorità dell’Agamemnon rispetto al Thyestes21, mentre Boyle ha sostenuto il contrario.22

Otto Zwierlein è, giustamente, molto cauto.23 Dopo un’attenta analisi soprattutto metrica egli giunge a raggruppare due insiemi di tragedie. L’Hercules Furens, il Thyestes, le Troades e l’Agamemnon farebbero parte del primo gruppo, quello delle tragedie che si pongono come iniziali nelle serie di drammi. Medea e Oedipus si troverebbero nel secondo gruppo, quello delle tragedie finali, che concludono la successione dei lavori teatrali.

Meno cauto J. David Bishop24, che colloca la produzione teatrale di Seneca interamente

nel periodo del ritiro e tenta di dimostrare un’evoluzione: il teatro assumerebbe sempre più i tratti di un teatro di opposizione intorno al quale si radunavano i congiurati pisoniani. Le tragedie attaccherebbero Nerone – prima con cautela, poi in modo sempre più audace e duro – per il suo cambiamento successivo alla caduta sotto l’influenza negativa di Poppea.

20 Ibid. p. 292 21

W. Calder, Seneca’s Agamemnon, in “Classical Philology” 71, pp.27-36; Secreti loquimur: an interpretation of Seneca’s Thyestes, in “Ramus” 12, 1982, p.184-198

22

A. J. Boyle, Hic epulis locus: the tragic worlds of Seneca’s Agamemnon and Thyestes, in “Ramus” 12, 1982, pp.199-228

23 O. Zwierlein, Prolegomena zu einer kritischen Ausgabe der Tragödien Senecas, Mainz, 1983, pp. 233-248 24

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Egli pone l’intera produzione negli anni che vanno dal 62 al 65 con terminus post quem il divorzio e la morte di Ottavia. Il Thyestes sarebbe la penultima tragedia, prima dell’Oedipus. Questo studio però non risulta troppo convincente per le numerose forzature nel campo delle allusioni storiche.

Sulla base di allusioni storico-geografiche Nisbet scrive: “stylistic and historical arguments converge to date Thyestes in the latter part of Nero’s reign, in 62 to be precise.”25

Il critico giunge così a una posizione simile a quella di Tarrant.26

Acuto è il contributo di Ermanno Malaspina dal titolo Pensiero politico ed esperienza storica nelle tragedie di Seneca27. Egli non propone una cronologia propria, ma presenta un’analisi dei rapporti tra il contenuto delle tragedie e i loro significati etico-politici, e studia i riferimenti politici come presupposto di datazione. In questo ambito Malaspina fa notare che bisogna evitare di forzare la lettura di quelle che possono essere semplicemente coincidenze e che al massimo si può ottenere un terminus post quem e mai una datazione precisa.

Inoltre il critico identifica un’evoluzione nell’opera drammaturgica senecana che non si sente comunque di proporre ufficialmente come ordine cronologico (per quanto la tentazione sia forte, dato che rimanda proprio all’ordine del manoscritto E). Egli vede nel passaggio da Hercules Furens a Thyestes un’evoluzione del pensiero politico delle tragedie. Al Furens si avvicinano Troades e Phoenissae, mentre le posizioni estreme del Thyestes, che rispecchiano quelle delle opere in prosa degli anni del ritiro, sarebbero anticipate dai pensieri espressi in Oedipus e Agamemnon. Comunque, nonostante il riconoscimento di questa linea evolutiva, Malaspina conclude ricordando che mancano indizi per una cronologia, sia essa assoluta o relativa.

Un recente articolo offre una carrellata su tutti i metodi e le proposte avanzate dagli studiosi più importanti di questo campo e solleva talvolta dei dubbi. È l’articolo di Antoni Seva Llinares, intitolato Somnia nugaeque merae. Sobre la cronologia de las tragédies de

25

Nisbet R. G. M., The dating of Seneca’s tragedies with special reference to Thyestes, p. 108.

26 Cf. Tarrant R. J., Seneca’s Thyestes

27 E. Malaspina, Pensiero politico ed esperienza storica nelle tragedie di Seneca, in “Sénèque le tragique”,

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Séneca.28 Anche in questo lavoro non è presente una proposta di cronologia, ma un commento agli studi svolti in questo campo.

Una questione interessante è sollevata da Seva Llinares nei riguardi degli studi statistici del Fitch29: secondo Fitch non rispettare l’unità di senso di un verso è sintomo di una capacità drammaturgica più matura, Seva LLinares pensa che possa in alternativa essere considerata una anomalia da principiante. Ma soprattutto Seva Llinares critica l’inclusione delle Phoenissae in questo studio e l’esclusione dell’Hercules Oetaeus. Le Phoenissae per Seva Llinares sono due pezzi di due tragedie diverse, quindi i calcoli del Fitch risulterebbero alterati da questi dati.

Secondo il critico, l’Hercules Oetaeus sarebbe stato molto interessante come termine di paragone, anche qualora venisse considerato spurio. Infatti applicando il metodo di indagine del Fitch anche all’Hercules Oetaeus si sarebbe ottenuta una percentuale di pause di senso in mezzo al verso in relazione alle pause totali del 51,86%. Fitch secondo il suo metodo avrebbe pertanto dovuto collocare questa tragedia o come ultima del secondo gruppo o come prima del terzo, arrivando alla conclusione che un “maldestro imitatore” di Seneca aveva la stessa abilità e versatilità nel manovrare il trimetro giambico di un Seneca ormai esperto.

