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Lavoro e fatica nelle istituzioni operaie alla svolta del XIX secolo in Italia

delle ricerche analitiche sulle prestazioni mediche e soprattutto sulla distinzione fra malattie generiche e malattie connesse al lavoro dal punto di vista del mu- tualismo. Infatti, come è noto, grande distanza separava gli scopi contenuti nelle migliaia di statuti di cui disponiamo – per l’Italia, la serie delle pubblica- zioni minori della biblioteca nazionale di Firenze ne possiede centinaia tutti accessibili alla lettura – dall’uso effettivo dei fondi.

Possiamo dunque solo ipotizzare la latitudine di queste competenze osser- vando quando possibile gli scopi e le rivendicazioni degli scioperi e la denuncia delle condizioni lavorative degli anni di cui ci stiamo occupando, quindi la fine dell’Ottocento fino alla Grande Guerra, nonostante i grandi progressi dell’età giolittiana. Per tutto il periodo considerato i lavoratori potevano a stento “per- mettersi” precise rivendicazioni sulle condizioni di lavoro perché innanzitutto a essere nocivo era l’orario di lavoro per cui esistevano limiti legali solo per i minori e le donne nel caso del lavoro notturno.

Quanto alle posizioni del mondo imprenditoriale, nonostante i molti studi analitici sul paternalismo industriale relativamente recenti1, restano valide le os-

servazioni di Stefano Merli2a proposito di Alessandro Rossi, il grande indu-

striale laniero di Schio. Come si evince anche dall’epistolario con l’amico di gioventù Luigi Luzzatti, l’industriale, che pure era noto per il paternalismo eser- citato nel suo territorio, era rigorosamente ostile a ogni legislazione sugli infor- tuni e sull’orario di lavoro, come indebito intervento nel rapporto fra operai e proprietari anche se, al contrario, era estremamente favorevole all’introduzione di tariffe protettive doganali verso le quali, grazie alla pressione degli interessi industriali, si sarebbero ormai orientati i governi della Sinistra storica.

Come rileva un interessante e sintetico saggio di uno studioso non specia- lista3, il problema degli infortuni e della protezione della salute dei lavoratori

in generale emerge come tale, innanzitutto all’attenzione delle istituzioni pub- bliche, nella svolta del secolo, che anticipa la stagione delle riforme dell’età giolittiana. Vi si cita l’Aipi (Associazione degli industriali per la prevenzione degli infortuni) che nasce nel ’94 con l’adesione di 103 soci in rappresentanza di 98 imprese. Fra gli scopi di questo istituto privato, che svolse però a un certo punto un ruolo di supplenza delle istituzioni, tra l’altro, la realizzazione di ispezioni periodiche nei cantieri degli aderenti, senza precisare quale autorità le dovesse ordinare; lo studio di norme differenziate per le varie industrie, la 1Si vedano le ricerche contenute nell’Annale della Fondazione GianGiacomo Feltrinelli Tra fab-

brica e società.Mondi operai nell’Italia del Novecento a cura di Stefano Musso, Feltrinelli, Milano 1999.

2Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze 1972, 2 voll. Si veda anche Maria Grazia Meriggi, Cooperazione e mutualismo. Esperienze di integrazione e conflitto sociale in Europa fra Ottocento e Novecento, Franco Angeli, Milano 2005.

3Antonio Cardinale, Salute operaia. Le origini delle istituzioni per la protezione dei lavoratori in Italia

divulgazione delle conoscenze sulla prevenzione tecnica e sulla legislazione fino allora emanata. Come osserva infatti il saggio citato,

«l’Associazione crebbe con regolarità ma sicuramente, come sottolineato nel rapporto del con- siglio direttivo sull’esercizio 1899, si era avuto un notevole incremento a seguito della legge che istituiva l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni del lavoro4[…] dell’adesione cumu- lativa degli industriali della seta dato che le ditte associate erano diventate in quell’anno 1.125, con 1941 stabilimenti e circa 277.000 operai»

(di cui ben 210.800 appartenevano al settore tessile e in particolare 133.000 all’industria della seta e 55.600 a quella cotoniera)5. La mancanza di precise

norme e del finanziamento di un corpo professionale di addetti alle ispezioni dei luoghi di lavoro per accertare l’applicazione delle norme igieniche e di quelle sull’orario differenziato per donne e fanciulli prosegue in Italia fino al periodo della mobilitazione industriale nel corso della Grande Guerra dove gli ispettori raggiungeranno il centinaio restando però circa un quinto di quelli addetti a funzioni analoghe, ad esempio, nel Regno Unito6.

