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Confronto tra Keynes e i classic

2.Un disegno della teoria generale

4. Confronto tra Keynes e i classic

Teoria Generale, che più di ogni altro scritto di Keynes si è focalizzato sull’interpretazione sistemica della dinamica macroeconomia. In primo luogo, infatti, nonostante Keynes possa essere considerato il fondatore della macroeconomia moderna, sarebbe alquanto fuorviante ritenere che il panorama teorico antecedente alla pubblicazione della Teoria Generale fosse caratterizzato dal prevalere di una visione ortodossa e monolitica che rappresentava la dinamica economica come l’adattamento ottimale del sistema economico all’operare di forze di mercato rispondenti a leggi meccanicistiche in grado di coordinare il libero agire individuale. Equilibrio generale walrasiano non era esente da critiche già prima di Keynes; e fra i suoi stessi sostenitori era ben chiaro che tale modello fosse teoricamente valido in assenza di incertezza e disturbi di carattere monetario.

Fin dalle prime pagine Keynes esplicita che la teoria “classica” (intendendo l’approccio neoclassico marginalista e di equilibrio economico generale) si applica ad un caso limite in cui può trovarsi una economia reale, e non può dunque essere considerata come il punto di partenza per un’analisi di tipo generale.

Gli ulteriori errori richiamati da Keynes riguardano poi aspetti specifici dell’operare dei vari mercati e mettono in evidenza la molteplicità delle dimensioni che implicano una differenziazione fra approccio classico ed approccio keynesiano. Nel mercato dei beni, per esempio, viene sottolineato il legame fra risparmio ed investimento aggregato, che impedisce alle variazioni

del tasso di interesse di essere il meccanismo di riequilibrio dei due aggregati, ed in ultima analisi di essere il meccanismo che assicura il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego; si sottolinea come il risparmio abbia natura residuale rispetto al consumo, piuttosto che essere il frutto di una decisione di allocazione intertemporale delle risorse; mentre sul fronte dell’investimento viene introdotto il concetto di efficienza marginale del capitale che, pur mantenendo un legame fra investimento e tasso di interesse, determina una sua inscindibile relazione con elementi di aspettativa a lungo termine, rendendolo instabile anche a fronte di una stabilità del tasso di interesse. Nel mercato della moneta la domanda è determinata della funzione di preferenza per la liquidità che a sua volta connette la detenzione di moneta a moventi speculativi oltre che alla necessità di effettuare transazioni; il tasso di interesse è tale da equilibrare il mercato della moneta e delle attività finanziarie. Infine, nel mercato del lavoro, la funzione di offerta e di domanda non sono definite in termini “nozionali” ossia derivati dall’aggregazione di comportamenti microeconomici che sottintendono la massimizzazione dei profitti e dell’utilità: sul lato dell’offerta viene negata la rilevanza della decisione alternativa “lavoro-tempo libero”, mentre sul lato della domanda, pur non negando che le imprese perseguano la massimizzazione del profitto, non si trascurano elementi di carattere istituzionale e di contrattazione; ciò che è più rilevante, rispetto al mercato del lavoro è però l’emergere di un equilibrio di disoccupazione involontaria, in netta antitesi con la visione classica.

Centrale nella critica di Keynes è l’interpretazione della natura del tasso di interesse. Quest’ultimo nell’interpretazione classica determina l’equilibrio del mercato dei beni, perché il mercato della moneta non prevede un ruolo per questa variabile (si ricorda che la teoria classica della moneta è la teoria quantitativa). Keynes non discute sul fatto che il tasso di interesse rifletta considerazioni di carattere intertemporale, ma obbietta che quest’ultimo viene determinato sul mercato della moneta e delle attività finanziarie. Ancora più rilevante è l’obiezione secondo cui, il tasso di interesse possa determinare l’equilibrio del mercato dei beni: ciò in realtà può accadere solo se il livello di equilibrio del reddito è dato; se, infatti il reddito può mutare (e quindi si opera in un contesto differente dalla piena occupazione) la sola conoscenza del tasso di interesse non determina un solo equilibrio, ma differenti possibili configurazioni, corrispondenti a differenti livelli di reddito. Per la comprensione della rappresentazione si svolga un esercizio di statica comparata, nel quale la posizione di partenza del sistema considerato presenti un eccesso di risparmio sull’investimento. Nell’aggiustamento classico che opera sempre in condizioni di piena occupazione, l’equilibrio viene ristabilito attraverso una riduzione del tasso di interesse che implica una caduta del risparmio ed un aumento degli investimenti. Il tasso di interesse continua a scendere fino a che non sia raggiunta l’uguaglianza fra investimento e risparmio aggregati. L’aggiustamento keynesiano rende esplicito il fatto che la funzione di risparmio aggregato scaturisce dalla decisione di consumo, ed è definita per un dato livello di reddito. Se il reddito può mutare, anche la

