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e le sue conseguenze sulla salute e le condizioni di vita dei lavoratori *

di lavoro della postmodernità, e verrà valutato il loro potenziale per la costi- tuzione di un nuovo movimento di difesa della salute nelle imprese.

IL TAYLORISMO, UN CONTRASSEGNO ORIGINARIO DEL SISTEMA INDUSTRIALE.

Nei primi anni Settanta anche nella Germania occidentale le condizioni di lavoro divennero oggetto di ampia discussione tra i lavoratori. Vennero in par- ticolare presi in esame il lavoro a cottimo e la divisione in turni dell’orario, che stressavano in specifico il sistema cardiocircolatorio, mentre le loro conse- guenze sul complesso psicofisico dell’esistenza umana e le relative malattie psichiche che ne derivavano vennero lasciate da parte. Ciò nonostante si trat- tasse di questioni già da tempo sollevate dalla ricerca1: all’inizio degli anni Venti

studiosi di medicina avevano messo in luce il nesso tra il lavoro industriale e le malattie nervose2. Strappati al loro contesto agricolo o artigianale molti la-

voratori vissero la disciplina di fabbrica come altamente stressante. A partire dagli anni Venti e Trenta simili problemi vennero tematizzati anche dalla so- ciologia, dalla psicologia e dalla psichiatria industriali3. Le pratiche produttive

riassumibili nei concetti di taylorismo o fordismo riducevano gli spazi di au- toorganizzazione dei lavoratori. Anche se queste limitazioni vennero tematiz- zate presto dalle scienze del lavoro, il «vecchio modello culturale del lavoro»4

sopravvisse in molti settori. Esso era contrassegnato dalla presenza di gerarchie di potere, controlli esterni ed eterodirezione, ma anche da un forte autocon- trollo reciproco all’interno delle relazioni tra i lavoratori. La dimensione col- lettiva permetteva automaticamente la messa in atto di comportamenti di solidarietà vicendevole verso i singoli lavoratori quando essi versassero in si- tuazioni difficili o fossero comunque in difficoltà5.

Negli anni Ottanta del secolo scorso si fece strada sempre più l’idea che il taylorismo fosse stato superato o che sarebbe stato superato in breve tempo, tanto in fabbrica quanto negli uffici o negli ospedali. Ne scaturirono riflessioni su una maggior possibilità dei lavoratori di autodeterminarsi, in una fase nella 1Michael Frese, Siegfried Greif, Nobert Semmer (a cura di), Industrielle Psychopathologie, Hans Huber, Bern-Stuttgart- Wien 1978.

2Joachim Radkau, Das Zeitalter der Nervosität. Deutschland zwischen Bismarck und Hitler, Carl Hanser, München 1998, pp. 190 e ss.

3Peter Thoma, Psychische Erkrankungen und Gesellschaft. Eine medizinsoziologische Analyse, Campus, Frankfurt a.M. 1978, pp. 96 e ss.

4Rainer Zoll, Alltagssolidarität und Individualismus. Zum soziokulturellen Wandel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1993.

5Wolfgang Hien, Rolf Spalek, Ralph Joussen, Gudrun Funk, Renate von Schilling, Uwe Hel- mert, Am Ende ein neuer Anfang? Arbeit, Gesundheit und Leben der Werftarbeiter des Bremer Vulkan, VSA, Hamburg 2002.

quale la politica era permeata da tentativi di «osare più democrazia»6e di «uma-

nizzare la vita lavorativa». Tuttavia, secondo i nuovi studi epidemiologici na- zionali e internazionali, oltre il 50% degli interessati lamentava una perdita di spazio d’azione7. Oggi diremmo che di norma la si avverte quando si viene

dominati da forme di organizzazione del lavoro gerarchiche, burocratiche, o comunque dettate dal mercato, cioè dai clienti8. È stata in particolare «la pres-

sione del mercato» che venne sentita dagli interessati quale fondamentale re- stringimento delle loro possibilità di azione. Anche se ai lavoratori venne data la possibilità di fissare alcune priorità, di variare i contenuti e i metodi del loro lavoro, di scandire da soli il proprio tempo e di scegliere liberamente i colla- boratori, i vantaggi con ciò raggiunti vennero presto riassorbiti da rigorose e spesso immutabili scadenze di consegna, dalla scarsità di risorse organizzative e personali, dall’estrema dilatazione dei tempi lavorativi e infine anche da un maggior grado di repressione delle proprie emozioni.

