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"Ombre e pregiudizi: la deriva machiavellica dell'Italian character nella letteratura elisabettiana"

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Academic year: 2021

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-INTRODUZIONE -PARTE 1: La ricezione

Cap.1. De principatibus : Le rifrazioni di un’opera dalla portata rivoluzionaria nel teatro elisabettiano

Cap. 2. Il Principe in Europa : tra timida accoglienza e chiusura delle frontiere

-PARTE 2: Il teatro

Cap.1. La metamorfosi dell’ allegoria in dramatis persona Cap. 2. I Machiavels

- Par. 2.1. The Tempest: due volti machiavellici

- Par. 2.2. Richard III: il Machiavel naturalizzato inglese - Par. 2.3. Iago: il Machiavel melanconico

Cap. 3. The Italian characters

- Par. 3.1.The Winter’s Tale: la psicosi del sovrano di Sicilia - Par. 3.2.The Duchess of Malfi: il senso dell’onore

-PARTE 3: La prosa

Cap. 1. l’influenza dei traveller’s books, della prose fiction e dei conduct books nella visione complessiva della realtà italiana

Cap. 2. La teoria del clima, la teoria degli umori e i loci classici. I supporti pseudo-scientifici e tralatici alla deviazione italiana

-CONCLUSIONI: il consolidamento del volto ambiguo dell’Italia nell’immaginario inglese

-Tanto nomine nullum par elogium

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Introduzione

Lo strutturalista Roland Barthes, esponente illustre della Nouvelle Critique, postula l’esistenza di un’equazione perfetta tra opera e mito: in aperta polemica con gli approcci teorici finalizzati a ripristinare il significato originale di un testo letterario, in modo da farlo coincidere con la volontà dell’autore che l’ha realizzato, il semiologo francese dirotta piuttosto l’attenzione sul grado di autonomia presente nel prodotto artistico, il cui carattere aperto all’ esplorazione ermeneutica1 lo porterebbe, di per sé, ad eludere qualsiasi meccanismo contenitivo o recinto esegetico. Il caso che ci viene offerto dal manuale di massime di Niccolò Machiavelli può essere riassunto efficacemente dalla definizione sopracitata, che assimila la natura in fieri del libro al più classico fra i racconti della tradizione, destinato a dare vita, in epoche e spazi diversi, a continue revisioni e reinterpretazioni. Con il genere mitologico, il Principe condivide infatti la stessa sorte. La sua ideologia, fin da subito, nel rimbalzo elastico da un angolo all’altro dell’Europa, assunse le più svariate declinazioni, non di rado antinomiche tra loro.

Il presente lavoro critico, articolato in tre macrosezioni, si ripropone di tracciare, in maniera perspicua, quali furono le cause che portarono alla nascita del mito noire di Machiavelli in Inghilterra, la cui leggenda crebbe di pari passo con la messa in circolo della sua opera più celebre. Quest’analisi tenta inoltre, in seconda istanza, di far comprendere come il pensiero enucleato in questo trattato finì per entrare irrimediabilmente in collisione con la potenza del medium teatrale di epoca elisabettiana, allora nel pieno della sua età aurea. Il primo capitolo, incentrato sulla ricezione della silloge aforistica in Inghilterra, costituisce la premessa introduttiva di quest’elaborato: il riepilogo, in nuce, delle caratteristiche anticonvenzionali dell’opera di Machiavelli, preparano a quello che sarà l’atteggiamento cautelare e sospettoso della sua prima accoglienza nell’isola britannica, diffidente verso ogni prodotto proveniente dal paese avversario, già avvolto da una spessa cortina di pregiudizi.

