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L'instabilità del capitalismo

2.Problemi di instabilita e di incertezza

3. L'instabilità del capitalismo

Keynes, sulla scia degli economisti classici, attribuisce all’imprenditore un ruolo predominante nel determinare l’andamento del sistema economico. In questo si discosta dalla tradizione neoclassica, per la quale è invece il consumatore ad essere sovrano. Nell’ottica keynesiana, invece, il consumatore ha un ruolo passivo. Lo schema logico proposto dall’economista inglese è il seguente: gli investimenti degli imprenditori determinano il livello del reddito e il volume dell’occupazione, mentre le famiglie decidono quanto risparmiare e quanto consumare del reddito disponibile. Per una “legge psicologica fondamentale” (e per l’evidenza empirica), al crescere del reddito crescono anche i consumi, ma non tanto quanto il reddito. La propensione marginale al consumo della collettività, dC/dY , è minore di 1.

Fino a quando gli investimenti programmati dagli uomini d’affari saranno pari al risparmio desiderato delle famiglie, si raggiungerà un equilibrio di piena occupazione.

In un’economia povera, secondo Keynes, questa condizione si realizza facilmente, poiché la maggior parte del reddito è assorbita dal consumo. Gli investimenti che occorrono sono modesti, poiché il risparmio che si forma in un’economia di questo tipo è irrilevante. La piena utilizzazione delle forze produttive è garantita facilmente.

Ciò non è più scontato in un’economia capitalista, nella quale il livello del reddito degli individui è elevato; di conseguenza, la componente del reddito

destinata al risparmio tende anch’essa ad aumentare. Abbiamo imparato che

un'economia fortemente innovativa e progrediente è un'economia instabile. Negli ultimi dieci anni il tasso giapponese dei fallimenti d'impresa è stato doppio di quello americano, ma il Giappone si sviluppava a una velocità tripla degli Stati Uniti. C'è un secondo motivo per cui l'instabilità tende ad aumentare con lo sviluppo, ed è un motivo sul quale Keynes insistette molto. Un'economia sviluppata è un'economia ricca, in cui è facile rinunciare al consumo e risparmiare, mentre l'investimento può essere poco attraente, giacché il capitale, che è stato ormai accumulato in grandi quantitativi, non è più così scarso come all'inizio dello sviluppo. Se l'innovazione tecnologica e merceologica rallenta, diventa probabile che si voglia risparmiare troppo rispetto agli investimenti giudicati convenienti. E la situazione opposta a quella dei Paesi poveri, in cui si risparmia troppo poco rispetto agli investimenti, che

bisognerebbe realizzare per progredire. I Paesi poveri importano risparmi e capitali dai Paesi ricchi, che li esportano. Inoltre, un'economia di mercato possiede meccanismi anche interni per fare affluire il risparmio agli investitori nella giusta misura. Se per esempio il risparmio è troppo, il risparmiatore sarà poco remunerato, e l'investitore potrà indebitarsi con poca spesa, finanziare con poca spesa la costruzione del nuovo stabilimento o l'acquisto delle nuove macchine. Supponiamo che il nuovo stabilimento e le nuove macchine rendano, prevedibilmente, il 10% come tasso di profitto al lordo degli interessi passivi; e supponiamo ancora che l'investitore debba cedere al risparmiatore-creditore, che gli ha prestato i soldi, solo il 4% sotto forma di interessi passivi, e non il 5 o 6%. In tal caso rimane all'investitore il 6% di profitto netto, e non appena il 5 o 4%. Gli investimenti sono incoraggiati e i risparmi sono scoraggiati, proprio ciò che occorre per eliminare l'eccesso di risparmi. Tali meccanismi di mercato sono preziosi, però non sempre operano con sufficiente tempestività e ampiezza.

Per assicurare che quelle risorse che si formano nel sistema non rimangano inutilizzate, l’ammontare degli investimenti dovrà essere cospicuo, tale da eguagliare i maggiori risparmi. L’imprenditore deve decidere, per esempio, se acquistare macchinari, cioè beni a fecondità ripetuta, per accrescere la capacità produttiva dell’impresa. Si tratta di investimenti a medio-lungo termine, non facilmente liquidabili e che possono esporre l’impresa a perdite elevate.

L’imprenditore sa poco o niente di cosa gli riserverà il futuro; non è in grado di assegnare probabilità definite agli eventi che potranno verificarsi e di

assicurarsi contro quelli sfavorevoli. Tale incertezza riguardo al futuro non gli consente di valutare correttamente la redditività dell’investimento attraverso un mero calcolo dei costi e dei benefici.

L’imprenditore, secondo Keynes, si affida invece alle sue aspettative di profitto, gli animal spirits, ossia ad una serie di intuizioni viscerali e considerazioni di lungo periodo sul successo dell’investimento. Derivando da componenti emotive più che razionali della natura umana, gli animal spirits sono discontinui, instabili, ciclotimici.