La ricerca sociologica odierna ammette un ritorno (Roll-Back) verso modalità lavorative a lungo ritenute superate. Kuhlmann9parla di un «ritorno della mo-

notonia nelle fabbriche» e Kratzer/Menz scrivono che «Il sistematico sovracca- rico di lavoro non è un errore del sistema, è diventato esso stesso un sistema»10.

Come ha già osservato Sennet11, le direzioni (post)moderne fissano consa-

pevolmente obiettivi irrealizzabili, per stimolare la struttura mettendo sezione contro sezione, squadra contro squadra, lavoratore contro lavoratore. Ne sca- turiscono «vincitori» e «perdenti», chi perde perde tutto, anche il lavoro e - nella maggior parte dei casi - la salute. Sul percorso restano sempre più esseri umani malandati fisicamente e psichicamente. Nelle loro ricerche sui cambia- menti intervenuti nel settore dell’informatica Gerlmaier e colleghi12riportano

una spaventosa crescita dei carichi e delle richieste rivolte ai lavoratori. Nel 2001 circa il 50% degli intervistati lamentavano di non potersi «staccare dal lavoro», nel 2009 erano diventati il 70%. Più di un quarto degli occupati mo- stravano segni di un esaurimento cronico, soprattutto per le urgenze e l’obbligo di far fronte a più impegni contemporaneamente.

6«Wir wollen mehr Demokratie wagen» (vogliamo osare più democrazia) fu lo slogan con cui nel 1969 Willy Brandt accompagnò la nascita del governo di coalizione tra SPD e FDP di cui fu cancelliere [NdT].

7Wolfang Hien, Arbeitsbedingte Risiken der Frühberentung, NW-Verlag, Bremerhaven 2006, p. 27 e ss. 8Ibidem.

9Martin Kuhlmann, Die Monotonie kehrt zurück in die Fabriken, in «Böckler-Impuls», 20, 2009, p. 3. 10Nick Kratzer, Wolfgang Menz, Von der Produktions- in die Reproduktionskrise, Vortrag beim Theorie-Workshop des Projektes Lanceo am 8. Juni 2010 im Institut für Sozialwissenschaftliche Forschung, München 2010.

11Richard Sennett, Der flexible Mensch. Die Kultur des neuen Kapitalismus, Berlin Verlag, Berlin 1998; Id., Die Kultur des neuen Kapitalismus, Berlin Verlag, Berlin 2005.

12Anja Gerlmaier, Angelika Kümmerling, Erich Latniak, Gesund altern in Hight-Tech-Branchen?, IAQ- Eigendruck, Report der Universität Duisburg-Essen, Duisburg 2010.

«NUOVA AUTONOMIA»: LA TAYLORIZZAZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ Nella più recente discussione sulla politica del lavoro si è fatta strada la tesi che l’attuale mondo del lavoro sarebbe caratterizzato da un alto grado di libertà, una libertà non immaginabile in precedenza o quantomeno incomparabilmente più alta13. Il contesto dell’economia capitalistica sarebbe certamente rimasto

inalterato, ma non sarebbe più il superiore a incitare al lavoro, quanto invece il solo mercato. C’è da mettere in dubbio una simile diagnosi. Da un lato i su- periori esistono ancora, o quantomeno esistono specifici colleghi e colleghe «posti al di sopra dei singoli» che possono esercitare pressioni attraverso un ampio arsenale di tecniche psicologiche. Si tratta o di sollecitare maggiori oneri o di stimolare la disponibilità verso la flessibilità, fino all’uscita volontaria dal lavoro, dei sottoposti. Sennett14riferisce di tecniche manageriali attraverso le