Il fulcro centrale della tesi prende invece in esame il modo in cui la drammaturgia elisabettiana, cavalcando l’onda della fama oscura che circondava il politologo

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fiorentino, rifuse i tratti deviati del Vice medievale e le idee distorte che circolavano sul Machiavelli, facendoli convergere nella rappresentazione standard del personaggio italiano: la carrellata di Machiavels ed Italian characters dei plays shakespeariani e websteriani si ripropone proprio di illustrare, a titolo esemplificativo, i marchi caratteristici di questo personaggio, nonché le sue modalità retoriche e d’azione. La parte conclusiva si occupa poi di descrivere quali furono gli elementi sussidiari che concorsero alla sedimentazione dei preconcetti contro l’Italia: fra questi ebbero un ruolo decisivo i diversi filoni della prosa, come quella scientifica, con il riaccredito della climate theory e della teoria degli umori, quello didascalica, con l’opera di Roger Asham , The Scholemaster , quella narrativo, con il romanzo di Thomas Nashe, The Unfortunate Traveller e quella di vaggio, che andava a ricomprendere i numerosi racconti dei viaggiatori.

L’explicit è dedicato, infine, a un bilancio complessivo degli argomenti delineati all’interno del corpus di questa trattazione e offre una serie di considerazioni sulle diverse necessità che in epoca rinascimentale spinsero gli Inglesi ad adottare un atteggiamento critico nei confronti della penisola, con una conseguente rilettura dell’italiano-fobia.

In sintesi, sulla creazione dello stereotipo dell’Italian character, tradottosi poi in Machiavel, giocò un ruolo fondamentale l’intersezione esplosiva fra diversi fattori: primo fra tutti il contesto storico, già stravolto dalla bagarre religiosa, a cui si assommarono, con conseguenze gravose, l’elevato tasso di negatività contenuto nel Principe2, ed il successo riscosso dalle teorie pseudo-scientifiche contro le terre del sud, senza contare, infine, l’incidenza pervasiva dei traveller’s books, che raccontavano di peripezie ed esperienze traumatiche vissute in Italia. L’individuo losco, infido e dotato, come l’Ulisse omerico, di “multiforme ingegno” diventò così l’incarnazione emblematica dell’Italian character, personaggio che riuniva, nella sua personalità, i tratti della deviazione morale ereditata dai Vices di ascendenza medievale e quelli attributi allo stesso Machiavelli in una prospettiva completamente disforica. Si tratta quindi di comprendere come la costruzione di una dramatis persona si sia trasformata

2 Hans Robert Jauss, Storia della letteratura europea come provocazione (Torino: Bollati Boringhieri,

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progressivamente in stereotipo del reale individuo nazionale, andando a costituire un cliché talmente vivido e graniticamente radicato nell’immaginario comune inglese, da rimanere l’incarnazione ideale del villain anche nei secoli a venire, di cui i romanzi gotici di Ann Radcliffe o di Matthew Lewis forniscono un icastico esempio, confermando, ancora una volta, come la metamorfosi sia la costante che accompagna la personalità maledetta di questo personaggio e la sua longeva leggenda letteraria.

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Parte I. La ricezione

Capitolo I

De Principatibus: le rifrazioni di un’opera dalla portata

rivoluzionaria nel teatro elisabettiano

La reazione perlopiù scandalistica dell’Inghilterra elisabettiana nei confronti del Principe di Niccolò Machiavelli può fornire un chiaro esempio di come questo Paese fosse ancora impreparato ad accogliere un’opera di tal fatta secondo una corretta prospettiva scientifica. La presa di distanza moraleggiante nei confronti del manuale aforistico attesta l’assenza di quei presupposti che avrebbero permesso, altrimenti, di sviluppare con esso un dialogo critico: basti pensare, a tal proposito, che in nazioni come l’Inghilterra e la Francia non vennero mai recepite, salvo rari casi, la complessità e la ricchezza del pensiero machiavellico, da cui si continuarono ad estrapolare, piuttosto, idee totalmente estranee al lavoro di partenza, o, nel migliore dei casi, banalizzanti rispetto allo spessore teorico-politico del contenuto originale.