Comunque sia, dopo un’attenta analisi – non tanto distruttiva come quella del Giancotti30

- delle metodologie applicate, Seva Llinares ritiene che nulla si può concludere al momento sulla cronologia di Seneca tragico, se non che – importante principio basilare – le interpretazioni devono muovere dal campo storico a quello letterario e non viceversa. Boyle, l’ultimo studioso ad essersi occupato del Thyestes, vede come periodo di composizione dell’opera drammatica di Seneca la seconda metà della sua vita e, per quel che riguarda il Thyestes, crede sia una delle ultime tragedie di Seneca, composta in periodo neroniano.31

Nel corso degli anni sono stati tentati diversi metodi, applicati svariati approcci e numerose idee per risolvere questo problema. Ciò ovviamente deriva dalla mancanza

28

A. Seva Llinares, Somnia nugaeque merae. Sobre la cronologia de las tragédies de Séneca, in “itaca Quaderns Catalans de Cultura Clàssica” 24/6, 2008/10, pp. 101-156

29 Fitch J. G., op. cit.

30 Giancotti, op. cit., pp. 17-29 31

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pressoché totale di basi solide su cui appoggiarsi. Nessun approccio è sostanzialmente sbagliato, ma nessuna conclusione è abbastanza convincente da risultare giusta.

Quindi è con molta umiltà che bisogna accostarsi al teatro senecano e ai numerosi problemi che comporta.

Il problema della rappresentazione

Le scene romane sono mai state calcate dai vari Eracle, Tieste, Medea e gli altri personaggi senecani? I Romani sono mai andati a teatro a vedere una tragedia di Seneca? Queste sono mai state rappresentate o erano destinate a essere declamate di fronte a un pubblico, oppure andavano lette in solitaria immersione? O venivano prodotte in maniera ancora differente?

Anche questo problema ha dato vita a schieramenti contrapposti, ciascuno dei quali ha rinvenuto prove che suffragherebbero le proprie teorie.

Sostanzialmente gli schieramenti sono due, pur con tutte le variazioni interne da sostenitore a sostenitore: c’è chi sostiene che esse furono scritte per essere declamate, lasciando la scenografia all’immaginazione del pubblico, e c’è chi sostiene che esse furono rappresentate con attori, costumi e tutto quello che si addice a una tragedia propriamente detta.

Il primo a occuparsi della questione è stato Fredrich Leo, patriarca del primo schieramento, quello della declamazione.32 Egli sosteneva che il teatro romano del primo secolo d. C. si era evoluto distaccandosi dai modelli greci e dallo stesso teatro romano d’età repubblicana. Leo è arrivato a dichiarare: “istae vero non sunt tragoediae sed declamationes ad tragoediae amussim compositae et in actus deductae”33. Egli propone la teoria di una lettura declamatoria delle tragedie di Seneca influenzata dalla moda delle declamazioni dell’epoca (basti pensare all’attività di Seneca padre).

Su questo sentiero aperto dal Leo hanno proseguito poi molti studiosi e solo negli ultimi anni la teoria della destinazione alla lettura sembra abbia perso il suo predominio.

32 F. Leo, L. Annaei Senecae tragoediae. Vol. I De Senecae tragoediis observationes criticae,, pp.147-59 33

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Per autori come Beare34 la tragedia è pressoché morta in epoca imperiale, il teatro si è ridotto a un ricettacolo di spettacoli di basso livello, anche morale, e su di esso aleggia un generale e aristocratico disprezzo. Da qui ovviamente la presunta impossibilità della rappresentazione delle tragedie di Seneca. Inoltre Beare continua sostenendo che nelle tragedie senecane è ignorata la tecnica usuale delle entrate e delle uscite dei personaggi, come se l’autore avesse scritto non visualizzando l’azione per la scena.

Il principato era molto sensibile alle allusioni politiche pronunciate sul palcoscenico. Le conseguenze di un accenno drammatico negativo alla situazione politica contemporanea potevano essere terribili, e il fatto che le tragedie di Seneca presentano i sovrani assoluti in una pessima luce è per lo studioso un’ulteriore prova dell’improbabilità che esse fossero composte per venir rappresentate davanti a un vasto pubblico.

Ma la prova principe su cui fanno affidamento gli studiosi che sostengono tale ipotesi risiede in alcuni passi delle tragedie in cui succedono eventi che non potevano accadere su un palcoscenico classico: Eracle uccide moglie e figli (Hercules Furens vv.990-1026); Teseo riassembla i pezzi del cadavere del figlio Ippolito (Phaedra vv.1247-1279); Medea si taglia sul braccio per versare il proprio sangue durante la stregoneria (Medea vv.807-811).

Per contro, gli studiosi del secondo schieramento ribattono che non c’era niente che non si potesse mettere in scena con qualche trovata e si sono impegnati nel rintracciare nei testi i segnali di entrate e uscite e tutte quelle informazioni contenute nei versi che potevano essere interpretate come stage directions.

In questo ambito Dana Ferris Sutton ha scritto un libro importante, Seneca on the stage, in cui analizza i risvolti materiali che trapelano dai testi di Seneca, come per esempio l’organizzazione fisica dello spazio.35

L’autrice sostiene che, se non fosse stata intenzione di Seneca preparare questi testi per il teatro, allora sarebbe stata inutile ed eccessiva la cura che metteva nello scriverli in maniera che sembrasse che lo fossero. Inoltre, se fossero stati destinati a una declamazione, i personaggi avrebbero dovuto essere introdotti ogni volta che intervenivano, per far capire al pubblico chi è che stava parlando. In Seneca ciò non avviene.

34W. Beare, I Romani a teatro, Roma-Bari, 2003 (1° ed. originale: London,1950), pp.266-270 35

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Seneca non usa prologhi informativi che ci forniscano tutte le informazioni spaziali utili per orientarsi. Ma queste indicazioni ce le fornisce gradualmente man mano che il testo va avanti e ciò può essere una prova a favore della rappresentazione: non c’è necessità di descrivere ciò che il pubblico ha davanti agli occhi, cioè la scenografia e l’ambientazione. A ciò la Sutton fa seguire una lunga analisi delle internal stage directions in ogni dramma. Va detto che alla prova principale che questo secondo schieramento presenta a proprio favore, cioè che nel testo si trovano quelle tracce che fanno intendere che il testo era scritto per la rappresentazione, gli studiosi del primo schieramento hanno ribattuto che Seneca si muoveva in un genere codificato e che questa attenzione era solo eredità di quella tradizione.