quali si stimola la concorrenza tra i lavoratori allo scopo di espellere dal lavoro specifiche persone. In questo contesto lo slittamento verso forme indiscutibili di mobbing è facile. Si può parlare ancora di autonomia in simili strutture lavo- rative? Il concetto di autonomia deriva dalla filosofia illuminista di Kant, se- condo cui i singoli sono messi in grado di essere autonomi nella misura in cui «sanno trovare una propria, consapevole strada all’interno di un ventaglio di comportamenti alternativi; ogni processo di autonomizzazione è tale solo nella misura in cui ci si chieda se un individuo percepisca l’ampliamento istituzionale dei singoli spazi di azione anche quale opportunità di autodeterminazione e sappia utilizzarlo»15. L’autonomia non è equiparabile a una «libertà assoluta»,

che non può sussistere date le affiliazioni materiali e sociali di ciascuno. L’au- tonomia ha però qualcosa a che fare con l’autodeterminazione. Così, a uno sguardo più preciso si vede che sotto il mantello di un modo di dirigere meno diretto la gestione tayloristica continua a sussistere o è stata reintrodotta nuo- vamente in maniera massiccia e che molte percezioni di autorealizzazione si sono rivelate illusorie. «La persistenza di ostinate e personali rivendicazioni sul valore del proprio lavoro e l’orgoglio dei propri sforzo e impegno può sfociare in rinunce, isolamenti, uscite»16, o, si può aggiungere, in malattie croniche.

La diagnosi di Marie-France Hirigoyen è calzante sia per la realtà impren-

13Klaus Peters, Dieter Sauer, Epochenbruch und Herrschaft – Indirekte Steuerung und die Dialektik des

Übergangs, in Dieter Scholz, Heiko Glawe, Helmut Martens (a cura di), Turnaround? Strategien für eine neue Politik der Arbeit, Herausforderungen an Gewerkschaften und Wissenschaft, Westfälisches Dampfboot,

Münster 2006, pp. 98-125.

14R. Sennett, Der flexible Mensch cit.; Id., Die Kultur des neuen Kapitalismus cit.

15Axel Honneth, Desintegration. Bruchstücke einer soziologischen Zeitdiagnose, Fischer, Frankfurt a.M. 1994.

16Stephan Voswinkel, Bewunderung ohne Würdigung? Paradoxien der Anerkennung doppelt subjektivierter

Arbeit, in Axel Honneth (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des gegenwärtigen Kapitalismus,

ditoriale tedesca, sia per quella francese17. Essa apporta una miriade di prove

sul fatto che le nuove pratiche manageriali gettino gli interessati nell’insicurezza e nell’angoscia. La filosofia manageriale parla permanentemente di libertà, au- tonomia, indipendenza e responsabilità individuale; non raramente vengono utilizzate espressioni chiave come quella di creatività o persino di autodeter- minazione. Contemporaneamente, secondo la pratica concreta delle direzioni, «L’autonomia del dipendente deve agire all’interno di puntuali confini. Nono- stante anche imprese tradizionali richiedano impiegati creativi esse temono in realtà ogni nuova idea e privilegiano il conformismo spirituale o quantomeno formale. […] Ai collaboratori si richiedono iniziative e responsabilità, ma più questi diventano autonomi, più diventano minacciosi per i loro superiori, che cominciano a temere di perdere il proprio potere». […] Ai collaboratori si chiede un grosso impegno, ci si aspetta che essi si impegnino personalmente […], ma non gli si concede che il lavoro fatto venga riconosciuto»18. L’autrice

menziona altri fattori, come l’attizzamento delle rivalità e della concorrenza da parte dei consigli di amministrazione e dei superiori, da cui consegue un latente abbrutimento dei modi di fare, falsità e cinismo, cioè un clima esisten- ziale di reale inimicizia, che si pone in eclatante contrapposizione con le linee ufficiali delle imprese.