Nel decennio compreso tra il 1558 e il 1568 assistiamo al sorgere di un fenomeno alquanto singolare: dal nome di Machiavelli viene fatta scaturire una lista di aggettivi che assumono, fin da subito, una connotazione semplicistica e negativa; fra gli attributi più diffusi, sono da annoverare “machiavélisme”, “machiavéliquee “machiavellian”3, coniazioni linguistiche degne di nota perché, se dimostrano, da una parte, che il nome e la fama del fiorentino si stavano sempre più diffondendo a macchia d’olio, costituiscono anche la prova, dall’altra, che si trattava di una ricezione complessivamente disforica del suo scritto più noto al grande pubblico. Attorno al Principe si stava creando quel fascino maledetto che fece evolvere il suo successo in modo direttamente proporzionale allo sconcerto che suscitava. Fu così che, sulla scia delle progressive riduzioni della fine ideologia governativa enucleata dal Machiavelli, estremamente articolata nella sua concisione, ed imperniata sulla logica del materialismo (la prassi che riduceva l’agire umano a fatti storici e naturali concreti), non rimase altro se non l’arbitrarietà delle

3 Cfr. Romano Luperini, la Scrittura e l’interpretazione, storia e antologia della letteratura italiana nel

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convinzioni che leggevano nelle teorie esposte dal trattatista fiorentino vere e proprie dichiarazioni di cinismo e opportunismo. Ma che cosa, allora, potremmo chiederci, determinò che la silloge di massime di Machiavelli diventasse, in tempi record, un vero e proprio caso letterario internazionale?

A primo impatto, il Principe, composto nel 1513, si presenta come un’opera unitaria e dall’estensione relativamente breve: ripartito in ventisei capitoli, ciascuno dei quali introdotto da un titolo in lingua latina, è ulteriormente suddivisibile in quattro macro-sezioni tematiche; la prima riguarda le varie tipologie di principato, la seconda affronta la questione delle milizie mercenarie e delle milizie proprie, la terza individua i comportamenti che si addicono a un buon principe e la quarta, infine, si incentra sull’incognita della fortuna, una forza che in larga parte sfugge al controllo dell’uomo4. Già da questa breve sintesi degli argomenti contenuti all’interno dell’opera di Machiavelli possiamo renderci conto di quanto questa abbia veramente poco a che fare con il genere dello speculum principis di epoca medievale, a cui spesso, negli anni che seguirono la sua prima pubblicazione, venne erroneamente accostato: non si trattava, infatti, semplicemente, di un “manuale di buona condotta”, atto a prescrivere un elenco di virtù che meglio si confacessero al reggente di uno stato, bensì di un manifesto politico, teso a suggerire un’efficace programma d’azione in un periodo di estrema crisi per l’Italia, stretta nella morsa di Francia e Spagna, le due monarchie che stavano attestando la loro egemonia in Europa. In un frangente storico così delicato, Machiavelli mostra di respingere ogni ideale umanistico e platonizzante circa l’operato del principe: il trattatista afferma che l’azione diplomatica di chi detiene il potere deve rimanere completamente esente dal giudizio di valore; l’unico fattore a cui il buon regnante è subordinato è costituito dalla ragion di stato, che può fargli prediligere soluzioni lontane dalle prescrizioni della morale comune.

Con il Principe si viene quindi ad incrinare quel ritratto immacolato del reggente che doveva riunire nella sua persona quell’insieme di qualità etiche e cavalleresche che gli avrebbero consentito di governare rettamente uno stato e di rapportarsi nel modo più equo possibile con i suoi sudditi: se volessimo rappresentare il lavoro di Machiavelli attraverso un concetto dell’ermeneutica di Jauss, potremmo parlare del Principe come di

