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Il consolidamento del volto ambiguo dell’Italia nell’immaginario inglese

Dall’analisi dei testi finora presi in esame, abbiamo avuto modo di osservare come, nell’isola britannica, il panorama teatrale e quello prosastico, che spesso agirono fra loro in simultanea, si siano trovati ad assumere un ruolo determinante nella costruzione di uno stereotipo negativo sull’Italia e sui suoi abitanti. Fra le cause che incentivarono questo sentimento, che consisteva in un misto di odio e di paura diretto contro la penisola, sono da menzionare, prime fra tutte, le controversie di carattere politico- religioso, che andarono ad inasprire oltremodo la visione dell’Inghilterra nei confronti del Bel Paese, stigmatizzato come dimora ideale del demonio e patria di individui meschini, infidi e senza scrupoli.

La penisola dovette, per così dire, pagare il fio dei suoi legami intrinseci con il mondo cattolico, che aveva, nel palazzo Vaticano, la sede nevralgica del suo potere. A partire dalla fine degli anni ‘20 del sedicesimo secolo, l’autorità papale si inimicò il sovrano inglese, un tempo suo alleato, per le sempre più frequenti intromissioni nella politica interna dell’isola britannica, diventandone così il più acerrimo nemico: il monarca optò dunque un cambiamento drastico, che spezzasse per sempre ogni rapporto con l’universo ecclesiastico straniero, e la via più semplice da percorrere per ottenere un risultato del genere era rappresentata dall’attacco diretto contro le pratiche della Chiesa di Roma, inteso in un’accezione che superava di gran lunga l’ambito materiale. Tutto ciò che riguardava il mondo cattolico venne infatti criticato, sistematicamente, sotto il profilo etico - morale: sacramenti religiosi, come la confessione e l’eucarestia, vennero sbugiardati, il culto feticistico delle icone fu abolito e lo sfarzo tipico delle cerimonie liturgiche subì una durissima condanna. I riformisti inglesi si impegnarono così in un’agguerrita reductio ad absurdum262 della messa in latino, del purgatorio e del sistema delle indulgenze, raffigurati come mezzi di cui il clero si avvaleva per indottrinare passivamente la comunità dei fedeli e per estorcere loro denaro.

262 Cfr. Nicoletta Caputo, Playing with power, gli Interludi Tudor e i percorsi della riforma (Napoli:

Gli organi istituzionali fomentarono, in questo modo, il sospetto della popolazione inglese nei confronti della Chiesa di Roma e in particolare contro la sua massima autorità, il Papa, dipinto, sotto ogni punto di vista, come un anticristo. E’ fondamentale osservare, inoltre, come alcuni nodi centrali della questione, fra cui, per esempio, le critiche rivolte alla tendenza alla spettacolarizzazione proposta dalla chiesa cattolica, o l’importanza attribuita alla vuota esteriorità, nonché l’eccessiva rilevanza riservata agli adiafora263, siano aspetti che si possono ritrovare, trasposti in chiave politica, nell’opera che rese noto al grande pubblico il nome di Machiavelli, tradotti, rispettivamente, in necessità di conservare l’immagine pubblica, abilità di simulazione e spirito materialistico: coincidenze che avrebbero giocato un ruolo determinante nel compromettere ulteriormente l’immagine della penisola. Il concetto dirimente di imago sine re, applicato alla condotta del monarca (che doveva in particolare, mimare un comportamento virtuoso piuttosto che possederlo) veniva caldeggiato dallo scrittore fiorentino con le stesse finalità perseguite dalla Chiesa cattolica, che incentivava, parimenti, l’impianto barocco delle celebrazioni per celare delle carenze di fondo: si trattava in pratica di garantire il mantenimento dell’ordine attraverso l’atrofia delle masse, spesso catturate più dall’apparenza che dalla sostanza.

La nozione di semblance, ossia “parvenza”, allargata sia al modo di vivere la fede religiosa, sia al modo di amministrare il governo di uno stato, venne progressivamente identificata, in Inghilterra, con il marchio distintivo dell’italianità, di cui si era recepita soprattutto la tendenza al camaleontismo, attitudine tesa al trionfo della finzione, dell’artificio sulla verità e della forma sul contenuto. La ricezione del trattato di Machiavelli avvenne quindi in un clima già teso, apertamente ostile nei confronti della penisola, rea di ospitare sul suo suolo gli immorali ministri della Chiesa, che iniziarono ad essere rappresentati dai drammaturghi inglesi, sulla scia della protesta anti-cattolica, come i principali Vices delle loro messinscene. E c’è da dire, anche, che le notizie, i racconti e i fatti di cronaca nera che provenivano proprio dall’ Italia contribuirono a loro volta ad incrementare la leggenda oscura di questo paese. Oltre i confini nazionali, la fama di questo territorio era stata messa a dura prova, inoltre, dalla