Nel 1905 l’Aipi era stata «delegata alla supplenza di un ruolo istituzionale dello stato»7. Infatti la legge del ’98 si affidava alle associazioni per le ispezioni previste

in mancanza, come si è già visto, di un adeguato, numeroso e competente corpo di ispettori ministeriali. Secondo la relazione dell’Aipi per l’esercizio 1901 «gli stabilimenti associati venivano esonerati dalle ispezioni ordinarie di qualsiasi funzionario dello stato intese ad accertare l’osservanza delle disposizioni della legge sugli infortuni del la- voro e relativi regolamenti»8.

Altre tappe importanti erano state: la fondazione della Cassa nazionale di assicurazione per gli infortuni sul lavoro, sorta il 18 febbraio 1883 «sotto gli auspici di Luigi Luzzatti» – protagonista di tante iniziative a favore di quella che si sarebbe chiamata in seguito economia sociale – grazie a una convenzione fra il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (Maic), nella persona del ministro Domenico Berti e le Casse di Risparmio di Milano, Torino, Bo- logna, Genova, Roma, Venezia, Cagliari, il Monte dei Paschi di Siena, il Banco di Napoli e quello di Sicilia. Le istituzioni finanziarie stipulatrici avevano sot- 4Legge del 17 marzo 1898 sugli infortuni operai sul lavoro, votata durante il governo di Rudinì, le cui riforme furono – potremmo dire paradossalmente – perfezionate dal governo del generale Pelloux instaurato dopo le agitazioni della primavera dello stesso anno provocate dal forte rincaro del prezzo delle farine e il successivo stato d’assedio. Agitazioni che investirono soprattutto i grandi centri urbani e industriali, in particolare Milano.

5A. Cardinale, Salute operaia cit., pp. 16-17.

6Per una ricostruzione riassuntiva in proposito si veda Giovanna Procacci, Warfare-welfare. In-

tervento dello stato e diritti dei cittadini 1914-1918, Carocci, Roma 2013.

7A. Cardinale, Salute operaia cit., p. 17. 8Ivi, pp. 28-29.

toscritto una convenzione che prevedeva un fondo di garanzia di 1.500.000 di lire, più del 40% delle quali fornite dalla Cassa di Risparmio di Milano9.

Momenti ulteriori in direzione del controllo sanitario dei luoghi di lavoro sono la fondazione della clinica del lavoro di Milano e le iniziative di alcuni comuni, ma soprattutto l’esordio nel 1902, grazie alla fondazione dell’Ufficio del Lavoro e del Consiglio superiore del Lavoro, dell’impegno a promuovere un corpo di ispettori del lavoro indipendenti dalle aziende. La creazione di un ministero del Lavoro distinto da quelli economici e finanziari era stato come è noto un’antica aspirazione dei lavoratori appena si esprimevano politica- mente. Era la richiesta avanzata dai gruppi di operai che si riconoscevano nella proposta di Organisation du Travail e da Louis Blanc come loro portavoce, fin dalla primavera 1848. Di fronte all’opposizione dei liberali ampiamente rap- presentati nel governo provvisorio al suo posto era stata costituita una com- missione incaricata di studiare i problemi del mercato del lavoro, che aveva indicato innanzitutto l’esigenza di ridurre l’orario di lavoro – a 10 ore a Parigi e 11 nel resto della Francia: una dimostrazione evidente che l’orario di lavoro era una questione di rapporti di forza ben prima che una questione tecnica e di mercato – e di abolire lo sfruttamento del lavoro a domicilio da parte dei

sous-traitants. Cinquant’anni dopo, l’intitolazione di un ministero al Lavoro era

ancora in discussione per la maggior parte dei paesi – in Francia fu istituito nel 1906 dal governo Clemenceau che pure non era esente da scontri durissimi con la Cgt – ma un segretariato alle questioni dei lavoratori era invece un’esi- genza che si era ormai imposta come funzionale allo stesso sviluppo indu- striale. Anche in questo caso, istituti privati – provenienti, a Milano, da quel singolare intreccio fra mazzinismo progressista e interesse per il socialismo che aveva dato origine all’Umanitaria – avevano anticipato questa istituzione con un «Ufficio del Lavoro» il cui bollettino costituisce una fonte fondamentale per la storia sociale dell’Italia nella svolta fra il XIX e il XX secolo.

