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Confucianesimo ed etica sociale

Sistema di valori e modelli di comportamento in Cina

2 Confucianesimo ed etica sociale

Il modo d’essere dei cinesi trae origine da una cultura molto antica che fu denominata confuciana dai missionari gesuiti che approdarono in Cina nel XVI secolo, poiché a Confucio, un maestro che visse fra il VI e il V secolo a.C., i cinesi fecero risalire le principali opere classiche e il pensiero che informò la cultura cinese di tutti i tempi. In realtà i classici cinesi, definiti poi confuciani, furono elaborazioni di vari pensatori ap-partenenti a diverse scuole di pensiero, ma la tradizione volle ascrivere a Confucio e ai suoi discepoli e seguaci la loro paternità (Lippiello 2013). Confucio (dal latino Confucius, in cinese Kǒng fūzǐ, «Maestro Kong») era un letterato che, con al seguito discepoli e seguaci, peregrinava di corte in corte, in un’epoca di conflitti politici e sociali, alla ricerca di un sovrano disposto ad ascoltare i suoi insegnamenti. Storie e leggende attorno alla sua vita, alle sue opere, ai suoi detti appaiono nella let-teratura cinese in ogni epoca e in ogni genere, dai classici ai romanzi storici, dai manoscritti più antichi alle opere filosofiche. Il suo nome e il suo pensiero non tramontarono mai ed egli ebbe un ruolo così rilevante nella cultura cinese di tutti i tempi che i missionari gesuiti, giunti in Cina, ben presto compresero come, per i cinesi, gli insegnamenti del Maestro fossero paragonabili, quanto a importanza, agli insegnamenti di Gesù per un cristiano. In un primo tempo pensarono che la religione dei cinesi fosse il buddhismo, ma poi si resero conto della centralità dell’etica confuciana e iniziarono così a studiare i classici cinesi.

Confucio e i suoi discepoli e seguaci avevano promosso e valorizzato l’educazione morale, il perfezionamento del sé, la coltivazione di virtù quali la lealtà verso i superiori (zhōng), la benevolenza (rén), l’empatia (shù) (Lippiello 2010a), l’amicizia (yǒu), l’amore filiale (xiào). A queste virtù si accompagnava l’osservanza di norme rituali e sociali (lǐ), lo

stu-2 Per una panoramica della realtà sociale, politica ed economica della Cina alla luce della sua specificità culturale si veda Abbiati (2006).

dio dei classici e della letteratura dell’epoca aurea e la riflessione, che avrebbero aiutato l’uomo a comprendere la sua epoca.

Attraverso virtù quali la benevolenza, l’empatia, la lealtà, il senso di amicizia, il rispetto verso genitori e, nella società, la deferenza verso chi occupa una posizione di autorità e prestigio, l’individuo impara a cono-scere i suoi simili, ad assecondare i loro desideri e, in ultima istanza, a stabilire un rapporto armonioso in famiglia e in società. Chi occupa una posizione di comando, grazie alla sua benevolenza, sa andare incontro alle esigenze e alle aspettative del popolo, assicurandosi in tal modo il consenso e la coesione sociale. Pertanto, un sovrano virtuoso «considera sempre il popolo come fondamento» (yǐ mín wéi běn oppure yǐ rén wéi

běn; Confucio 2003), vale a dire: cerca di ottemperare innanzitutto ai

suoi obblighi morali nei confronti del popolo, ottenendo così la sua ap-provazione, come insegnava Mengzi, un maestro, seguace di Confucio, vissuto nel IV secolo a.C.

Il principio «considerare il popolo come fondamento» fu ripreso e va-lorizzato nel corso del tempo ed è stato riproposto in epoca recente, in particolare da Hu Jintao, Presidente della RPC dal 2003 al 2013, che lo ha menzionato nel suo discorso augurale il 1° luglio 2011, in occasione del novantesimo anniversario della fondazione del Partito Comunista Cine-se. Partendo dal pensiero di Mengzi, Hu Jintao intendeva sostenere che i principî della condivisione, della solidarietà, della selezione secondo cri-teri meritocratici sono essenziali per garantire la coesione sociale e una vita caratterizzata da benessere e armonia (Scarpari 2013, pp. 11-42).