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un’opera che rinnova prepotentemente l’orizzonte di attesa5, poiché spezza ogni astrazione sublimante per calare il monarca in un contesto reale, in cui occorreva saper uscire dai rarefatti schemi rinascimentali per ottenere effettivi vantaggi concreti. Questa visione così sovversiva, che demoliva del tutto il tradito archetipo del principe ideale, proponeva l’avvento di una nuova figura politica, ingegnosa e spietata nei suoi calcoli, capace di adattare il suo comportamento al variare continuo delle situazioni e a seconda degli interessi in ballo: ciò basterebbe, già di per sé, a bollare di sediziosità il lavoro del fiorentino, che, con il suo scritto, inaugurava una nuova, riprovevole piramide di valori, il cui podio veniva occupato, indiscutibilmente, dal principio dell’utile. Machiavelli, dunque, nella sua opera, effettua un’ardita operazione che ha, come obiettivo primario, quello di relativizzare concetti ritenuti comunemente universali e assoluti. Uno degli effetti più visibili di rivitalizzazione del significato dell’antico patrimonio di valori è dato dall’innovativa nozione che si propone della virtù6: se in senso teologico ed evangelico è sinonimo di “gentilezza”, “grazia” e “bontà”, nella visione latina, poi riversatasi in quella rinascimentale, passa invece ad indicare il “valore individuale”, la “forza”, “il vigore militare” e “l’onestà”. Il Principe, dal canto suo, sopravanza entrambe le interpretazioni: l’autore vi fa riferimento per intendere quella capacità dinamica e operativa che consente di sostenere il contrasto con l’avversità dei tempi e della fortuna7. L’unico ideale etico contemplato dall’intellettuale fiorentino è infatti quello che rispecchia la posizione dell’umanista civile: quella che dovrebbe essere la prima qualità del principe perde, in questo modo, la sua matrice spirituale o ultraterrena, per essere rivalutata come un fatto meramente pratico, la cui efficacia si determina esclusivamente in base alle conseguenze che derivano dal suo uso. Perso ogni legame con la trascendenza, la virtù viene ora stimata come “possibilità concreta di soggetti storici e commisurata alla produttività delle loro scelte”8.

5 Cfr. Hans Robert Jauss, Storia della letteratura europea come provocazione (Torino: Bollati

Boringhieri, 1999), p.197. Con la nozione di “orizzonte di attesa” si intende l’insieme delle aspettative che si creano nel lettore nei confronti di un testo che deve ancora leggere, sulla base delle sue conoscenza pregresse.

6 Cfr. F. Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna (Firenze: La Nuova Italia, 1970),

p.121

7 Cfr. Luperini, op. cit., p.323 8 Cfr. ibid., p.325.

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La politica, ripensata come categoria a parte rispetto alla religione e alla morale, completamente svincolata e autonoma dal campo delle astrazioni metafisiche, richiede al reggente comportamenti ben diversi da quelli previsti normativamente negli specula principis: negli affari di stato, vizi e virtù possono talvolta cambiare di segno, rovesciandosi nel loro esatto contrario; a determinare la giustezza di un’azione non è più lo spirito con cui la si intraprende, bensì gli effetti che da questa scaturiscono. L’estratto seguente, nella sua brevità, è emblematico di come il nuovo modello di principe proposto dal Machiavelli abbia perso, ormai definitivamente, ogni residuo legame con la tradizione:

et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’possa difficilmente salvare lo stato; perché se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù e, seguendola, sarebbe la ruina sua, e qualcun’altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la sicurtà e il benessere suo9.

Il trattatista fiorentino insiste a più riprese, tra l’altro, sulla necessità di ricorrere alla brutalità e alla violenza nel caso in cui queste ultime si rivelino armi opportune per risolvere situazioni critiche, contravvenendo nuovamente, in maniera esemplare, a qualsiasi etichetta prevista dalla morale comune. Nella visione pragmatica della vita politica che si afferma progressivamente nel Principe non devono esistere vincoli per colui da cui dipendono le sorti di un intero paese, né si ammette che le sue scelte possano essere in qualche modo inquadrate in un obsoleto diagramma di comportamenti convenzionali. Il ritratto del monarca offerto in quest’opera è quello un individuo scaltro, temerario, audace, camaleontico, disposto al raggiro: e ciò che fomenta maggiormente lo scandalo è il fatto che ognuno di questi “difetti” venga rappresentato sotto una luce positiva, dato che, in un contesto dove tutto è aleatorio, non si esclude che anche dal vizio possa dipendere il mantenimento del potere e il buon funzionamento di uno stato.