Anche gli osservatori più attenti a valorizzare gli spunti innovativi della pre- videnza antinfortunistica privata devono – in fondo con toni diversi ma in so- stanza convergenti – concordare con gli storici come Stefano Merli, che parlano, sulla scorta della stampa operaia, di «ergastoli dell’industria», rilevando che il ritardo dell’Italia era forte

«e inefficaci risultavano le misure adottate per la carenza dell’organico, la dispersione delle com- petenze e l’impiego suppletivo della forza pubblica su questioni che avevano numerosi risvolti tecnici e professionali. [Anche dopo la fondazione dell’Ufficio del Lavoro e dell’Ispettorato del Lavoro] gli inizi furono molto prudenti per cui spesso veniva sacrificato il rispetto della legge alle esigenze produttive e alle pressioni dei gruppi d’interesse. […] non aiutava lo scarto esistente fra i principi della legislazione spesso abbastanza rigidi […] frutto di complessi equilibri delle po- sizioni delle forze politiche e [del]la capacità pragmatica di attuazione sostanziale dei principi che

è basata su compromessi di natura tecnica che salvaguardano gli obbiettivi attraverso la definizione di procedure studiate di volta in volta al di fuori di uno schema eccessivamente vincolante»10.

Si può contestare questa interpretazione ma comunque servirsene per con- statare che una «democrazia industriale» – individuabile forse, all’inizio del XX secolo, in alcuni aspetti delle premesse del «compromesso laburista» inglese11

– non era nemmeno vagamente presente all’orizzonte del riformismo degli anni Dieci in Italia.

Cercando di comprendere quanto siano presenti rivendicazioni riguardanti esplicitamente la salute al lavoro e i luoghi di lavoro come causa di malattie nelle rivendicazioni delle organizzazioni attive nel periodo della svolta del se- colo, diciamo subito che a emergere sono: le condizioni igieniche dei labora- tori, polveri, mancanza di aerazione e di luce, problemi largamente presenti anche nelle abitazioni operaie; e il rischio di incidenti. La popolazione lavora- trice almeno fino alla Grande Guerra – data assunta per praticità, non perché rappresenti, in Italia, uno spartiacque nell’intervento pubblico a proposito di salute e alimentazione, quale fu ad esempio nel Regno Unito e in parte in Fran- cia con l’attenzione di Albert Thomas per le condizioni delle lavoratrici coin- volte nella mobilitazione industriale – doveva confrontarsi con problemi di sottoalimentazione messi in evidenza innanzitutto dalle misurazioni del servi- zio militare, che riguardavano, diversamente ma altrettanto gravemente, i con- tadini e gli operai di città. Come ricorda Paolo Sorcinelli12

«per la maggior parte dei soldati il vitto fornito dall’esercito rappresentava un sensibile progresso se non altro per la sua regolarità rispetto alla situazione alimentare, spesso ai confini della fame, del periodo precedente la chiamata alle armi. Così bastava appena un anno di servizio militare per denunciare “un significativo aumento del peso nonché un accrescimento della statura”».

Ancora Sorcinelli ricorda che

«nel 1865, su mille nati vivi, 230 morirono nel primo anno di vita; quarant’anni dopo, grazie alle “più rigorose protezioni contro la diffusione delle malattie infettive” ma soprattutto grazie al “migliorato tenore di vita delle classi popolari” e a una “volontaria limitazione della prole […] specialmente nelle città” che consentivano “più amorose ed efficaci cure ai bambini” il rapporto era di 166 ogni mille nati vivi e scenderà a 113 nel 1931»13.

10Ivi, p. 113.

11Il solo autore che a mio parere ha restituito i conflitti e le convergenze fra classi e culture po- litiche dell’Inghilterra all’inizio del Novecento con le aspirazioni di rinnovamento radicale di cui i lavoratori furono allora protagonisti è stato Vittorio Foa, in un testo di cui gli storici non si sono abbastanza appropriati: La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Ro- senberg & Sellier, Torino 1985, II edizione Einaudi, Torino 2009 con una interessante introduzione di Pino Ferraris.

12Paolo Sorcinelli, Per una storia sociale dell’alimentazione. Dalla polenta ai crackers, in Storia d’Italia.