Quindi c’è chi è sicuro che l’intera opera di Seneca venisse rappresentata, chi lo crede vero per parte della produzione, ma anche chi, come Fitch, si attesta su posizioni più caute riconoscendo una patina di theatrical power che non permette di affermare altro che il testo è stato scritto con in mente le antiche convenzioni teatrali.36

Comunque Fitch indica alcune scene in cui sembra imprescindibile per la comprensione la rappresentazione drammatica. Una di queste è l’anagnorisis del Thyestes ai vv. 1004 ss., quando Atreo mostra le teste dei figli a Tieste. Dal testo quest’informazione non traspare, eppure Tieste prima della frase di Atreo (v. 1005) Natos ecquid agnoscis tuos? ignora la sorte dei figli, dopo ne è consapevole. Perciò deve essere successo qualcosa sulla scena, nella fattispecie Atreo faceva entrare dei servi con le teste mozzate dei nipoti.

Secondo Paduano l’unico vero motivo per dubitare della rappresentabilità delle tragedie di Seneca “consiste nella crisi in cui esse mettono la categoria fondante del tempo drammatico, l’equivalenza cioè tra il tempo lineare della rappresentazione e lo sviluppo della vicenda rappresentata secondo la norma dell’unità aristotelica.”37 Ma Paduano non ritiene questa ragione sufficiente perché la concezione aristotelica del tempo drammatico potrebbe essere intesa come un “divenire psichico”38, una spirale piuttosto che una retta. D’altronde, prosegue Paduano, non si può negare persino alla stasi significato drammatico, come dimostrano Beckett e Artaud. Pertanto il manuale cui lo studioso ha

36

J. G. Fitch, Playing Seneca?, in “Seneca in performance”, G. W. M. Harrison (a cura di), Deckworth, 2000, pp.1-12

37 Paduano G., Il teatro antico: Guida alle opere, p. 333 38

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collaborato esplicita: “È dunque frutto di un equivoco l’altrettanto diffusa opinione sulla mancanza di valore teatrale di queste opere e sulla loro presunta irrappresentabilità; un equivoco che si appoggia sull’assenza di notizie su una loro effettiva rappresentazione.”39 Boyle, l’ultimo ad aver trattato il tema con la sua recentissima edizione di Thyestes (2017), si mostra deciso nelle sue posizioni opposte a quelle che fanno capo a Leo: “there is little possibility that either recitation or (even less) private reading was the intended primary mode of realization. Not only do the ‘reading’ and the ‘recitation’ hypothesis generate more problems than those they seek to address, but they are vitiated by the theatricality of these plays, their concern with dramatic structure and effect, and with the minutiae of stagecraft.”40

Anche se non siamo certi della rappresentazione delle opere, ormai siamo certi della loro rappresentabilità, e si sta lentamente superando l’ipotesi di Leo delle declamationes che tanto ha influenzato gli studi finora.41

39 Perutelli A., Paduano G, Rossi Linguanti E., Storia e testi della letteratura latina vol. III, p. 85 40 Boyle, id., p. XLI

41

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Capitolo I

Il prologo come processione

1.1 Il rito sacrificale a Roma e il prologo del Thyestes

Il sacrificio è l’atto fondamentale e fondante della religione romana. Macrobio42

, commentando Virgilio, arrivò a scrivere che pietas significa sapere come sacrificare. Ci sono testimoniati numerosi rituali sacrificali che subivano variazioni e si diversificavano a seconda del contesto e della divinità cui erano dedicati. Pertanto uno schema che voglia sintetizzare la struttura del rito sacrificale romano non andrà inteso in maniera troppo rigida.

Fatte queste debite premesse, possiamo parlare in generale della struttura del sacrificio romano.43

1.1.1 Il sacrificio pubblico romano

Il rito iniziava solitamente all’alba, col sorgere del sole. Terminata la preparazione preliminare si partiva con una processione che conduceva le vittime, guidate dall’officiante e dai suoi collaboratori, all’altare. Le vittime erano ornate di nastri, ghirlande, bende di lana bianche o rosse.

Alla processione seguiva una libagione preliminare di vino e incenso, accompagnata da una preghiera. Questo momento viene definito praefatio44, termine moderno ricavato dalla prescrizione catoniana Thure, vino […] praefato45. Sembra che questa preghiera preliminare potesse essere indirizzata sia alla divinità destinataria del sacrificio che ad altre divinità ospiti o assistenti del rito.46

Questa offerta fatta su un piccolo braciere portatile (foculus) fungeva da invito per le divinità.

42

Macr. Sat. 3,5, 9

43

Tale ricostruzione si basa sugli studi di John Scheid; cf. bibliografia.

44 Cf. §2.1

45 Cato, De agr. 134, 1 46

(20)

20 A questa fase seguiva l’immolatio47

, la consacrazione della vittima. L’officiante la cospargeva di mola salsa, una farina salata preparata dalle Vestali, le versava sopra del vino e poi con il coltello sacrificale (culter) tracciava una linea che andava dalla fronte alla coda. A questo punto la vittima apparteneva al mondo degli dei.

Prima dell’uccisione però, sembra ci fosse bisogno di un cenno d’assenso da parte dell’animale offerto. Infatti un suo comportamento ritroso o addirittura preda del panico era visto come presagio infausto. Questo assenso era di solito un cenno del capo, e per ottenerlo il sacrificante manipolava una corda legata al capo dell’animale e alla base dell’altare.