Durante i periodi di ottimismo, essi porteranno gli imprenditori ad investimenti copiosi, garantendo prosperità all’intero sistema economico. Viceversa, nei periodi di recessione prevarrà una sfiducia e un pessimismo che porterà gli uomini d’affari a comprimere drasticamente gli investimenti e a licenziare,

aggravando così la crisi e ritardando la ripresa, la caduta della domanda di beni

di consumo può spingere la psicologia imprenditoriale verso il pessimismo, e indurre a investire di meno, non di più. E il pessimismo può trasformarsi in panico, quando la capacità produttiva inutilizzata significhi lavoratori disoccupati e privi di reddito, ulteriore contrazione dei consumi, maggior allarme generale per le prospettive di guadagno futuro. In quest’ultima situazione, che Keynes aveva ben presente (ricordiamo che egli scrive in piena Grande Crisi), misure di politica economica come l’abbattimento del costo del denaro rischiano di non avere alcuna utilità per far emergere l’economia dal pantano nel quale è immersa. Infatti, gli individui potrebbero rendere inefficaci queste misure aumentando la propria preferenza per la liquidità, cioè

risparmiando di più, poiché temono un futuro peggioramento delle condizioni del sistema.

Keynes non si preoccupava dell'offerta, poiché pensava a un'economia in cui l'offerta era patologicamente fin troppa: anzi, a volte egli sembrava addirittura desiderare che si facessero investimenti che non accrescessero per nulla la capacità produttiva, investimenti improduttivi come sarebbe scavar buche in un campo per poi riempirle di terra. Egli puntava esclusivamente sull'aumento delle domande, e argomentava che una maggior domanda di beni di investimento, dando lavoro ai disoccupati, spingeva ad aumentare anche la domanda di beni di consumo, con effetti moltiplicatori sul reddito nazionale. Non basta suscitare una domanda qualsiasi per assorbire una capacità produttiva oziosa e un'offerta eccessiva: occorre che la qualità di tale domanda sia conforme alla qualità di tale offerta. Se la conformità non c'è, o la domanda si rivolge all'estero per importare ciò che vuole, o essa fa rincarare i prezzi nazionali senza trovare l'offerta che la soddisfi. In un caso e nell'altro, in nostri disoccupati restano disoccupati, e la crisi continua; anzi, può continuare aggravata, perché ai mali della stagnazione degli affari si aggiungono talvolta i mali dell'inflazione (stag-flazione o stagninflazione). In macroeconomia l'inflazione sembra impossibile fin tanto che esiste una capacità produttiva esuberante, ossia un'offerta sovrabbondante; ma se questa offerta non soddisfa i gusti della gente, la cui domanda si rivolge a beni non prodotti e non producibili nell'immediato, ecco manifestarsi il rincaro dei prezzi nonostante i disoccupati.

All'origine della crisi Keynes poneva un eccesso di risparmio o un difetto di consumi, senza però chiedersi a sufficienza il perché di quell'eccesso o di quel difetto. Come escludere che i consumatori non trovassero sul mercato esattamente i prodotti che cercavano? Come escludere che i produttori fossero incapaci di soddisfare i bisogni e i desideri della gente? Forse gli imprenditori erano rimasti indietro, non avevano ammodernato abbastanza la loro offerta, proponevano beni superati nella qualità e nel costo, inducendo i clienti a fuggire, a cercare all'estero ciò che il mercato nazionale non offriva. O al contrario gli imprenditori erano troppo avanti, avevano ammodernato troppo la loro offerta, proponevano beni nuovi cui i clienti non erano ancora preparati. E' ovvio che cambiando la diagnosi dovrebbe cambiare anche la cura: in prima approssimazione parrebbe preferibile avere a che fare con abili imprenditori all'avanguardia, piuttosto che con imprenditori inefficienti di retroguardia. Se i nuovi prodotti che vengono offerti sono buoni, presto o tardi si imporranno quasi da sé; ma se i vecchi prodotti sono cattivi, occorrerebbe migliorare prima la testa degli imprenditori, per sostituirli convenientemente, e non si improvvisa una classe imprenditoriale più competente e più disposta all'innovazione.

La conclusione a cui perviene Keynes si colloca agli antipodi di tutto il pensiero economico precedente, con la significativa eccezione di Karl Marx: l’economia capitalista deregolamentata è intrinsecamente soggetta a fluttuazioni ed è sempre esposta al rischio di sottoutilizzare le risorse produttive.

In altri termini, la disoccupazione, lungi all’essere un’aberrazione provocata dall’irresponsabilità dei sindacati o alla generosità del welfare, come sostiene la scuola neoclassica, è un fenomeno strutturale, endogeno al capitalismo stesso. Per questo Keynes respinge il laissez faire estremo propugnato dagli economisti neoclassici ed invoca l’intervento dello Stato per correggere le storture del sistema.

Nello specifico, spese governative in deficit con cui finanziare investimenti pubblici e imposizione fiscale progressiva su redditi e successioni rappresentano gli strumenti più idonei per assorbire la forza lavoro inutilizzata e per rilanciare la propensione al consumo degli individui. Va ricordato però che Keynes, non riteneva questi interventi la panacea di tutti i mali, né semplici ricette da applicare meccanicamente a prescindere dal contesto storico- culturale. La lezione più attuale dell’economista inglese, infatti, ci sembra essere questa, che l’economia politica è una scienza storico-sociale e il suo oggetto di studio è un sistema economico in continua evoluzione come il capitalismo.

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