Accanto alla coltivazione delle virtù morali sopra descritte, Confucio e i suoi seguaci conferivano molta importanza allo studio, alla riflessione, all’osservanza delle norme rituali. Il Maestro disse:

A quindici anni ero dedito allo studio, a trenta ero saldo [nell’osser-vanza delle norme rituali], a quaranta non avevo più dubbi, a cin-quanta compresi il decreto celeste, a sessanta sapevo ascoltare e a settanta seguivo gli impulsi del mio cuore senza incorrere in tra-sgressioni. (Confucio 2003, II,4)

I giovani devono quindi coltivare lo studio e la riflessione, oltre all’os-servanza delle norme rituali. Perché le norme rituali? Confucio e i suoi discepoli parlano diffusamente di norme rituali nei Dialoghi (Lùnyǔ), l’opera più rappresentativa del pensiero confuciano; ad esempio:

Nell’osservanza delle norme rituali, l’armonia è il più prezioso con-seguimento. La Via dei sovrani dell’antichità era resa maestosa dal conseguimento dell’armonia e tutte le cose, grandi e piccole,

dipen-devano da essa. Tuttavia vi sono casi in cui non può essere consegui-ta: quando, pur conoscendone il valore, la si coltiva ma senza avere regolato la propria condotta con l’osservanza delle norme rituali. (Confucio 2003, I,12)

Da questo passo emerge chiaramente quale sia il senso della pratica del-le norme rituali: la disciplina interiore, conseguita attraverso la continua e assidua pratica dei riti, sia i riti e i sacrifici rivolti agli antenati, sia le cerimonie di corte e le convenzionali regole di comportamento sociale. Le norme rituali educano l’uomo alla morigeratezza, alla modestia, alla deferenza, dunque all’armonia con se stesso. Ne discende l’armonia con i propri simili, con la natura, con il mondo circostante. Il tema dell’ar-monia è ricorrente nei testi confuciani, così come in altri testi della clas-sicità cinese, tanto che è stato evocato dai governanti anche in epoca contemporanea. Ricordiamo ancora Hu Jintao che, citando Confucio, aveva dichiarato che era necessario perseguire l’armonia, invitando i quadri politici a promuovere valori quali l’umiltà, la coesione e una stret-ta relazione fra il popolo e il Governo. Anche l’attuale leadership cinese identifica «la grande rinascita della nazione cinese» o il «sogno cinese» con una vita migliore per tutti: una società democratica e armoniosa, con un’istruzione migliore, un ambiente migliore, maggiori opportunità di lavoro, riforme sociali. Il «sogno cinese» di Xi Jinping, attuale Presi-dente della RPC dal 2013, contempla anche l’auspicio di una rinascita della civiltà cinese e della magnificenza dell’antico e glorioso Impero.

Se l’etica confuciana è oggi presa a modello dal Governo cinese come esempio di rettitudine e di forza morale di un popolo e di un’antica ci-viltà – un modello da esportare e proporre al mondo intero – è indubbio che essa ebbe un ruolo pregnante e imprescindibile nella storia cinese, anche se fu molto avversata nel XX secolo. Molti studiosi hanno a lungo discusso sul ruolo del confucianesimo nella società cinese contempo-ranea. Ad esempio, il filosofo Tu Wei-ming (1940-) ha cercato di coniu-gare il pensiero confuciano, e in particolare l’enfasi riposta sull’uomo e sull’armonia sociale, con valori occidentali quali i diritti umani, la libertà e l’ecologia, intravedendo nella cultura confuciana uno dei motori della modernizzazione dell’Asia. Li Zehou (1930-), insigne studioso di formazione marxista emigrato negli Stati Uniti negli anni Novanta del XX secolo, ha cercato di coniugare la fede nel progresso sociale, nella tecnologia, nella scienza e nella modernizzazione con alcuni principî fondanti del Confucianesimo.

