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L’immagine dell’Italia in Giappone

La cultura giapponese… per il commercio

3 L’immagine dell’Italia in Giappone

Conoscere l’altro e sapere quindi cosa offrirgli include l’analisi delle aspettative che egli ha nei nostri confronti. In altre parole, capire che tipo di immagine dell’Italia sia stata creata negli anni in Giappone, in che modo, perché, e come sia stata recepita, può chiarire la posizione fortemente privilegiata che le nostre aziende dovrebbero saper sfrut-tare al meglio.

Fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta si ebbe in Giappone una progressiva urbanizzazione , che vide uno spostamento di massa verso le città e lo sviluppo di una cultura popolare che tramite i mass media diffondeva l’immagine di una società consumistica altamente sofisticata, nella quale il 90% della popolazione poteva ritenersi parte di un’ampia classe media (Mouer 2009, p. 118). Con la fiorente economia degli anni Ottanta e fino ai primi anni Novanta molti colletti bianchi venivano man-dati a lavorare per un periodo all’estero con tutta la famiglia, mentre altri, soprattutto donne, vi si recavano per turismo o per un cambio di residenza. In questi anni, per molti giovani sui vent’anni (i quarantenni di oggi) la meta preferita era l’Italia. Lo studioso che più di tutti ha appro-fondito l’argomento è senz’altro Toshio Miyake (2013). Nella modernità, per il Giappone il cosiddetto ‘Occidente’ era rappresentato da Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti; l’interiorizzazione dell’Italia come ‘Sud del mondo’ avveniva sulla base dei diari di viaggio di intellettuali europei tradotti in giapponese. L’immagine che ne derivava era quindi di un Paese che non incuteva timore, premoderno, culla del Rinascimento e dell’artigianato. Dopo la seconda guerra mondiale, quando Italia, Germa-nia e Giappone si unirono nel Patto Tripartito (molti neonati del periodo presero il nome Roberto dalle sillabe iniziali delle tre capitali: Roma, Berlino, Tokyo), le informazioni e gli scambi aumentarono e il rapporto divenne più ambivalente: l’Italia rientrava nel superiore ‘Occidente’, ma era considerata inferiore in quanto premoderna (mafia, corruzione,

insta-bilità politica, inefficienza economica), tanto che nel 1986 un’inchiesta la dipinge come «il Paese più stupido ed emotivo». Eppure, venti anni dopo, un sondaggio della Camera di Commercio Italiana in Giappone riporta come gli italiani siano considerati molto gentili, creativi e sexy, anche se irresponsabili, tanto che molti giapponesi vorrebbero vivere in Italia (D’Emilia 2006). Dal 1990, in effetti, il numero di immigrati giapponesi in Italia è stato in costante aumento fino al 2009.6

Miyake riassume l’immagine dell’Italia in Giappone come ‘Occiden-te’ marginale, che riesce a sciogliere le tensioni pro- e anti- Occidente (Miyake 2012, p. 196).

Il ‘mito Italia’, nato negli anni Ottanta grazie alla pubblicazione di riviste dedicate alla fascia di mercato delle donne single, con più tempo e soldi da spendere, esplode negli anni Novanta, con il boom delle scuole di lingua e il corso di lingua italiana della TV nazionale tenuto da quello che è diventato il ‘rappresentante italiano’ più conosciuto in Giappone dopo Leonardo: Girolamo Panzetta (1962-), e con la pubblicazione dei romanzi bestseller su Cesare e l’Antica Roma della celebre scrittrice e opinionista Shiono Nanami.

È nella prima decade del nuovo secolo che diventa sempre più po-polare il filone dei gourmet manga. Se si considera che i manga nel 2011 rappresentavano un mercato da 3,6 miliardi di dollari,7 e che nel 2010 costituivano il 36% di tutto il mercato editoriale cartaceo (Miyake 2013, p. 286), è facile dedurre quanto, anche grazie all’immagine del life style promosso da questo tipo di cultura popolare, la cucina e il vino italiani abbiano visto un nuovo ulteriore lancio, con corsi di sommelier annessi, aperture di nuovi ristoranti e popolarità della cultura slow food: la consapevolezza dei costi sociali della modernizzazione ha portato il Giappone ad interessarsi alla decentralizzazione amministrativa italia-na, così come ad apprezzare la differenziazione regionale, la cultura del bar, dello slow food e degli agriturismi. Il passato e la tradizione italiana sono tutt’oggi apprezzati ma, più importante ancora, il suo presente non è più ‘giudicato’ da un presunto ‘superiore’ (Giappone o USA). La sua modernità alternativa è sicuramente un ricettacolo di proiezioni nostal-giche di vita autentica e rilassata, così come spunto per una modernità alternativa e sostenibile.

6 http://www.comuni-italiani.it/statistiche/stranieri/jp.html [13/01/2014]. 7 Fonte: Japan Book Publishers Association, 2011.

4 Conclusioni

La mediazione americana del dopoguerra, che tramite i soldati di origi-ne italiana ha introdotto in Giappoorigi-ne pasta, pizza, e l’espresso, reso po-polare dagli Starbucks contemporanei, sembra ormai essere superata in favore di una ricerca dell’autenticità, del lento e ‘vero’ modus

viven-di italiano. Diventa quinviven-di necessario indagare ulteriormente e quinviven-di

comprendere in che relazione si trovano i due concetti di «Italy made in Italy» e «Italy made in Japan», ovvero il gap fra il nation branding istituzionale, quello che l’Italia stessa esporta, e la sua singolare rice-zione in Giappone, dovuta alla diffusione di una cultura popolare che è da esso indipendente e si riscontra nella pasta e nel vino dei gourmet

manga, nella Venezia dei cartoni animati Pokémon, nelle serie

televisi-ve interamente dedicate alla scoperta di paesini italiani,8 nell’esperien-za della seconda generazione amante dell’Italia (i figli dei quarantenni di oggi, i ventenni degli anni Ottanta), e nelle riviste dedicate.

Dopo il nation branding, sembra essere giunta l’ora di iniziare a pro-muovere e appoggiarsi al city branding, prendendo esempio da KIKO Milano e dai suoi prodotti cosmetici, non ancora atterrati in Giappone ma assai popolari fra i siti giapponesi di vendita on line. La più che viva e ormai matura passione giapponese per l’Italia continua ad accogliere e a sostenere i prodotti italiani in attesa costante di esserne stupita e rinnovata.

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