Si poteva dunque procedere al sacrificio.

Gli animali di grandi dimensioni venivano abbattuti con un colpo alla tempia e poi fatti dissanguare, quelli di piccole dimensioni venivano sgozzati.48

Gli atti più pratici del sacrificio – come l’uccisione materiale della vittima – erano affidati a personale subalterno.

L’hostia veniva aperta e ispezionata da un haruspex che analizzava i suoi organi vitali (exta): una loro eventuale anomalia avrebbe significato il rifiuto del sacrificio da parte degli dei e la necessità di ricominciare da capo. Organi in condizioni normali invece garantivano l’accettazione del sacrificio da parte della divinità, la litatio, e si poteva proseguire.

La vittima veniva smembrata e la parte spettante al dio, gli exta, veniva cucinata. Se si trattava di grandi animali, come i bovini, le interiora venivano bollite in pentole dette olla; animali di minori dimensioni, come pecore o maiali, venivano cotte su degli spiedi messi sul fuoco.

Dopo la cottura gli exta venivano bruciati sul fuoco dell’altare. Tutte queste azioni erano sempre accompagnate da precise preghiere.

Una volta bruciate le offerte, si poteva procedere con il banchetto sacrificale e la spartizione delle carni spettanti agli uomini.

1.1.2 Il prologo del Thyestes

47 Cf. Cap. III

48

(21)

21

L’idea della tesi è che la struttura del Thyestes di Seneca ricalchi la macrostruttura del rito sacrificale romano e che l’intera tragedia sia un unico composito rito sacrificale. Nell’arco della tragedia possono essere identificati riferimenti ai cinque momenti essenziali della cerimonia sacrificale: la processione (pompa), la praefatio, l’immolatio, il sacrificio e il banchetto. Ma, nel corso della tragedia, il valore del sacrificio viene ribaltato.

Che Seneca faccia ancora riferimento a questa struttura è possibile perché, malgrado alcune varianti, i riti erano i medesimi dal II secolo a.C. al III d.C. sia nel culto di Stato sia nell’ambito privato di una grande famiglia romana. Nonostante l’assenza di un’autorità dogmatica centrale, i riti prescritti da Catone nel De agri cultura coincidevano in larga parte con quelli celebrati dai magistrati e sacerdoti della sua stessa epoca, fino anche all’età severiana, grazie all’esempio fornitoci dai Commentarii dei Fratres Arvales49

. Per iniziare a verificare tale interpretazione, questo capitolo tratterà del prologo e di suggestioni, argomentazioni e prove raccolte riguardo all’ipotesi che questa parte di tragedia rappresenti la processione iniziale del rito sacrificale romano.

1.1.3 La processione del prologo

La prima cosa che si può segnalare è che il momento del giorno combacia. Di solito i sacrifici, come abbiamo detto, iniziavano con il principio del giorno. Pertanto la processione, essendo il primo momento del sacrificio, usualmente si svolgeva all’alba. Così come è l’alba il momento iniziale di questa tragedia.50

L’atto I del Thyestes è eccezionalmente costituito da un dialogo tra un restio Tantalo e una Furia che lo costringe a contaminare il palazzo dei suoi discendenti per permettere l’attuazione di un nefando delitto da parte di Atreo. Questa contaminazione deve avvenire per contatto e la Furia spinge Tantalo a muoversi di fronte al palazzo dei Pelopidi.

Già il solo contenuto drammatico del primo atto ci consente di instaurare un confronto: un’entità sottomessa viene portata avanti da un’entità più forte che vuole, così facendo, ottenere potenti conseguenze extraumane; lo stesso avviene in una processione.

Il movimento in scena sembra evidente e richiesto dalla stessa azione drammatica. Lo testimoniano i vv. 95-104:

49 Cf. Scheid J., Quando fare è credere. I riti sacrificali dei Romani, pp. 134-9 et passim 50

(22)

22

TANTALO: […] Stabo et arcebo scelus. Quid ora terres verbere et tortos ferox Minaris angues? Quid famem infixam intimis Agitas medullis? Flagrat incensum siti Cor et perustis flamma visceribus micat. Sequor.

FURIA: Hunc, hunc furorem divide in totam domum. Sic, sic ferantur et suum infensi invicem

Sitiant cruorem.51

Qui Tantalo prova a resistere alla Furia e soprattutto a rifiutare il movimento: stabo “rimarrò fermo”. Pertanto nel movimento risiede l’efficacia rituale: senza non ci può essere contaminazione dell’area. Ma la Furia, più potente dell’uomo, lo sottomette e lo costringe al movimento (sequor).

William Calder III ha suggerito che le ripetizioni Hunc, hunc e Sic, sic accompagnassero dei colpi di frusta schioccati dalla Furia.52 Si è basato su Verg. Aen. 4, 660 sic, sic iuvat ire sub umbras, luogo nel quale qualche lettore antico ritiene di leggere in quella reiterazione sic, sic la cadenza dei colpi di spada suicidi di Didone. Tarrant, sebbene d’accordo col fatto che la Furia parli mentre spinge Tantalo, sostiene che quelle ripetizioni possono semplicemente segnalare il suo stato d’eccitazione.53

Aggiungo che questa descrizione pratica della Furia dietro Tantalo non si lega benissimo con il precedente sequor, ma questo verbo potrebbe avere una valenza che fa riferimento, più che a un seguire fisico, a un atteggiamento mentale di sottomissione e accondiscendenza, come nella formula alicuius sententiam sequi “seguire la proposta di qualcuno”54.