Se quindi ci si chiede che cosa ne è della «svolta democratica» degli anni Set- tanta e Ottanta, dobbiamo osservare che alla catena di comando basata su ge- rarchie prestabilite se ne sostituisce un’altra fondata su tecniche di gestione basate sul mercato. L’organizzazione del lavoro è solo apparentemente «più libera» e solo in apparenza maggiormente umana e democratica. Questa tesi è rafforzata dai risultati della ricerca sulle conseguenze per la salute della globalizzazione del lavoro. Non solo ai lavoratori si richiede una crescente flessibilità19, ma le loro

esperienze pregresse, fonte dell’autostima e quindi fattori di mantenimento e tu- tela della loro salute, subiscono progressive svalutazioni. Manfred Albrod20, me-

dico aziendale in un complesso industriale, enumera in questo contesto alcuni fattori molto preoccupanti: «perdita dei saperi locali e del privilegio dell’espe- rienza, globale standardizzazione delle procedure e attrezzature con personale interscambiabile sul piano internazionale […], crescente determinazione esterna e caduta di ogni appello alla creatività dei singoli per effetto della centralizzazione 17Marie-France Hirigoyen, Macht-Spiele in der Arbeitswelt – die psychologische Sichtweise, Vortrag bei der Fachtagung. “Gute Arbeit – Konfliktmanagement gegen Mobbing” im DGB-Bildungszentrum Hattingen, 11. März 2009.

18Ivi, pp. 209, 211, 213.

19Cfr. Ulrich Pröll, Dietmar Gude, Gesundheitliche Auswirkungen flexibler Arbeitsformen. Risikoab-

schätzung und Gestaltungsanforderungen, NW-Verlag, Bremerhaven 2003.

20Manfred Albrod, Die Bedeutung psychomentaler Belastungen im betrieblichen Kontext, in «Arbeitsme- dizin – Sozialmedizin – Umweltmedizin», fascicolo 43, 2008, pp. 608-617.

globale delle modalità lavorative, restrizione dei compiti individuali e supervisione dei compiti attraverso la divisione del lavoro globale»21.

Nella comunità scientifica lavorativa l’assunto che gli spazi comunicativi siano necessari alla sopravvivenza dei singoli, soprattutto per la salute dei la- voratori, è incontestabile22; tuttavia la realtà della vita economica segue tutt’altra

logica e mette a rischio sempre di più le fondamenta della società e la salute della collettività. La comunicazione della DAK23secondo cui due milioni di

impiegati assumono regolarmente medicine che migliorino l’umore24– come

per esempio il Ritalin – per potere resistere nel lavoro è allarmante. Per questa ragione l’opinione costantemente circolante secondo cui le malattie psichiche nel mondo lavorativo «in realtà» non sussisterebbero ma verrebbero generate solo «dall’industria psichiatrica» va analizzata criticamente25: da un lato l’indu-

stria farmaceutica ha accresciuto la propria propaganda in maniera veramente irresponsabile, per fare in modo che l’assunzione dei suoi medicinali divenisse normale. In questo modo i problemi sociali vengono medicalizzati e contem- poraneamente anche individualizzati. D’altra parte nel mondo lavorativo le persone versano in condizioni veramente disagevoli.

Matuscheck e altri26parlano di una «taylorizzazione della soggettività quale

dominio sul lavoratore». Essi hanno fatto ricerche sui Call-Center e altri am- bienti dove si lavora sulla comunicazione giungendo al risultato che lo stretto controllo aziendale sui singoli persiste come nel passato, pur venendo amal- gamato con un approccio calibrato sul soggetto. Il sociologo François Dubet27

ha svolto numerose ricerche relative a lavori svolti in svariati settori e su sva- riate qualifiche e posizioni. Porgendo l’esempio del commesso e della cassiera ha mostrato che28le commesse e persino le cassiere devono trasformarsi in

«hostess della cassa», hostess che devono truccarsi e pettinarsi in un dato modo, che devono essere amichevoli in talaltro, che devono scegliere le parole da dire e che verranno controllate e valutate anche sulla base di questi indica- tori. Ciò che è davvero individuale viene espunto, le cassiere si sentono molto più spremute di un tempo. Il desiderio dei lavoratori di svolgere una attività

21Ivi, p. 611.

22Cfr. W. Hien, Arbeitsbedingte Risiken der Frühberentung cit.

23Deutsche Angestellen-Krankenkasse, Cassa mutua degli impiegati, una delle strutture del si- stema assistenziale sanitario tedesco [NdT].

24DAK, Gesundheitsreport, Eigendruck der DAK, Hamburg 2009.

25Klaus Dörner, Die Gesundheitsfalle. Woran unsere Medizin krankt, zwölf Thesen zu ihrer Heilung, Econ, München 2003.