263 Cfr. Peter Marshall, The Reformation, Lollardy and Catholicism, in K. Cartwright (ed), A Companion

diffusione di opere di dubbia moralità, come quelle di Pietro Aretino, a sfondo dissacrante e licenzioso, o dal successo riscosso da un certo tipo di novellistica a sfondo macabro, i cui principali rappresentati furono Cinzio Giraldi e Matteo Bandello, autori di storie brevi con epiloghi tragici, in genere drammi familiari che si concludevano con ampi spargimenti di sangue. In un contesto saturo di pregiudizi come questo, il Principe di Niccolò Machiavelli fu la goccia che fece traboccare il vaso: in un’Inghilterra già dichiaratamente ostile nei confronti di tutto ciò che riguardasse la sua avversaria, un’opera dalla portata rivoluzionaria come la silloge aforistica dello scrittore fiorentino non contribuì certo a migliorare l’opinione dei britannici nei confronti del Bel Paese. Tuttavia, se abbiamo chiarito come l’italiano-fobia fosse qualcosa di già ampiamente radicato nell’immaginario elisabettiano, non dobbiamo trascurare l’alta carica esplosiva, per la spudorata infrazione di codici etici e letterari, racchiusa all’interno del suddetto libro di massime.

Allo scritto realizzato dall’ingegno machiavellico possiamo infatti, non a torto, applicare la definizione di “opera aperta” formulata da Umberto Eco264: con questo concetto si allude a un testo volutamente ambiguo, che lascia aperti spiragli per letture diverse, determinanti nell’incentivare una molteplicità di interpretazioni; le generalizzazioni che si fanno del testo letterario appaiono pertanto garantite dalla mancanza di trasparenza in questo insita. Se è vero che, con il Principe, Machiavelli ruppe drasticamente i ponti con la tradizione, rinnovando un genere sclerotizzato come quello degli specula, una volta ultimata la lettura di questo scritto non possiamo far altro che constatare, con la stessa certezza, di essere sprovvisti dei supporti necessari per comprendere quale sia il vero punto di vista dell’autore in merito alle questioni esposte ed esaminate.

Se volessimo utilizzare, per maggiore chiarezza, un termine ripreso dalla riflessione critica di Wolfang Iser, diremmo che il trattato del fiorentino si presta a “sovrasensi non univoci”265 , dato il suo elevato grado di “non definibilità” o “indeterminatezza”, caratteristiche che concedono largo spazio a un intervento ermeneutico da parte del lettore: ciò che non passò certo inosservato agli occhi del

264 Cfr. Umberto Eco, Opera Aperta (Roma: Bompiani Tascabili, 2000), p.12 265 Cfr. Wolfang Iser, l’atto della lettura, (Bologna: Il Mulino, 1897), p.64

pubblico inglese, e che ne destò le perplessità, non fu dunque, soltanto, il contenuto fortemente anti-convenzionale dell’opera di Machiavelli, ma anche la ricercata enigmaticità della forma con cui questa si presentava; sembrava, infatti, che il suo autore volesse mantenersi vago ed evasivo rispetto alla materia trattata.

Rimanendo nell’ambito della critica della ricezione, potremmo concludere questa breve parentesi sulla portata rivoluzionaria insita a priori nel Principe con le riflessioni di Eric Donald Hirsh, a cui dobbiamo l’importante distinzione fra meaning e significance266: se con il primo termine si fa riferimento al significato originario di un testo letterario, con il secondo si intendono invece delle “applicazioni di lettura”, ossia i sensi che di quella stessa opera sono stati dati in seconda battuta, in luoghi e tempi diversi. Per quanto riguarda la nostra analisi, il trattato di Machiavelli, per la sua natura sfuggente, costituisce di per sé un caso particolare, mostrando una predisposizione ad assumere significati che vanno ben oltre le sue intenzioni di partenza: se il pubblico inglese, e più in generale quello europeo, rimasero altamente scandalizzati da quest’opera, ciò era dovuto non soltanto alla precarietà della congiuntura storico- politica in cui il Pincipe aveva iniziato a circolare in versione a stampa o manoscritta, ma anche per la sua elusività intrinseca, con punti lasciati volutamente in sospeso.