In antitesi ai codici etici tramandati dagli specula, Machiavelli formula l’ipotesi che le nuove qualità del principe siano piuttosto da individuare nello spirito di adattamento alle situazioni e nell’attitudine al trasformismo: obiettivo primario del

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regnante è infatti quello di scampare alla “ruina”; e laddove il comportamento eticamente corretto non sia sufficiente ad assicurarlo in tal senso, il governante viene autorizzato a ricorrere a provvedimenti di emergenza, fra cui tradimenti e omicidi. Imparare a simulare e dissimulare si rivela un fatto di vitale importanza, inoltre, negli intrighi politici: “a uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere averle”10. Se all’interno della sua silloge Machiavelli non respinge, dunque, del tutto, la presenza della virtù intesa nel senso della tradizione classica e umanistica, la dipinge tuttavia non come valore profondo e assoluto, bensì come una finzione momentanea e un’ostentazione superficiale; la parvenza di magnanimità e clemenza può infatti rivelarsi alle volte imprescindibile per la conservazione dell’ordine e dell’armonia nelle relazioni interne ed esterne.

Per quanto riguarda la ricezione fuorviante del lavoro di Machiavelli, possiamo fare riferimento al saggio critico di Ugo Dotti, intitolato la Fenomenologia del Potere. Nel suo lavoro argomentativo, l’autore pone l’accento, in particolare, su uno degli aspetti che più contribuirono alla cristallizzazione della leggenda negativa di Machiavelli. Lo studioso inizia la sua riflessione tratteggiando a grandi linee il quadro storico-letterario all’interno del quale il Principe fece il suo ingresso: con l’avvento dei regimi signorili si era infatti intensificata la produzione di trattati sulla figura dell’ottimo principe che, dall’antichità al Medioevo, non aveva mai cessato di essere oggetto di ideali proposte pedagogiche. In sintesi, assistiamo, in questo periodo, alla fioritura di trattati che si attestano sulla medesima falsariga, come quelli di Bartolomeo Platina, al servizio di Ludovico III Gonzaga, Giovanni Pontano, intellettuale vicino al monarca Alfonso V D’Aragona, e da ultimo, ma non di minore importanza, Baldassare Castiglione, autore del celeberrimo il Cortegiano, un manuale di comportamento che stilava una lista di buoni costumi. Questi scritti non solo propongono la stessa immagine del principe umanista, foriero di valori come la clemenza, la liberalità e l’amore per la pace e la conoscenza, ma anche quella del precettore, dipinto, in ognuna di queste opere, come un uomo saggio e istruito, la cui missione consiste nel guidare l’azione politica del sovrano nel rispetto dell’etica normativa e comportamentale. Dotti mostra, nel suo

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studio, come Machiavelli si discosti pericolosamente dai limiti intrinseci delle idee medievali, soprattutto per quanto riguarda la sua posizione contraria ad assunti universalmente consolidati. Nel Principe, per esempio, si sostiene la predilezione per l’essere temuti piuttosto che amati dai propri sudditi, o, anche, la necessità di venir meno alla parola data se l’occasione lo prevede11.

In questa nuova realtà fluida, che è poi quella naturale in cui l’uomo vive, niente appare preordinato: in un ambito in continuo divenire come quello politico, pertanto, la moralità non può sorreggersi su fondamenta religiose o ontologiche, ma sulla concreta capacità di indirizzare gli eventi verso un fine preciso; di conseguenza anche il vizio, se usato per la necessità collettiva e per il benessere dei cittadini, viene tollerato e, anzi, caldamente consigliato. Nella fenomenologia del potere, Dotti arriva a concludere che la portata rivoluzionaria del Principe consista dunque nella nuova e sovversiva eticità che propone, nonché nel ruolo da protagonista che torna ad attribuire all’uomo in larga parte artefice del suo destino:

Per la prima volta, dopo Aristotele ed Epicuro, il bene e il male, il vizio e la virtù, non vengono determinati da se stessi e in astratto, ma in riferimento alla nuova contraddittoria dialettica della prassi sociale degli uomini. Questo modo di procedere, che congiunge profondamente la prospettiva etica allo stato delle conoscenze scientifiche, era del tutto fuori dalla prospettiva dell’Umanesimo12.

Antesignano di quella visione materialista che avrebbe dominato nel mondo moderno, Machiavelli unitamente al suo pensiero, si trovò così ad essere ripudiato dalla maggior parte dei suoi contemporanei, ancora legati a visioni destinate ad avere vita breve, perché troppo ideali per essere applicate alla complessità del mondo.