26Ingo Matuschek, Frank Kleemann, Gerd-Günther Voß, Subjektivierte Taylorisierung als Beherr-

schung der Arbeitsperson, in «PROKLA – Zeitschrift für kritische Sozialwissenschaft», 38 (1), 150, 2008,

pp. 49-64.

27François Dubet, Ungerechtigkeiten. Zum subjektiven Ungerechtigkeitsempfinden am Arbeitsplatz, Ham- burger Edition, Hamburg 2008 (ed. or. Injustices. L’expérience des inégalités au travail, Seuil, Paris 2006).

sensata e interessata viene caricato di norme apparentemente morali imposte dall’esterno. Molteplici progetti delle direzioni mirano giusto a produrre una tale situazione emozionale. Il lavoratore dovrebbe «dissolversi totalmente nel proprio lavoro» e giungere in questo modo a «esperienze fluide»29. «Il desiderio

di divertirsi lavorando si traduce ora nella richiesta esterna di mettersi a dispo- sizione del lavoro provando divertimento»30. Le conseguenze psicologiche

sono catastrofiche. Sempre più diventano evidenti i contorni di un concetto politico che cerca di legittimare anche dal punto di vista del soggetto la fatica riversata da ogni singolo essere umano a beneficio del capitalismo.

Nel 2009 sulla «Zeitschrift für Arbeitswissenschaft» cominciò un dibattito attorno alle politiche del lavoro in cui intervennero anche i rappresentanti sin- dacali che si collocavano a sinistra dello schieramento politico31. Costoro pre-

sero posizione contro i rappresentanti del capitale che non vedevano più nell’Europa centrale (Mitteleuropa) i presupposti economici per la produzione industriale di massa. I rappresentanti sindacali quei presupposti li vedevano an- cora, e in maniera esplicita li individuavano nella manodopera altamente qua- lificata e motivata colà presente. Grazie ad essa le innovazioni e i miglioramenti qualitativi sarebbero stati maggiormente raggiungibili che non in qualunque altra parte del mondo. I sindacalisti facevano riferimento al patto di collabora- zione tra le classi stipulato nel dopoguerra nell’ambito del quale lo scambio tra un’idea di lavoro umana e «gli innalzamenti di produttività generati dalla moti- vazione e dalla disponibilità a carichi di lavoro maggiori da parte dei dipendenti» era ampiamente accettata. Umanità e redditività rappresentavano obiettivi dello stesso valore, che ora si vedevano respinti dal capitale. Bisognava che questa eguaglianza valoriale venisse ripristinata. I sindacati cercavano di esprimere i due momenti nel concetto del «buon lavoro». Ciò che viene perso è la sottoli- neatura degli autonomi interessi di vita e di impiego del proprio tempo come valore d’uso da parte dei lavoratori, come hanno a lungo argomentato anche i sindacati nel dopoguerra. In una fase di relativa pace sociale le condizioni di lavoro e di vita sono legati ai movimenti del capitale e quando questi danno luogo ad acute turbolenze essi rischiano di spingere i lavoratori sull’orlo del precipizio materiale o morale. Diventa perciò importante enucleare interessi autonomi e indipendenti dal capitale. La precarizzazione della salute e delle condizioni materiali di una fetta sempre più grossa della classe lavoratrice offre motivi sufficienti per la formulazione di un nuovo orientamento che vada nella 29Franz Josef Heeg, Frank Beinhold, Stephanie Bubel, Lust auf Arbeit. Bundesanstalt für Arbeits-

schutz und Arbeitsmedizin, Eigendruck, Dortmund 2003.

30I. Matuschek, F. Kleemann, G. Günther Voß, Subjektivierte Taylorisierung als Beherrschung der Ar-

beitsperson cit., p. 61.

