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Nuova macroeconomia keynesiana

2.Problemi di instabilita e di incertezza

6. Nuova macroeconomia keynesiana

Le teorie macroeconomia keynesiana. Un presupposto fondamentale di tali modelli era la rigidità dei prezzi, attraverso cui si del disequilibrio negli anni Settanta del Novecento avevano tentato di individuare dei fondamenti microeconomici per la giungeva a conclusioni circa le insufficienze del mercato nel raggiungere adeguati livelli nella produzione e nell’occupazione. Mancava una teoria della determinazione dei prezzi e dei salari (e quindi una spiegazione delle rigidità congruente con gli assunti di comportamento razionale: in particolare si ammette che esistano dei guadagni potenziali non sfruttati, senza che vi sia un ostacolo al loro sfruttamento).

Negli anni Ottanta, soprattutto negli Stati Uniti, diversi autori hanno cercato di dare fondamenta microeconomiche rigorose alla teoria keynesiana, tentando di superare le critiche rivolte dalla Nuova macroeconomia classica.

Questi autori (T. Negishi, J. Stiglitz, G. Akerlof, J. Yellen, B. Greenwald) non hanno dato vita a un filone unitario, al cui interno far convergere tutta la teoria macroeconomica keynesiana. I loro contributi rappresentano piuttosto singoli “pezzi” di teoria, ma motivati dall’obiettivo comune di spiegare la disoccupazione come fenomeno “involontario”. Per comodità, tale approccio è stato definito Nuova Economia Keynesiana.

Il cuore del programma di ricerca della NEK è costituito dallo studio dei meccanismi di formazione dei prezzi e dei salari, e delle decisioni di

investimento, sulla base delle ipotesi di concorrenza imperfetta e di asimmetria informativa.

Tali ipotesi consentono di individuare equilibri inefficienti, ma tali ipotesi sono fondamentali anche per connotare come “razionale” la rigidità di prezzi e salari, quindi per microfondare tanto l’equilibrio di sottoccupazione, quanto il ciclo economico. Ad esempio, la presenza di asimmetria informativa può causare rigidità dei salari, se le imprese riconoscono l’esistenza di una relazione crescente tra impegno dei lavoratori e retribuzione da essi percepita (ipotesi del salario di efficienza) e quindi fissano i salari in modo da aumentare la produttività del lavoro. Shock nominali, anche se perfettamente previsti, producono effetti reali. Se risulta razionale, per un motivo o per l’altro, mantenere i prezzi e i salari rigidi, una variazione della quantità nominale di moneta non può scaricarsi interamente sui prezzi, e dunque non può che ripercuotersi sulle quantità prodotte, spingendo le imprese a variare il livello di occupazione. Dunque viene meno anche il concetto di tasso naturale di disoccupazione.

Si possono identificare dentro la scuola Nuovo-Keynesiana tre principali filoni. Gli appartenenti ai primi due filoni sono talora chiamati nuovi keynesiani in senso debole. Gli studiosi del primo filone tentano di spiegare le rigidità nominali e credono che siano dovute ad imperfezioni che amplificano le fluttuazioni economiche. Pertanto le proposte di politica economica che ne derivano sono molto simili a quelle avanzate dai loro cugini della Nuova Macroeconomia Classica. Il secondo filone nuovo-keynesiano, all’interno del

quale si può ricondurre Stiglitz, cerca di spiegare le rigidità reali, solitamente riconducendole alla presenza di informazioni imperfette o asimmetriche. Per i nuovi keynesiani del secondo tipo, nel breve periodo la rigidità dei salari e dei prezzi non aiuta a realizzare le proprietà ottimali del sistema economico. Infine, si possono incontrare i nuovi keynesiani del terzo tipo, che Colander propone di chiamare postwalrasiani. Gli autori riconducibili a questo filone hanno costruito dei modelli ad equilibri multipli, che sono solitamente attribuiti a problemi di coordinamento. Sebbene quest’ultimo approccio sia influenzato dalla teoria dell’equilibrio generale e spesso si affidi alle aspettative razionali, è nondimeno il più vicino alla teoria postkeynesiana dato che finisce col mettere in discussione l’esistenza di un tasso naturale di disoccupazione o di un unico tasso naturale di crescita.

Conclusione

Come abbiamo osservato, il significato dell‘equilibrio keynesiano è una questione che coinvolge il senso dell‘intera attività scientifica di Keynes, secondo cui la Teoria generale non è che il punto di arrivo del processo di elaborazione teorica della sua visione del capitalismo. Keynes non è, solo, l‘economista che ha introdotto la domanda effettiva o la preferenza per la liquidità nel quadro della teoria economica preesistente. Possiamo anzi affermare che il filone di pensiero che ha cercato di ricondurre l‘ortodossia keynesiana all‘interno dell‘ortodossia tradizionale, non ha reso a Keynes un giusto servizio. L‘instabilità e la precarietà delle decisioni di investimento in un mondo in cui la moneta separa temporalmente il momento della spesa da quello dell‘incasso sono state ricondotte ad una relazione stabile tra investimenti e tasso dell‘interesse, mentre la nozione di efficienza marginale del capitale, è stata identificata con la produttività marginale del capitale. L‘introduzione delle aspettative, la critica del ruolo del calcolo razionale nella scelta degli investimenti, che spinge Keynes a definire gli stessi dominati dagli animal spirits degli imprenditori, è un aspetto da riprendere ed approfondire sotto una nuova luce non solo sul piano strettamente economico ma anche su quello più ampio della psicologica, della sociologica e della politica. L‘impegno dell‘Autorità pubblica dovrebbe essere finalizzato a formulare norme e regole di riferimento per gli operatori economici, al fine di accrescere la stabilità dell‘intero sistema.

Le pagine precedenti hanno illustrato i punti fondamentali della visione keynesiana. Da qualsiasi punto di vista si osservi il sistema economico, sia nella sua interezza, sia nell’operare delle singole parti, appare evidente che la Teoria Generale ha rappresentato un tentativo di proporre una visione alternativa a quella fornita dalla spiegazione classica. Gli elementi di innovazione sono molteplici e complessi, e per questo intrinsecamente controversi. Forse, l’osservazione fondamentale è che Keynes ebbe il coraggio dell’eresia, ma lo spinse solo fino ad un certo punto… Sottolineò il ruolo delle aspettative, ossia dell’incertezza fondamentale che è il motivo che trasforma la moneta da unità di conto in riserva di valore, ma poi ritornò sui suoi passi, perdendo alcuni pezzi: il consumo come scelta intertemporale, la decisione di investimento che dipende dal prezzo dei beni di investimento piuttosto che dal tasso di, la domanda di moneta troppo in trappola della liquidità e troppo poco come scelta di portafoglio, non un solo grafico che aiuti a capire quale mercato del lavoro avesse in mente (lavorava sulla domanda di lavoro nozionale oppure no?)... Questo suo coraggio “a metà” ha lasciato ai suoi successori ad un bivio: demolire quanto fatto perché incompleto, oppure emendare le debolezze e completare il quadro. La macroeconomia che conosciamo oggi è la risultante di questi tentativi che hanno conosciuto popolarità alterne. Certamente l’applicazione di schemi keynesiani alle economie reali ha contribuito ad evitare che si ripresentassero le condizioni di una nuova Grande Depressione, e questo rappresenta il lato positivo della macroeconomia keynesiana; d’altro canto questo stesso modo di operare ha creato

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