Con il Principe, il trattatista fiorentino superava, di gran lunga, sia la prospettiva rinascimentale, rivalutando la forza bruta e la ferinitas insite nell’uomo, sia quella cristiana, posponendo, nella nuova, invertita, scala di valori, la religione alla politica. Il primo punto, inoltre, riassunto icasticamente nelle allegorie della “golpe” e del “lione”, offre un importante supporto per la comprensione della dirompenza assoluta dell’opera di Machiavelli: nel manuale del fiorentino, infatti, si considerano come equipollenti la natura bestiale e razionale presenti nell’essere umano, senza

11 Cfr. Ugo Dotti in Machiavelli, la fenomenologia del potere (Milano: Feltrinelli, 1979), pp.60 e ss. 12 Cfr. ibidem. Pp.60 e ss.

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subordinazioni di sorta. Nel Principe si asserisce, infatti, che per far fronte agli eventi nefasti e per superare al meglio gli ostacoli della vita, è quanto mai necessario e fruttuoso saper utilizzare finemente entrambi i caratteri. L’istinto, rappresentato dalla “bestia”, non è semplicemente considerato come sinonimo di degradazione, ma alla stregua di una componente essenziale e insopprimibile, presente nell’io profondo di ogni individuo: esso, pertanto, deve convivere accanto alla ratio in un rapporto paritario, in modo da poter instaurare con l’altra metà una relazione dialettica. Come è ravvisabile anche da quest’esempio, la renitenza ad adottare una prospettiva esclusiva nei confronti di qualsiasi oggetto preso in esame è una caratteristica che si conserva inalterata nel corso dell’intero scritto di Machiavelli: non a caso, l’inscindibilità delle due componenti succitate è poi ribadita, successivamente, dalla volontà di ridonare lustro alla figura mitologica del centauro, che era stata oggetto di forme di demonizzazione per tutto il periodo medievale. Fra le cause che favorirono il dilagare della fama internazionale e postuma del pensiero teorizzato dall’intellettuale fiorentino, la riproposizione, in positivo, della parte bestiale dell’essere umano occupa sicuramente un ruolo di preminenza assoluta.

Per la messa in rilievo di tale aspetto, dobbiamo molto a Giulio Ferroni, il cui saggio “Appunti su ‘l’Asino’ di Machiavelli” prende proprio in esame il topos dell’animalità all’interno Principe. Nell’idea proposta dal trattatista fiorentino, la sfera dell’humanitas è concepita infatti in maniera interdipendente rispetto alle pulsioni più primitive: evitando la contrapposizione tra sublime e comico, tra materialità e spiritualità, Machiavelli afferma che la cooperazione fra queste due inclinazioni può risultare decisiva nel contrastare le avversità opposte dalla fortuna13. Il critico parla, nella fattispecie, di un’“accettazione” della discesa nella ferinitas riscontrabile nell’impianto strutturale ed ideologico del Principe :

Nella concezione di Machiavelli, infatti la bestia non rappresenta semplicemente l’immagine della degradazione, della perdita delle facoltà razionali o dell’incapacità nell’agire: al contrario, rompendo dinamicamente l’autosufficienza dell’antropologia umanistica, basata su di un concetto totalizzante di “humanitas” come livello superiore che subordina o espunge ogni possibile espressione di diversità e di alterità,

13 Cfr. Giulio Ferroni, “Appunti su ‘L’Asino’ di Machiavelli”, in AA.VV., Letteratura critica, II, studi in

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Machiavelli afferma accanto allo spazio “uomo” il necessario spazio della “bestia”, arrivando a riconoscere e a recuperare tutta una zona di comportamento che la visione umanistica tendeva ad escludere dai propri controllati equilibri14.

Risulta evidente come una simile concezione bivalente, atta ad attribuire nuovamente credito al lato ferino dell’uomo, rigettato dal mondo rinascimentale, significava, indubbiamente, porsi agli antipodi rispetto alla visione dominante, innestata sul culto dell’antropocentrismo e sulla supremazia dell’intelletto. Era stata soprattutto l’ideazione del modello pedagogico del centauro che aveva portato il Principe ad entrare in rotta di collisione con il pensiero umanistico e a determinare quella reazione di sdegno che caratterizzò la sua prima ricezione.