E’ indispensabile, tuttavia, arrivati a questo punto, fare i conti anche con un altro aspetto primario nella cristallizzazione della psicosi inglese nei confronti della penisola: per fare maggiore chiarezza, sarà necessario tornare per un attimo a focalizzarci sul ricorrente impiego, nel teatro elisabettiano, dei cosiddetti National stereotypes. Le immagini che si consolidarono nel repertorio drammaturgico, e di conseguenza nella communis opinio, collegavano infatti specifici vizi a determinati popoli, fino a favorire la completa identificazione fra gli uni e gli altri; per citare solo alcuni esempi, si ricordi la perenne condizione di ebbrezza alcolica associata all’olandese, la violenza sanguinaria al turco, la perfidia all’italiano e l’inossidabile vanità al francese. Ma in questo processo di “etnificazione” dei difetti morali, sarebbe ora opportuno chiedersi: quale ritratto dettero di se stessi i cittadini inglesi? A tal proposito, appare quanto mai utile rifarsi all’affermazione del filosofo scozzese David Hume, che nella sua opera

266 Cfr. Eric Donald Hirsh, Teoria dell’Interpretazione e critica letteraria (Bologna: Il Mulino, 1983),

maggiore, A Treatise of Human Nature, asserisce: “the British have the least of National character”267. Apprendiamo, dunque, che i britannici, per quanto li riguardava, procedettero alla creazione di un’immagine piuttosto neutrale, senza particolari connotazioni.

Ma quale fu il fattore socio-psicologico da cui dipendevano queste convenzioni letterarie che determinarono il “replacement of allegorical figures by representatives of other European or exotic nations”268? Proseguendo nella sua riflessione, Hume fornisce una parziale risposta alla nostra domanda: alla base di questa consuetudine adottata di frequente nel teatro elisabettiano è da ravvisare, innanzitutto, una misura di tipo difensivo-preventivo. Precursori, se vogliamo, dell’ideologia dei regimi totalitaristici del XX° secolo, gli inglesi di epoca elisabettiana, per stimolare il senso di coesione di un neonato Paese, non solo si preoccuparono di preservare il loro credito agli occhi di eventuali visitatori, ma anche di costruire delle anti-nazioni, condannate come modelli negativi e pericolosi da imitare: si trattava quindi di attribuire, per antitesi, all’Inghilterra, quei valori assenti nelle deviate realtà straniere, dipingendo la patria britannica come una sorta di “promised land”, all’interno della quale si coltivavano esclusivamente comportamenti virtuosi.

C’è però dell’altro. Lloyd Edward Kermode, all’interno del suo saggio intitolato Aliens and Englishness in Elizabethan Drama, distingue due alien stages in Inghilterra, evidenziando come, con il passare del tempo, sia cambiata radicalmente la prospettiva dello straniero, sempre più impiegato, all’interno delle rappresentazioni, per celare sotto mentite spoglie l’identità del real Englishman269. Se i primi scrittori per la scena rappresentarono l’Englishness in maniera idealizzata, come combinazione perfetta di “strenght of mind and body”, attribuendo ai loro compatrioti una supposta superiorità morale e culturale, scrittori, viceversa, più sovversivi accentuarono l’aspetto dell’ironia: la creazione di un contesto fittizio, generalmente un setting in cui si verificavano le

267 Cfr. David Hume, A Treatise of the Human Nature (London. Clarendon Press, 1896), p.183 268 Cfr. Waldemar Zacharasiewicz, Imagology Revisited, (Amsterdam- New York: Rodopi, NY 2010),

pp.467-489

269 Cfr. Lloyd Edward Kermode, Aliens and Englishness in Elizabethan Drama (Cambridge:Cambridge

peggiori aberrazioni, si configurava come una “liminal zone of equivocal licence”270, ossia uno spazio virtuale strategico che dietro all’espediente del “displacement” consentiva all’autore di muovere critiche alla realtà in cui era calato, senza esporsi al rischio di incorrere nella censura. L’uso dei “foreign labels”271 nel teatro elisabettiano può essere inserito, dunque, nella categoria delle strategie neutralizzanti a cui il drammaturgo era costretto a far ricorso per conservare formalmente l’ortodossia, nonostante il potenziale sovversivo del messaggio che intendeva veicolare: la topicalità272, ossia una mise en abyme della Londra dell’epoca, ottenuta mediante una “dislocation”, sfruttava a suo vantaggio, infatti, l’alto grado di ricettività del pubblico di allora, capace di cogliere ogni input e di decifrare qualsiasi allusione contenuta all’interno della messinscena.