51 “TANTALO: Fermo resisterò e terrò lontano il delitto./ Perché atterrisci il mio volto con la sferza/ E,

feroce, minacci attorte vipere? Perché ecciti la mia fame/ Confitta nel profondo delle viscere?/ Brucia il cuore acceso di sete/ E la fiamma per le mie carni riarse palpita./ Ti seguo./ FURIA: Sì, questo furore in tutta la casa spargilo!/ Così, così vengan trascinati e nell’odio abbian sete/ L’uno del sangue dell’altro.” I brani del Thyestes sono estratti dall’edizione di Zwierlein, la traduzione, ove non specificato diversamente, è di F. Nenci.

52Cf. Calder III W., Seneca Thyestes 101-6 53 Tarrant R. J., Seneca’s Thyestes, p. 103 54

(23)

23

Quindi, guidata dalla Furia, con colpi di frusta o senza, possiamo constatare che c’è una processione minima, composta solo dai due personaggi sulla scena: insieme celebrano un rito che prevede il compimento di un percorso. La Furia guida, il dannato segue. Il verbo sequor continua ad essere significativo. Questa stessa forma verrà ripresa da Tieste quando cederà alla volontà del figlio (anch’egli di nome Tantalo) di tornare al palazzo: sequor, non duco (v.489). Questa contrapposizione di verbi è presente anche nel prologo, sebbene non esplicita. Infatti se il verbo sequor si attaglia a Tieste, alla Furia spetta duco, che è anche il verbo utilizzato tipicamente nell’espressione pompam ducere “condurre una processione”55

.

Ma la Furia dove conduce questa processione?

Le opzioni logiche appaiono due: verso l’ingresso della casa oppure avanti e indietro intorno ad esso.

La prima sembra essere la posizione di Tarrant: “The Fury’s lines are certainly spoken as she forces Tantalus toward the house…”56

e “Sen. Ben. 6.34.1 magno aestimare introitum ac tactum sui liminis. (Touching the limen is perhaps what Seneca’s audience is meant to imagine Tantalus’ doing, cf. 104 contactu).”57

Anche Monteleone la pensa in maniera simile: “… mentre nell’Eracle Lissa entra nella casa e vi resta per portare a compimento il proprio ufficio (cf. vv. 873-4 […]), l’ombra di Tantalo ritorna agli inferi dopo aver appena toccato la reggia dei Pelopidi.”58

Questa è una valida possibilità, forse la più semplice da immaginare: la Furia spinge Tantalo verso la porta del palazzo dei Pelopidi, come la processione sacrificale porta le vittime all’altare. Toccando l’ingresso, Tantalo contaminerebbe l’intero palazzo, soddisfacendo la Furia e scatenando gli eventi luttuosi della tragedia. La rotta di questa processione potrebbe bene rappresentare la forza penetrativa del male, in opposizione a una barriera circolare di protezione.

Ma l’alternativa merita di essere presa in considerazione. La Furia conduce Tantalo avanti e indietro intorno al palazzo e all’ingresso. Un movimento di tal genere sembra rendere in maniera più efficace i versi pronunciati dalla Furia, come la reciprocità di infensi invicem,

55

Cf. Verg. Georg. 3.1.22; Pl. Truc. II.6.68 e.g.

56 Tarrant, ibidem. 57 Ibid.

58

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24

ma specialmente il v.101 divide in totam domum. Infatti divido ha qui un valore distributivo “spargi, dissemina…” sottolineato dall’uso di in più accusativo con valore anch’esso di distribuzione rimarcato dall’aggettivo totam. Non è un moto a luogo, Tantalo non deve solo portare il proprio furore a palazzo, deve spargerlo il più possibile59, pertanto non basta un movimento da A a B, ma un movimento, in un certo senso, circolare, un andare avanti e indietro, sarebbe una rappresentazione drammaturgica più adatta.

Due parole sembrano però favorire la prima rappresentazione, un percorso diretto verso la porta della reggia. Si trovano nei versi immediatamente successivi pronunciati ancora dalla Furia (vv. 103-4): Sentit introitus tuos/ Domus et nefando tota contactu horruit.60 Questi termini sono introitus e contactu. Introitus è un sostantivo derivato da introeo, il cui significato principale è “ingresso” in senso motorio. Perciò è logico supporre che faccia riferimento all’ingresso di Tantalo nel palazzo, al varco del limen. Però va segnalato che il sostantivo è usato al plurale, il che suggerisce una ripetizione che invece deporrebbe a favore dell’andirivieni e del ripetuto movimento circolare della seconda ipotesi, in un significato più vicino a “passi, passaggi”.

Per quanto riguarda contactu, il palazzo che rabbrividisce al contatto, si può notare che i terreni intorno alla domus possono essere già considerati domus e percorrendoli si può diffondere il contagio. A favore di quest’interpretazione stanno i versi ancora successivi (vv.105-7): Actum est abunde. Gradere ad infernos specus/ Amnemque notum; iam tuum mestae pedem/ Terrae gravantur […]61

.

Si noti incidentalmente come l’accusativo di relazione pedem porti ancora una volta l’attenzione alla sfera del camminare e alla processione.

Le terre soffrono il peso del piede di Tantalo. Ancora una volta un plurale che ben si sposerebbe con il valore distributivo di questa processione. Per di più sono le terrae a soffrire, non il limen, né il pavimentum, o un più neutro solum. Non risolve la questione, ma terrae potrebbe stare a indicare le terre circostanti, avvalorando la seconda versione della processione, quella circolare.

59

Per il desiderio della Furia di contaminare più possibile cf. §1.3

60 La casa sente il tuo arrivo e tutta inorridisce al contatto sacrilego.

61 Abbastanza si è fatto. Ritorna alle caverne infere/ E al noto fiume; ormai la terra afflitta/ Sente il peso del

(25)

25

È pervenuta un’importante testimonianza di processione circolare nella lustratio agri descritta da Catone in De agri cultura 141. Il confronto con questo passo, portato avanti nel paragrafo 1.2, si dimostrerà proficuo anche qualora si rifiuti l’opzione della processione circolare di Tantalo.