Annali 13 -L’alimentazione, Einaudi, Torino 1998, passim e specialmente pp. 474-475. 13Ivi, p. 475.

restando tuttavia un rischio incombente e non un’assoluta eccezione nel per- corso della vita delle famiglie. Del resto che i salari sia dei lavoratori rurali sia di quelli urbani imponessero di istituire un rapporto diretto fra salute e alimen- tazione lo confermano due eventi fra fine secolo e Grande Guerra. La rivolta del 1898 che rivelò agli stessi socialisti, che aspiravano ormai a regolare e nor- mare i conflitti dentro lo sviluppo industriale, che le condizioni del proletariato operaio anche nelle città più ricche e industrializzate, nella stessa Milano, pote- vano essere messe in crisi dal semplice aumento per alcune settimane del prezzo delle farine. La mortalità per fame che colpì una porzione, tanto significativa da essere statisticamente rilevabile, della popolazione delle province di Treviso, Venezia e Vicenza investite dalla rotta di Caporetto nel corso del mese di no- vembre del 1917. Ricorda ancora Paolo Sorcinelli che la mortalità passò allora da una media prebellica di 15 a 45 per mille abitanti e una successiva Reale Commissione valutò in 9.747 i morti per fame, pari al 22,4 per cento del totale dei morti, una circostanza tragica che se era collegata a una situazione eccezio- nale e del tutto imprevista non poteva che rimandare alla precedente sottoali- mentazione che aveva reso fragili la salute e la vitalità di quelle popolazioni.

Popolazioni tuttavia impegnate in intensi conflitti. Nelle lotte individuate e suddivise per temi da Stefano Merli fra gli anni Ottanta e l’età giolittiana nel- l’intero territorio nazionale, che costituiscono tuttora il repertorio più com- pleto raccolto in un volume14, vediamo: lotte contro le macchine per cui,

secondo la Commissione d’inchiesta sugli scioperi nominata nel 1878, gli ope- rai tessili di Valle Mosso non si prestavano nemmeno a comunicare all’impren- ditore le loro “furbizie” collaborando al perfezionamento dei telai meccanici. Lotte che, nel contrasto alla razionalizzazione consentita dai nuovi macchinari, si oppongono all’introduzione e alle tariffe del cottimo visto innanzitutto come causa di disoccupazione sia nelle industrie meccaniche sia nei cantieri sotto- posti per di più alla disoccupazione stagionale; poi come causa della intensifi- cazione della fatica, dei lunghissimi orari di lavoro e come elemento di divisione fra i lavoratori. Le agitazioni più numerose sono per il salario. L’orario di lavoro, se poteva arrivare a 13 ore riconosciute dall’impren- ditore, si poteva anche prolungare in caso di straordinari a 15/16 ore di permanenza in fabbrica e tuttavia per registrare agitazioni volte esplicitamente all’obbiettivo della sua riduzione bisogna arrivare alla generalizzazione dello sciopero del I maggio all’inizio del XX secolo.

Cominciano tuttavia a essere dichiarati scioperi per la sicurezza sul lavoro, in occasione di gravi incidenti, sulla spinta di un’emozione collettiva. Quelli che Alessandro Rossi e il linguaggio popolare – espressione, sempre secondo Merli, di atteggiamento fatalistico e rassegnato – chiamavano ancora “disgrazie”. Si

tratta di scioperi che si manifestano – anzi potremmo dire che esplodono – in occasione di tragedie che suscitano un’emozione condivisa anche nel territorio dove avvengono. La più nota di queste reazioni è quella successiva al disastro edilizio occorso in porta Vittoria a Milano nel settembre 1889, in occasione del quale l’organizzatore Silvio Cattaneo, dirigente del Partito operaio italiano, fece, al funerale degli 11 muratori morti, un discorso contro gli speculatori e le col- lusioni che trovavano nei poteri amministrativi locali, che ne provocò l’arresto15.

Nel novembre successivo un’analoga manifestazione a Roma si era conclusa con la richiesta di una legge antinfortunistica. Del resto i rischi caratteristici del lavoro edilizio in condizioni di febbre delle costruzioni avevano già creato un certo consenso intorno alle agitazioni dei muratori che nel corso di uno scio- pero dell’autunno 1886 avevano fondato la Società di Miglioramento che avrebbe dato vita alla Società cooperativa di costruzioni lavoranti muratori; una associazione che avrà una vita lunga e piena di successi fino alla fine del Nove- cento16. Ci sono scioperi di questo tipo a Savona e a Terni, nell’industria side-