Se quella dell’ironia era quindi un’arma sapientemente impiegata per non contrastare in modo troppo eclatante le autorità e le istituzioni, l’identità che si proponeva del “tipo inglese” doveva invece far presa, principalmente, sul pubblico, composto da cittadini di ogni classe sociale: l’apparente sobrietà dell’English character, che si attesterà in definitiva, aveva infatti lo scopo di fungere come rimedio d’emergenza, per nascondere la sua carenza di attributi peculiari. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, interviene, in modo illustrativo, la sopracitata Mary Floyd Wilson: nella sua analisi, la critica statunitense afferma che la nazione inglese del sedicesimo secolo faceva ancora fatica a trovare dei tratti che la contraddistinguessero nello specifico273. In opposizione a irlandesi e scozzesi, che mostravano uno spiccato senso sciovinistico, gli abitanti dell’isola britannica stentavano ad affermare le loro radici culturali e tradizionali.

Questa mancanza di determinazione li avrebbe portati, nel corso dei decenni, a sviluppare, piuttosto, una tendenza naturale all’imitazione di altre culture. E’ possibile trovare conferma di queste osservazioni sulla vulnerabilità dell’ “English body and

270 Cfr. Mary Floyd Wilson, English Ethnicity and Race in Modern Drama (Cambridge University Press,

Cambridge: 2003), pp.1-23

271Cfr. Robert C. Jones, Italian Settings and the "World" of Elizabethan Tragedy, Studies in English

Literature, 1500-1900, Vol. 10, No. 2, Elizabethan and Jacobean Drama, Rice University, 1970

272 Cfr. Nicoletta Caputo, Playing with power, gli Interludi Tudor e i percorsi della riforma, Liguori

Editore, 1999, p.6

273 Cfr. Mary Floyd Wilson, English Ethnicity and Race in Modern Drama (Cambridge: Cambridge

language” procedendo, semplicemente, a un veloce spoglio di alcuni plays elisabettiani: il clown Frisco di Everyman in His Humour, capolavoro di Ben Jonson, asserisce ad esempio che gli inglesi sono condannati alla penetrazione e all’alterazione straniera, senza contare il caso ancora più emblematico offerto dal personaggio di Portia, in The Merchant of Venice , che liquida sprezzantemente come un “dumb” il barone inglese, in quanto privo di stile e linguaggio. L’assenza di una solidità strutturale del paese, sprovvisto del necessario spirito unitario per ritenersi al sicuro, non solo sfavoriva l’Inghilterra nell’ipotesi di eventuali attacchi esterni, ma andava a minare anche il clima interno all’isola, esponendola pericolosamente allo scoppio di rivolte e focolai fratricidi.

Questo senso di precarietà legato all’Englishness si tradusse, in questo modo, nella cosiddetta personalità “wavering”274 dei cittadini inglesi. Questo attributo è stato coniato da Sara Warneke per designare, per l’appunto, un’identità fluttuante, che cercava di far passare per propri tratti dell’individualità altrui. Un esempio evidente di “furto culturale” è dato per esempio dalla ripresa di maschere della commedia dell’arte italiana trasfigurate in personaggi caricaturali del teatro comico inglese, o dallo stesso linguaggio, scaturito dalla combinazione di idiomi stranieri, primo fra tutti il latino, ma anche il tedesco e l’italiano: sarà l’intellettuale elisabettiano John Florio a sottolineare, in particolar modo, l’egestas della lingua britannica, definita irrisoriamente “hodge podge” (miscuglio) e “mongrel” (bastarda)275.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare che quello fra l’Italia e l’Inghilterra fu un rapporto complesso, e non solo puramente astioso: se da un lato il Bel Paese finiva perlopiù con l’essere associato al ricettacolo di ogni perversione, dall’altro costituiva un’imprescindibile fonte dalla quale attingere in ogni campo dell’esperienza teorica ed empirica. Sebbene il grande pubblico continuasse ad acclamare le opere italiano-fobiche, sarà bene precisare che, in una temperie culturale in procinto di sfociare nel secolo dei lumi, cominciavano a palesarsi, accanto ai promotori del deviato stereotipo italiano, i primi tentativi di un approccio più obiettivo e scientifico nei

274 Cfr. Sara Warnecke, Images of the Educational Traveller in Early Modern England, in: John M.

Theilmann ; Albion. A Quaterly Journal Concerned with British Studies, vol. 27 No.3 (Chicago: The North America Conference on British Studies, 1995), pp.471-473

275 Cfr. Lloyd Edward Kermode, Aliens and Englishness in Elizabethan Drama (Cambridge:Cambridge

confronti della realtà, percepita ora nel suo incessante dinamismo e nella sua essenza proteiforme.

A cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, la pratica del Grand Tour sorse proprio con l’intento di sfatare i pregiudizi infondati sulle razze che si erano tramandati nel corso dei secoli, e la stessa Inghilterra mostrò di fare passi avanti, in questo senso, con scrittori come Thomas Browne, schierato in prima linea per evitare la propagazione di generalizzazioni infamanti nei confronti delle diverse nazionalità. L’atteggiamento critico adottato da questo autore è ben testimoniato all’interno del suo diario, Vulgar Errors, all’interno del quale, contravvenendo alla visione standardizzata che era stata fornita della penisola, ammoniva il pubblico di lettori a diffidare dell’estrema faziosità di certi traveller’s books, denunciando la tendenza diffusa ad inferire da un fenomeno particolare un paradigma universale, come si era soliti fare quando si attribuivano a un’intera nazione i vizi di una cerchia ristretta di individui. Il crimine sanguinoso appariva per esempio a Browne come l’evidente manifestazione del male nel mondo: ciò risulta sufficiente a dimostrare quanto l’opera di questo scrittore abbia segnato un importante superamento delle prospettive ristrette e diffamanti che si erano succedute nel corso del tempo, sfociate poi nella costruzione dell’immagine disforica dell’Italia, consolidatasi, soprattutto, con le affermazioni ingiuriose di Thomas Nashe: “The Italyens aboue all other Natyons, most revenge by treasons and espetially are skillfull in making and giving poysons”276.

In un periodo in cui si iniziarono ad intravedere i primi cambiamenti nel modo di vedere se stessi e il mondo, permasero, tuttavia, delle resistenze retrograde, ancora votate alla sublimazione dell’immagine inglese: un caso di questo tipo è rappresentato, in particolare, da Sir Richard Blackmore, che ancora nel 1711, nel suo poemetto fisiologico-teologico The Nature of the Man, riallacciandosi agli sviluppi della climate theory, situò la Gran Bretagna in un’ideale middle zone277, area del mondo in cui, grazie alle condizioni atmosferiche temperate, esistevano tutti i presupposti per la creazione della migliore delle civiltà esistenti.

276 Cfr. Thomas Nashe, The Unfortunate Traveller, or the life of Jack Wilton (London: Penguin Classics,

1978), p. 312

Alla luce di questi fatti, da cui emerge una visione ancora fortemente capziosa della realtà, sarà bene riesaminare quali furono le principali caratteristiche del setting elisabettiano. Anche in sede drammaturgica, le local references, nella maggior parte dei casi, mancavano completamente di nitidezza e precisione. I riferimenti spaziali si limitavano spesso ad evocare luoghi emblematici, generali, archetipici e immaginari, come l’Arcadia, la fairie land, un bosco qualsiasi, un’isola non meglio precisata.

Tuttavia, ciò che queste ambientazioni condividevano erano le loro caratteristiche “basic”, ossia il fatto che non si situassero in un country in particolare, ma nel più generico world, comprensivo della dimensione terrena e ultraterrena, celeste e infernale; non a caso, si iniziò proprio a parlare, con Shakespeare, della nozione di theatrum mundi, imperniato su una concezione di “indeterminatess of place and time”278.

Anche i numerosi riferimenti al mondo italiano devono essere quindi sussunti all’interno di questo paradigma universale, il cui piano principale era innanzitutto “terrestrial”279. Ciò che andò ad inficiare in negativo l’immagine italiana è da connettere proprio a questa vaghezza di fondo, capace però di far presa sugli spettatori grazie al potere verbale e immaginifico del teatro inglese di questo periodo: gli spazi non venivano infatti fedelmente riprodotti nei loro tratti caratteristici, bensì evocati attraverso l’uso di immagini retoriche, come metafore e similitudini. L’uso del linguaggio figurativo, che favoriva la sovrapposizione fra l’ambientazione italiana e le trame con finale tragico, fece sì che si sviluppassero, in questo modo, patterns associativi o analogici nell’immaginario comune britannico, portato per un automatismo a collocare omicidi, perversioni e nefandezze sul suolo della penisola.

Un esempio paradigmatico di quanto il teatro sia stato decisivo nella costruzione

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