funzione di risparmio, a parità di altre condizioni, subisce traslazioni. Pertanto, nella situazione di partenza si ha un eccesso di risparmio. Il tasso di interesse diminuisce. Questo stimola gli investimenti, che a loro volta determinano un aumento del reddito via processo moltiplicativo. L’aumento del reddito provoca un aumento del risparmio e dunque la funzione del risparmio si trasla verso destra. Il processo di aggiustamento ha termine quando viene raggiunto il nuovo livello di equilibrio del reddito che consentendo di stabilire la posizione della funzione del risparmio, consente di comprendere quale sia il tasso di interesse compatibile con l’equilibrio del mercato dei beni. In questo meccanismo di aggiustamento, evidentemente, le funzioni di risparmio e di investimento non sono indipendenti.

Le fondamentali differenze fra lo schema keynesiano e quello classico- neoclassico si possono così riassumere: · la teoria keynesiana adotta un approccio macroeconomico trattando le variabili economiche a livello aggregato, ossia riferendosi alla collettività nel suo complesso, mentre l'analisi neoclassica esaminava le singole unità economiche, studiando il comportamento del consumatore-tipo, del produttore-tipo, e così via; · la teoria keynesiana distingue le variabili reali da quelle monetarie: le prime si rinfieriscono ai beni e servizi concretamente prodotti e distribuiti nel mercato, le seconde riguardano i diversi compensi monetari derivanti dalla produzione; · la teoria keynesiana attribuisce un peso considerevole alla domanda aggregata, cioè alla quantità di beni e servizi che la collettività chiede al sistema, nella convinzione che la domanda condiziona l'offerta, e non è quindi vero come

sostenevano Say e i neoclassici che l'offerta crea sempre i presupposti per il proprio totale assorbimento (teoria dei mercati o teoria degli sbocchi); · la teoria keynesiana considera la situazione di pieno impiego delle risorse come l'eccezione, mentre la regola sarebbe rappresentata dalla sottoccupazione delle risorse. E' questa una fondamentale differenza con le impostazioni sayana e neoclassica che ritenevano che il mercato, lasciato libero di operare, fosse in grado di assicurare l'equilibrio di piena occupazione, grazie ai meccanismi autoregolatori insiti nel sistema; · la teoria keynesiana assegna allo Stato, o meglio alla pubblica amministrazione, un ruolo di primo piano per contrastare gli squilibri e contrastare le crisi connaturate al sistema economico. Pur riconoscendo la superiorità del sistema capitalistico su ogni altro modello economico, dà di esso una valutazione alquanto critica. Egli era convinto che il capitalismo, nel suo tumultuoso sviluppo, avesse generato sperequazioni e ingiustizie. Ai suoi occhi i detentori di ricchezza in quanto tale, i rentiers, coloro che mettono a disposizione capitali finanziari, lucrandone un compenso specifico, il saggio d'interesse, apparivano una categoria di soggetti sostanzialmente improduttiva. Sulla base di queste considerazioni riteneva necessario che le autorità monetarie tenessero costantemente a freno i saggi d'interesse, per incoraggiare gli investimenti e favorire la dissoluzione della classe dei redditieri, determinando la "eutanasia sul potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale". La critica di Keynes si appunta anche sulla "cattiva speculazione" che danneggia tanti piccoli risparmiatori e consente al cinico affarismo di spadroneggiare.

Keynes è ritenuto a pieno titolo il teorico dell'intervento sistematico dello Stato nell'economia. Tuttavia, egli non è, né si considera, un socialista. E' anzi un liberal, nel senso anglosassone che assume questa espressione: crede fermamente nelle virtù del sistema capitalistico, ma è altrettanto fermamente convinto che l'economia di mercato vada sistematicamente integrato con l'azione dello Stato a sostegno della domanda globale per colmare il gap tra reddito effettivo e reddito potenziale al fine di evitare una cronica condizione di sottoccupazione delle risorse.

Keynes segna il momento di transizione dalla'ottica di finanza neutrale, propugnata dalle correnti classica e neoclassica, in base alla quale lo Stato doveva adempiere soltanto ai suoi essenziali compiti istituzionali (amministrazione della giustizia, difesa interna, difesa dei confini dall'ingerenza straniera), senza assumere decisioni economiche, adottando una politica di pareggio del bilancio, alla logica della finanza funzionale o interventista, che ritaglia allo Stato un posto di prim'ordine, attribuendo ad esso il compito di dirigere lo sviluppo economico ed esercitare una spesa pubblica in grado di aumentare la domanda, optando per una politica di disavanzo del bilancio (deficit spending) che, pur apparentemente gravosa, crea le premesse per l'espansione del sistema economico.

CAPITOLO 3

L’INCOMPLETEZZA DEL MODELLO

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