Altro settore che si sentì duramente colpito dalle concezioni sopra le righe presenti nell’opera di Machiavelli fu poi il mondo cattolico, scandalizzato dall’uso strumentale della religione teorizzato all’interno del Principe. Ad essere incriminato era, in particolare, un punto dello scritto in cui si raccomandava al regnante di fare un uso aggregativo e uniformante del suddetto elemento; da questa mossa sarebbe infatti scaturita la coesione della popolazione che, unita nel nome di una fede condivisa, avrebbe raggiunto quella pace interna al regno essenziale per il buon governo del principe. C’è da dire, comunque, che la riduzione della fede cristiana ad instrumentum regni non fu che l’ultima fra le irriverenze del fiorentino che andarono a fomentare il già acceso risentimento cattolico: se nel Principe Machiavelli sembrava, idealmente, postulare e auspicare un ritorno al cesaropapismo, ossia alla subordinazione del potere spirituale a quello temporale, era soprattutto nell’opera a questa antecedente che aveva apertamente sferrato caustiche parole di biasimo contro la Chiesa cristiana. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, infatti, il trattatista si era pronunciato duramente contro le istituzioni ecclesiastiche, ree, dal suo punto di vista, di aver provocato la dissoluzione di un credo collettivo, nonché di aver fornito numerosi e gravi esempi di empietà e di corruzione15. Seguendo l’usuale metodo del confronto, Machiavelli prendeva, come modello di riferimento a cui guardare, il politeismo romano, che aveva garantito, per secoli, l’unità della repubblica e in seguito dell’impero; stringere il popolo

14 Ibid., p.314

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attorno a un ideale comune si era rivelata tra le più efficaci e longeve strategie di consenso, dato che, come dimostrava l’illustre esempio della storia passata, aveva impedito il crearsi di fratture endemiche: “Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo”.16 Il paganesimo romano era inoltre ritenuto superiore ad ogni altro credo in virtù del suo carattere civile, in quanto predisponeva il cittadino all’amor patrio e alla partecipazione alla vita comunitaria; anche sotto questo profilo, si allontanava dunque dal cristianesimo che, saldamente imperniato sul miglioramento della sfera individuale, si faceva promotore dell’ozio, dell’ascetismo e della rassegnazione. Di fronte all’inaccettabile licenza usata da Machiavelli nei confronti dell’autorità religiosa e al tono corrosivo delle sue accuse, la chiesa finì chiaramente con l’assumere un atteggiamento di chiusura verso i lavori del trattatista fiorentino, arrivando, com’era ovvio che fosse, a tacciarli di eresia: l’attacco incisivo mosso contro la putrescenza delle istituzioni cattoliche e la blasfema subordinazione del cristianesimo all’universo pagano non potevano che suscitare quelle reazioni di ripulsa che sarebbero sfociate poi, in ultima istanza, nella stigmatizzazione dello scrittore e dei suoi scritti.

La citazione sopra riportata, estrapolata dai Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, può risultare di grande utilità per aprire una nuova parentesi, incentrata, questa volta, sulla reazione del pubblico inglese di età elisabettiana nei confronti del Principe e del suo autore. L’isola britannica, a maggioranza protestante, avrebbe sapientemente utilizzato il pensiero machiavellico e le sue affermazioni sul cattolicesimo in particolare, per forgiare, in maniera completamente fuorviante, il mito negativo dell’Italia, andando ad alimentare quelle fantasie denigratorie che si sarebbero ingigantite e consolidate grazie all’imprescindibile ruolo giocato dal medium teatrale, più che mai determinante nella formazione complessiva dell’opinione pubblica. A partire dall’Act in restraint of appeals del 1533, i rapporti tra Roma e la monarchia inglese si incrinarono irreversibilmente. Henry VIII, vistasi negata dal Papa allora in carica la richiesta di divorzio dalla moglie Catherine of Aragon, per convolare a seconde nozze con Anne

16 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (Bologna: Biblioteca Universale