31Richard Detje, Klaus Pickshaus, Hilde Wagner, Paradigmenwechsel in der Arbeitspolitik, in «Zeit- schrift für Arbeitswissenschaft», 60, 2009, pp. 140-143.

direzione di una «politica del lavoro espressa dal basso». Su questo si ritornerà. LE CONSEGUENZE DELLE NUOVE PRATICHE DIRIGENZIALI ORIENTATE ALLA GESTIONE DEL GRUPPO

I nuovi concetti di gruppo, come ad esempio quello di TPM – Total Pro- ductive Management32, sono ampiamente ambivalenti. Da un lato le gerarchie

vengono ridotte, o quanto meno ne viene minimizzata la stretta, ciò che al tempo stesso può comportare «maggiore democrazia» nel gruppo; dall’altro lato la pressione sulle responsabilità per la produttività e la redditività viene ele- vata al massimo, cosicché il gruppo stesso ne diventa il motore33. Quando il

ritmo lavorativo del gruppo sale e vale il principio che «ciascuno deve fare tutto quello che può» sussiste pur sempre la presenza di persone che non sono né veloci, né flessibili, né disponibili all’adattamento alla stessa stregua degli altri membri del gruppo. In assenza di controindicazioni i «lenti» verranno visti come una zavorra e saranno isolati, emarginati e spinti fuori dal gruppo. In molti set- tori lavorativi simili situazioni riguardano soprattutto i lavoratori più anziani, che vogliono svolgere il proprio lavoro particolarmente bene e in maniera or- dinata e coscienziosa. La pressione ad adattarsi alle sempre mutevoli condizioni organizzative porta al logoramento e cioè allo sviluppo di paure, alla messa in dubbio di sé, all’avvilimento, alla vergogna e a sentimenti di colpa. Molti cercano di neutralizzare i conseguenti problemi psichici ingerendo medicine. Secondo una stima delle casse mutua dei circa 4% di lavoratori malati sul totale un terzo devono essere considerati cronici. Quasi uno su tre si precipita senza essere guarito al lavoro per paura di perdere il posto, mentre invece dovrebbe stare a letto34. L’introduzione di nuove organizzazioni produttive e di obiettivi produt-

tivi mirati le une e gli altri al gruppo è legata fondamentalmente alla riduzione del personale. La pressione generata nel gruppo accresce la tendenza all’auto- selezione, nella maggior parte dei casi, cioè, i lavoratori che vengono stigma- tizzati decidono immediatamente o dopo lunghe malattie di rinunciare al lavoro.

Marie-France Hirigoyen racconta di un drammatico innalzamento del pro- cesso sociale di emarginazione nel mondo del lavoro percepibile in tutta Eu- ropa35. Osserva che certe situazioni di conflitto rimangono nella gran parte

32Constantin May, Peter Schimek, Total Productive Management. Grundlagen und Einführung von TPM

- oder wie Sie Operational Excellence erreichen, Cetpm Publishing, Ansbach 2008.

33Gerd Balko, Das totale Aussaugen einer Belegschaft, in «Arbeiterpolitik», 47, 2006, pp. 17-21, 2007; Id., Gegen die Mitmacher und „Fit“-Macher. Debattenbeitrag, in «Arbeiterpolitik», 48, 2007, pp. 8-11.

34Technikerkrankenkasse (TK) (a cura di), Beweg Dich Deutschland“. TK-Studie zum Bewegungsver-

halten der Menschen in Deutschland, Techniker-Krankenkasse, Pressestelle, Hamburg 2013.

35Marie-France Hirigoyen, Wenn der Job zur Hölle wird. Seelische Gewalt am Arbeitsplatz, Beck, Mün- chen 2002.

dei casi «senza voce». In molte imprese si parlerebbe di «democrazia» e «di- versità», ma secondo l’autrice i dirigenti delle imprese desiderano «cloni che pensano tutti allo stesso modo e che pensano esattamente quello che devono pensare». In questa prospettiva i conflitti di interesse non esistono per defini- zione, i conflitti vengono trasferiti in ambito individuale; il singolo «in qualche modo» deve scioglierli o non scioglierli da solo. Questa individualizzazione rende muti. I conflitti vengono rimossi, vivono a livello subliminale e tornano sotto forma di sintomi psicosomatici. Hirigoyen parla in questo frangente di una «patologia della solitudine». Non si tratta quindi per niente di una cultura democratica; l’isolamento e l’eliminazione di quanti non si vogliono o non si possono sottomettere al dettato dell’adattamento sarebbero voluti. Pertanto la studiosa afferma che l’ammontare della violenza morale sul posto di lavoro