Del resto anche lo studioso Herbert Fingarette riconobbe il valore del pensiero, semplice, apparentemente scontato, ma certamente universale e sempre attuale, espresso nei Dialoghi:

Quando iniziai a leggere Confucio, lo trovai un moralizzatore prosai-co e ‘provinciale’: l’opera che racprosai-coglie i suoi detti, gli Analetti, mi parve niente più che una banalità arcaica. In seguito, e con forza cre-scente, l’ho giudicato un pensatore dotato di una profonda capacità di penetrazione e di una visione immaginativa dell’uomo pari nella sua grandezza a quella dei maggiori filosofi. Oggi sono sempre più convinto che Confucio possa essere un maestro per noi: un grande maestro, non uno che si limita a fornire una prospettiva lievemente esotica di idee già trattate. Egli ci parla di cose che non sono state dette altrove, di cose che necessitano di essere dette. Egli ha una nuova lezione da darci. (Fingarette 2000, p. 25)

E oggi che la Cina si affaccia sulla scena internazionale come uno dei grandi leader mondiali, il dibattito sui valori tradizionali cinesi è di grande attualità: è indubbio che un popolo, per secoli dominato da una cultura millenaria che nel corso del tempo ha assorbito e inglobato tratti di altre civiltà (buddhismo, cristianesimo ecc.) pur senza mai con-frontarsi veramente con esse e senza mai mutare radicalmente, inevi-tabilmente sia caratterizzato da un modo proprio di rapportarsi agli altri e alla realtà (Bell 2008; Lippiello 2009).

Uno dei tratti peculiari della cultura cinese è di imporsi sulla scena internazionale in modo cauto e progressivo, quasi impercettibile, diluito nel tempo, anziché in modo aggressivo e presuntuoso.

Ora, se i cinesi ci appaiono enigmatici, impenetrabili, sfuggenti, im-perscrutabili, la ragione si trova nell’educazione che hanno ricevuto e dunque prevalentemente nell’etica confuciana. Per un cinese è impor-tante non mostrare al proprio interlocutore le proprie emozioni, le pro-prie reazioni, i propri stati d’animo. A tal fine egli esercita un controllo su se stesso, poiché considera mettere a nudo il proprio cuore un segno di debolezza. Troviamo una spiegazione di tale comportamento, ad esem-pio, nel classico La costante pratica del giusto mezzo (Zhōngyōng):

Quando la letizia, la rabbia, il dolore e la gioia non affiorano, si può dire di trovarsi nel giusto mezzo. Quando affiorano, ma sono conte-nuti nella moderazione, si può dire di trovarsi in uno stato di armo-nia. (Lippiello 2010b, p. 45)

Moderazione e armonia sono due regole auree dell’agire dei cinesi, an-cor oggi vive e attuali. I due concetti sono an-correlati: la moderazione nei rapporti umani e nei rapporti con la natura e il mondo circostante fa sì che gli equilibri non siano alterati, che l’individuo non imponga mai il proprio sé ma prevalga sempre uno stato di armonia e serenità. Infatti,

l’uomo dotato di tali virtù pensa al proprio benessere fisico e spirituale in funzione del benessere collettivo e il suo agire deve sempre ispirarsi a questo principio. L’individualità non deve emergere, l’interesse per-sonale non deve essere perseguito (Lippiello 2009; Lippiello 2010a).

Ma come raggiungere questo obiettivo? I classici confuciani insegna-no che ciò che conta è la coltivazione morale dell’individuo in funzione degli altri, del benessere altrui. Un discepolo di Confucio disse:

Ogni giorno considero me stesso secondo tre questioni: nel progetta-re per gli altri ho mancato di lealtà? Nelle progetta-relazioni con gli amici ho mancato di sincerità? Non ho praticato quanto mi è stato tramanda-to? (Confucio 2003, I,4)

È evidente che nella vita quotidiana quel che conta sono le relazioni umane: lealtà, sincerità e osservanza delle regole di condotta traman-date dagli antichi sono i capisaldi dell’agire umano.