rurgica, e nel ferrarese, nell’industria di trasformazione, principalmente gli zuccherifici e i saponifici, un settore importante ed emergente in quel territorio ed estremamente nocivo. Per riuscire a organizzare scioperi che associassero la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a quella contro gli incidenti e la no- cività degli impianti era necessario anche disporre di una organizzazione pre- cedente già abbastanza radicata. Così era certamente per i tipografi. Così per la nascente industria di trasformazione appena citata. Un esempio significativo. La cooperativa lavoranti calderai di Genova, nel 1901, invia due operai a mon- tare le caldaie di una raffineria a Pontelagoscuro. I due calderai, provenienti da un ambiente in cui l’organizzazione sindacale e camerale era assai progredita, riescono a convocare una riunione di operai delle diverse fabbriche della zona spiegando loro che le 13 e più ore di lavoro che provocavano incidenti dovuti a stanchezza e gli incidenti causati dalle macchine e dagli ambienti malsani po- tevano essere contrastati solo con la fondazione di leghe e di una Camera del Lavoro. I due calderai sono immediatamente licenziati e lo sciopero di solida- rietà degli operai meccanici addetti alle macchine dura un solo giorno. Mancava l’esperienza organizzativa, non c’erano casse di resistenza e dalle campagne ve- nete circostanti potevano arrivare squadre di disoccupati. Un episodio però che segnerà l’esordio di un movimento organizzato in quel territorio.

La descrizione analitica delle agitazioni in Lombardia nel periodo di vita e d’azione del Partito operaio italiano, a disposizione ormai da decenni dei lettori,

15Catastrofe edilizia. I nostri fratelli vittime del lavoro, in «Il Muratore» (Milano), 6 ottobre 1889. 16La Società cooperativa di costruzioni lavoranti muratori e la Società cooperativa selciatori e posatori, che nel frattempo erano diventate importanti realtà imprenditoriali, saranno liquidate solo nel 2012.

Anni Per Per Contro una Per Altro

aumento diminuzione diminuzione aumento

di salario di orario di salario di salario

1878 7 2 4 - 13 1879 14 1 4 - 8 1880 16 2 1 - 9 1881 25 5 4 - 12 1882 30 1 4 - 23 1883 42 2 6 - 17 1884 51 3 6 4 29 1885 49 3 6 2 30 1886 44 8 13 1 18 1887 37 5 7 2 30 1888 48 8 13 2 44 1889 60 6 13 3 31 1890 81 11 14 2 36 1891 53 16 24 3 - Totale 557 73 119 20 306

ci permette di guardare da vicino le motivazioni esplicite delle agitazioni degli operai nella svolta del secolo e quindi anche le loro priorità17. Questa descri-

zione è preceduta dall’analisi delle fonti già allora disponibili sulle statistiche degli scioperi18. Ecco la tabella riassuntiva.

17Maria Grazia Meriggi, Il Partito Operaio Italiano. Attività rivendicativa, formazione e cultura dei militanti

in Lombardia (1880-1990), Franco Angeli, Milano 1985, passim e in particolare pp. 133-256.

18Statistica degli scioperi 1884-1891, Roma, Maic 1892. 19M. G. Meriggi, Il Partito Operaio Italiano cit., pp. 137-138. Tab. 1 - Fonte: Statistica degli scioperi 1884-1891 cit., p. 2419.

Questi dati indicano un netto e costante aumento di comportamenti che rappresentavano comunque dei reati ma con i quali gli stessi prefetti preferivano spesso mediare ricorrendo ad arresti di qualche giorno solo in caso di scontri

fuori dei luoghi di lavoro. Nonostante la lunghezza già indicata della giornata lavorativa, non sono molte le agitazioni che hanno questa rivendicazione al cen- tro. Prevalgono nettamente gli scioperi per aumento di salario secondo questa proporzione: nel decennio 1878-’87, il 54%, nel 1888-’91 il 48%, contro il 5% e l’8%, rispettivamente, per diminuzione d’orario. Negli stessi periodi sono il 29% gli scioperi dovuti a «cause diverse» fra le quali l’inchiesta non individua la salute e l’ambiente di lavoro come una ricorrenza tale da doversi segnalare spe- cificamente. Fra queste “cause diverse” si riscontrano soprattutto la difesa di diritti consuetudinari, la contestazione di multe, di comportamenti arbitrari da parte dei capi, la protesta per qualche licenziamento, in totale assenza di riferi- menti legislativi o contrattuali. Sono gli scioperi che Alessandro Schiavi, fun- zionario dell’Umanitaria nel decennio successivo, denunciava come irrazionali e disorganizzati, di cui erano spesso protagoniste giovani donne.

Un’offesa a una compagna, un’aggressione fisica, una violazione dell’ “eco- nomia morale” nonostante tutto vigente in un luogo di lavoro potevano pro- vocare scioperi di lavoratrici che non avevano saputo o potuto procurarsi quei fondi di resistenza che secondo gli organizzatori del tempo – ricordiamo in- nanzitutto Rinaldo Rigola – avevano una duplice funzione: permettevano di innalzare i coefficienti di vittoria degli scioperi consentendo di prolungarne la durata ma erano anche un segno di forza dell’organizzazione e un “messaggio”