Dunque, nonostante l’opposizione del dannato, la Furia riesce a procedere con la processione. Tantalo pagherà il suo tentativo di resistenza passando da dedicatario della preghiera a animale sacrificale portato in processione. Ciò non deve sorprendere in quanto lo scambio di livelli, la commistione e la confusione in generale sono tra i principali temi della tragedia.62.

Il termine della processione è esplicitato verbalmente dalla Furia soddisfatta: actum est abunde. A ciò segue la conclusione del prologo con Tantalo che viene ricacciato nel Tartaro. Ciò può sembrare una differenza rispetto alla processione canonica che proseguiva con l’uccisione degli animali, ma essendo Tantalo già morto, l’unico modo che ha la Furia per eliminarlo è rimandarlo nel mondo dei morti.

La soddisfazione della Furia garantisce il buon esito del rito: il palazzo è contaminato e diventerà un luogo di contagio per il mondo, arrivando a portare morte e distruzione fino oltre il mare, fino a Troia.63

Gli ultimi due versi del prologo (vv. 120-1) En ipse Titan dubitat an iubeat sequi/ Cogatque habenis ire periturum diem64 possono essere considerati una mise en abyme di ciò che si è appena visto: un’altra piccola, straordinaria processione dagli esiti imprevedibili e fuori dall’ordinario, ma comunque nefasti.

1.2 Confronto con la lustratio agri di Catone

La lustratio65 è una cerimonia di purificazione apotropaica ben attestata per tutto il mondo indoeuropeo66, una liberazione da potenziali pericoli che si otteneva con rituali diversi accompagnati da una preghiera propiziatoria.

62

Cf. infra

63

Cf. § 1.3

64 “Ecco, anche il Sole è incerto se comandare alla luce di seguirlo/ E costringere con le briglie a procedere il

giorno che muore.”

65

(26)

26

Quella descritta da Catone in De agri cultura 141 è una lustratio agri privata. Una processione di officianti conduceva per tre volte le vittime (suovetaurlia lactantia: un maialino, un agnello e un vitello) lungo il perimetro della villa, poi, dopo una praefatio rivolta a Giano e Giove, i tre animali venivano sacrificati a Marte.

Marte era dedicatario del rito per via del suo ruolo di combattente: doveva scacciare dal confine tutti i mali con un fine di protezione e purificazione. A lui era dedicata una preghiera:

Mars pater,

te precor quaesoque uti sies

volens propitius

mihi domo familiaeque nostrae: quoius rei ergo

agrum terram fundumque meum suovitaurilia circumagi iussi, uti tu

morbos | visos invisosque, viduertatem vastitudinemque calamitates intemperiasque

prohibessis defendas averruncesque; utique tu

fruges frumenta, vineta virgultaque

grandire dueneque evenire | siris; pastores pecuaque

salva servassis

duisque | duonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae;

harunce rerum ergo

66

(27)

27 fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique faciendi

ergo, sicuti dixi,

macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto; Mars pater,

eiusdem rei ergo,

macte hisce suovitaurilibus lactentibus esto.67

In questa preghiera Pasquali scorge il riflesso della più arcaica forma di poesia latina, il carmen, il cui elemento caratterizzante più evidente è il parallelismo del suo ritmo binario e talvolta ternario.68

È interessante confrontare questa preghiera con il discorso con cui la Furia prende la parola (vv.23-67).

Questo confronto sarà portato avanti prima da un punto di vista contenutistico, poi strutturale e stilistico.

1.2.1 Confronto contenutistico

Sebbene caratterizzati da uno stile molto diverso – un secco e ridondante elenco quello di Catone, un ricercato intarsio di intrecci roboanti quello di Seneca – i due discorsi rappresentano forme diverse di uno stesso tipo di preghiera: la precatio.

67

“O Marte padre, ti prego e ti scongiuro, sii favorevole e propizio a me, alla mia casa e a tutti i miei: è per questa ragione che ho fatto condurre i suovitaurilia intorno al mio campo, al mio terreno e al mio podere; che tu possa tenere lontano, respingere, stornare mali visibili e invisibili, sterilità e devastazione, calamità e intemperie; e che tu consenta che biade, frumento, vigne e piante crescano e diano buoni frutti; che tu conservi sani i pastori e le greggi e conceda condizione di salute e prosperità a me, alla mia casa e a tutti i miei; a questi fini, per la purificazione del mio podere, del mio terreno, del mio campo e per effettuare il sacrificio lustrale, come ho detto, gradisci l’immolazione di questi suovitaurlia da latte, o Marte padre, allo stesso fine sii onorato con questi suovitaurilia da latte.” Il testo, l’analisi metrica e la traduzione sono di Cugusi P. & Sblendorio Cugusi M. T.

68

(28)

28

Questa era la preghiera più comune per i Romani, quella che presentava alla divinità una richiesta in cambio dell’offerta. Se è facile comprendere che la richiesta di Catone consiste nella protezione e purificazione del campo, quella della Furia necessita di una spiegazione.

La Furia qui, nonostante una posizione di superiorità, presenta una richiesta a Tantalo (che è pur sempre un’entità extraumana). Tale richiesta, opposta a quella pia di Catone, è la contaminazione del palazzo e la diffusione di questo contagio. Ma se è una prex, cosa offre in cambio la Furia? Prima (vv. 54-6) promette una serie di onori dignus adventu tuo (da notare che adventus è termine ricorrente a indicare le epifanie): ornetur altum columen et lauro fores/ laetae virescant, dignus adventu tuo/ splendescat ignis69.

In seguito (vv. 63-4) viene menzionata un’altra offerta, presentata, proprio come quella di Catone, come già compiuta: liberum dedimus diem/ tuamque ad istas soluimus mensas famem70.

Quest’offerta è quella più importante, la più preziosa per Tantalo e quella effettivamente già avvenuta come mostra il perfetto: liberum dedimus diem. Tantalo in questo momento è libero dal supplizio del Tartaro, in cambio la Furia chiede che contamini il palazzo dei discendenti. Per questo ritengo tale discorso una precatio, anche se al rifiuto di Tantalo la Furia farà valere la propria potenza sovrumana sottomettendolo, così come l’uomo sottomette l’animale, sebbene in entrambi i casi ci sia bisogno dell’assenso dell’essere inferiore. Qui il significativo Sequor (v. 100) di Tantalo ormai arreso svolge la funzione del cenno del capo dell’hostia.

1.2.2 Confronto strutturale

La preghiera di Catone si apre, come è abituale per le preghiere romane, con un’invocazione al dio, accompagnata da uno o più epiteti e da una generale richiesta di favore:

Mars pater,

69 “Si adorni l’alta colonna e le porte verdeggino/ rigogliose d’alloro, degno del tuo arrivo il fuoco sia

fulgido”.

70

(29)

29 te precor quaesoque

uti sies

volens propitius

mihi domo familiaeque nostrae

Questa invocazione può essere riscontrata, diretta a Tantalo, anche nel testo della Furia, con la differenza che, qui e in seguito, la richiesta della Furia non è benevola, ma maligna e portatrice di distruzione (vv.23-4): Perge, detestabilis/ Umbra, et penates impios furiis age.71

L’uso del termine furiis può essere considerato già un iniziale tentativo della Furia di associare Tantalo alla sua causa, di ottenerne il “favore” e coinvolgerlo.

Procedendo bisognava poi identificare l’oggetto della preghiera con una lista di richieste che doveva essere esauriente e specifica nel dettaglio onde evitare possibilità di fraintendimenti da parte della divinità.

La sequela di richieste dirette a Marte nella preghiera di Catone è divisa in due momenti72. Il primo designa i nemici da combattere e le forze di combattimento, il secondo designa i beneficiari e gli effetti benefici della lotta. La prima parte pone la condizione necessaria perché si realizzi la seconda.

I) Uti tu

Morbos visos invisosque, viduertatem vastitudinemque, calamitates intemperiasque

prohibessis defendas averruncesque

II) Uti tu

Fruges frumenta Vineta virgultaque

Grandire dueneque evenire siris;

71 “Continua, ombra odiosa,/ e tormenta con le furie della vendetta i tuoi penati sacrileghi!” 72

(30)

30 pastores pecuaque

salva servassis

duisque duonam salutem valetudinemque mihi domo familiaeque nostrae

Si può riscontrare non solo l’esistenza di una lista di richieste anche da parte della Furia, ma addirittura la stessa divisione in due momenti: il primo (vv. 25-43) elenca la distruzione e le forze che se la devono portare a vicenda, il secondo (vv. 43-51) le conseguenze malefiche che si vogliono per il mondo intero:

I) Certetur omni scelere et alterna vice stringatur ensis; nec sit irarum modus pudorve, mentes caecus instiget furor, rabies parentum duret et longum nefas eat in nepotes; nec vacet cuiquam vetus odisse crimen: semper oriatur novum, nec unum in uno, dumque punitur scelus, crescat. Superbis fratribus regna excidant repetantque profugos; dubia violentae domus fortuna reges inter incertos labet:

miser ex potente fiat, ex misero potens, fluctuque regnum casus assiduo ferat. Ob scelera pulsi, cum dabit patriam deus, in scelera redeant, sintque tam invisi omnibus quam sibi; nihil sit ira quod vetitum putet: fratrem expauescat frater et gnatum parens gnatusque patrem, liberi pereant male, peius tamen nascantur; immineat viro

(31)

31 infesta coniunx,73

II) bella trans pontum vehant, effuus omnis irriget terras cruor, supraque magnos gentium exultet duces Libido victrix: impia stuprum in domo Levissimum sit fratris74; et fas et fides Iusque omne pereat. Non sit a vestris malis Immune caelum – cur micant stellae polo Flammaeque servant debitum mundo decus? Nox alta fiat, excidat caelo dies.75

Di solito verso la fine della preghiera si fa riferimento a uno o più motivi per i quali la divinità dovrebbe rispondere positivamente: in genere per il sacrificio presente o per un altro futuro. Catone infatti ricorda a Marte il sacrificio che sta compiendo in suo onore:

harunce rerum ergo

fundi terrae agrique mei lustrandi lustrique faciendi

73

“Si gareggi in delitti e a turno si impugni la spada;/ e all’ira non ci sia limite o ritegno,/ un cieco furore ecciti gli animi,/ la rabbia dei padri perduri/ e la catena interminabie della colpa sacrilega/ giunga ai nipoti e nessuno abbia tempo di odiare/ un vecchio delitto: sempre uno nuovo ne sorga/ e non uno in uno solo, e mentre il crimine si punisce,/ si accresca il crimine. Ai superbi fratelli/ cada di mano il regno e in esilio lo rivendichino;/ la malsicura fortuna della casa violenta/ oscilli fra re che vacillano:/ divenga misero da potente, potente da misero,/ e con onda incessante il caso trascini la tirannide./ Quando il dio concederà la patria, cacciati per i crimini,/ per i crimini ritornino, e a tutti siano così detestabili/ quanto a se stessi; niente l’ira ritenga proibito:/ il fratello paventi il fratello, e il padre il figlio,/ e il figlio il padre, i figli periscano maledetti,/ ma nascano peggiori;/ incomba sul marito nemica la moglie”.

74

La Nenci mette a testo facinus (congettura di Bentley) invece del tradito fratris (accolto da Zwierlein) in quanto il nesso fas fratris non è mai attestato e per il senso richiesto ci sarebbe piuttosto bisogno di

fratrum. 75

“trasportino/ guerre oltre il mare, il sangue trabocchi e copra di rivoli/ tutte le terre, e sopra grandi duci di popoli/ danzi il suo trionfo vincitrice la Libidine:/ l’adulterio sia il delitto più lieve nella casa sacrilega;/ e la norma divina e la fede giurata/ e ogni diritto umano periscano./ Non sia il cielo immune dai vostri mali; perché palpitano/ di luce nella volta celeste le stelle e le fiamme conservano/ legata all’universo la forma splendida?/ Profonda notte sia fatta, precipiti giù dal cielo la luce.”

(32)

32 ergo,

sicuti dixi,

macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto; Mars pater,

eiusdem rei ergo,

macte hisce suovitaurilibus immolandis esto.

La Furia, come già accennato, prima prescrive una serie di onori dignus adventu tuo, onori da festus dies a favore di questo corrotto Lar familiaris76 (vv. 53-5); in seguito fa riferimento specifico a ciò che gli sta offrendo in quel momento: la libertà dalla pena e la possibilità di affacciarsi su una tavola (vv. 63-4).

Ai vv. 56-62 troviamo un’anticipazione di ciò che succederà o si auspica succeda. Anche questo è un momento abbastanza comune delle preghiere.

In ultima analisi il discorso della Furia può essere facilmente accostato a una preghiera anche in base alla sua struttura riportata schematicamente qui di seguito.

- vv. 23-4: invocazione con epiteto e richiesta generale - vv. 25-43: primo momento della lista delle richieste - vv. 43-51: secondo momento della lista delle richieste

- vv. 52-3: ripetizione in altre parole della richiesta fondamentale dei vv. 23-4 - vv. 54-6: prima motivazione

- vv. 56-62: anticipazione - vv. 62-6: seconda motivazione

Dal v. 66 la preghiera viene interrotta prima dal commento soddisfatto della Furia (inveni dapes/ quas ipse fugeres), poi dal tentativo di fuga dell’ombra (v. 67 siste, quo praeceps ruis?).

76

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33

1.2.3 Confronto stilistico.

L’elemento più evidente della preghiera di Catone è il parallelismo nel pensiero e nella forma dei singoli membri77: la maggior parte dei cola è divisa in due, e spesso anche uno dei due cola minori è bipartito, se non entrambi. Questa parallelismo può declinarsi come simmetria, riprese e opposizioni polari, oltre ai suddetti dicola, talvolta conchiusi da tricolon. Grande importanza riveste poi l’allitterazione. La preghiera catoniana è talmente intrisa di questo stile dal ritmo binario e talvolta ternario che basterà rileggerla per identificare facilmente ciò di cui stiamo parlando.

Per quanto lo stile di Seneca con i suoi numerosi iperbati e anastrofi possa essere considerato agli antipodi di quello di Catone, questi elementi caratterizzano anche il brano in questione. Il parallelismo lo ritroviamo in espressioni come modus/pudorve (vv. 26-7) o l’opposizione …vetus/…novum (vv.29-30), come anche al v.35 miser ex potente fiat, ex misero potens e nella ripresa oppositiva dei vv. 37-8 ob scelera pulsi […]/ in scelera redeant.

I vv. 40 ss. traboccano di questa simmetria e di ritmo binario:

fratrem expavescat frater et gnatus parens gnatusque patrem, liberi pereant male, peius tamen nascantur; immineat viro infesta coniunx, […]

Numerosi anche gli esempi di allitterazione:

- v. 34 inter incertos - v. 44 irriget terras cruor

- vv. 47-8 et fas et fides/ iusque omne - v. 50 debito mundo decus

- v. 61 patrios polluat

- v. 63 conuiua uenies. Liberum dedimus diem - v. 66 spectante te potetur

77

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34 Infine si noti anche la presenza dei tricola78:

- vv. 47-8 et fas et fides/ iusque omne - vv. 52 odia caedes funera

A questi aggiungo anche Ad stagna et amnes et recedentes aquas (v. 68) anche se è pronunciato da Tantalo, ma, essendo il suo primo verso dopo la preghiera, è normale che risenta ancora dell’influenza dello stile di quella.

1.3 Una processione empia

Anche un’analisi lessicale indirizza il lettore nella direzione del sacro facendo emergere un uso consistente della terminologia rituale.

Tantalo apre la tragedia descrivendo i supplizi del Tartaro e crea già un clima infero; la Furia conclude la sua frase di esordio con age, termine sicuramente familiare al pubblico romano in quanto era l’ordine che il magistrato dava ai victimarii per eseguire l’uccisione sacrificale.79

Si può pertanto dire che sin dal principio la tragedia precipita in un’atmosfera non solo infera, ma anche sacrale e, più precisamente, sacrificale. Tanto più che, al termine della processione, la Furia riprende il verbo agere dicendo Actum est abunde. Questo perfetto indica la conclusione di ciò che si era iniziato, un atto rituale.

Rimanda sempre alla sfera religiosa adventu (v. 55) che è il sostantivo dell’epifania.80 Altri termini dal forte carattere sacrale sono quelli che identificano il banchetto, epulae al v. 62 e dapes al v. 66.

78

Anche in altre preghiere troviamo analoghe ripetizioni triple; cf. precor veneror veniamque peto; metum

formidinem oblivionem; fuga formidine terrore nel carmen di evocatio di Cartagine in Macr. Sat. 3, 9, 7-10. 79 Cf. Ruelle, Sacrifice, énonciation et actes de language en droit romaine archaique (“agone?, lege agere, cum populo agere)

80

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