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Boleyn giunse alla drastica decisione di rompere per sempre i legami che sussistevano tra la chiesa e l’Inghilterra, autoproclamandosi l’anno successivo, in maniera del tutto arbitraria, Supreme head of the Church of England17, ossia capo della nuova chiesa anglicana, entità autonoma dal potere del Vaticano. In questa nuova e turbolenta situazione politica, che sanciva la crisi di uno status quo perpetuatosi per secoli, si intraprese, come misura d’emergenza, una massiccia campagna propagandistica finalizzata a screditare, agli occhi dei cittadini inglesi, tutte le manifestazioni di matrice cattolica: il sovrano si trovava infatti in una condizione di estrema precarietà dato che, in seguito alla brusca separazione da Roma e alla scomunica di Henry VIII da parte del pontefice, si profilava la concreta possibilità che si potessero verificare focolai e rivolte interne. L’Inghilterra si apprestava a diventare un paese protestante, ma doveva fare i conti con una forte minoranza cattolica rimasta attiva nell’isola. I crescenti malumori vennero però sapientemente sedati grazie all’operato di Thomas Cromwell, uno dei principali sostenitori della riforma, nonché braccio destro di Henry VIII. La sua sagace intuizione consistette nell’aver compreso l’incisività della carica comunicativa insita in quegli strumenti che contribuivano a condizionare e plasmare l’opinione pubblica, fra cui spiccava, su tutti, per la sua potenza verbale e visiva, il teatro. Il ministro del monarca inglese si lanciò così in una proficua campagna anti-cattolica che aveva, come obiettivo principale, quello di esercitare un’influenza decisiva sulle masse: per raggiungere questo risultato, si avvalse dell’azione combinata di preachers, plays e printed books18 (predicatori, rappresentazioni teatrali e carta stampata), mezzi estremamente efficaci per diffondere, capillarmente e con rapidità, la propaganda contro l’autorità papale.

Le misure tese a delegittimare la Chiesa di Roma sembravano trovare una perfetta corrispondenza nelle sonore accuse mosse da Machiavelli nell’opera summenzionata: fra queste rientrava la critica diretta contro la “corruzione delle cerimonie” comunemente previste dalla liturgia italiana, la cui dispendiosità e platealità erano aspetti contro cui, parimenti, si scagliarono con fervore anche gli stessi protestanti

17 Cfr. Nicoletta Caputo, “Playng with power”. Gli interludi Tudor e i percorsi della Riforma (Napoli:

Liguori, 1999), pp.76 e ss.

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inglesi. Passò così l’idea che anche il modo in cui si viveva la fede religiosa, in Italia, si fondasse su un approccio sbagliato e malato. In un contesto pesantemente condizionato dalle dicerie negative sulla penisola, l’ambiguità insita nell’opera di Machiavelli finì inoltre per essere confusa e sovrapposta a ogni aspetto che caratterizzava la vita del Paese avversario, compreso il sentimento cristiano, scisso fra la carenza sostanziale e l’apparenza sfarzosa, ostentato e simulato dal fedele, piuttosto che intimamente sentito e radicato a livello profondo. Per i protestanti, le “dead ceremonies”, concepite come un inutile appesantimento del vero rituale sacro, nonché completamente prive di significato per la salute spirituale del devoto, finivano così per diventare l’ennesimo segnale lampante dell’ipocrisia presente nel Bel Paese. In una realtà dominata dall’artificio, ogni settore della vita sociale appariva millantato o carente in quanto a genuinità: il lusso presente nelle chiese italiane, la spettacolarizzazione delle celebrazioni liturgiche e l’approccio superstizioso nei confronti della divinità vennero interpretati come sintomi inequivocabili della deviazione italiana, realtà dove ogni cosa passava attraverso la simulazione.

Ma torniamo ora a focalizzarci sulla pregnanza e l’incisività della macchina teatrale sulla società inglese di epoca elisabettiana, frangente storico in cui, peraltro, questo medium raggiunge il suo apice, toccando livelli che difficilmente riusciranno ad essere superati negli anni a venire. Verso la metà del 1500, la prima svolta decisiva, in un panorama che stava cambiando, fu segnata dalla costruzione dei primi teatri stabili: le tavole illustrative di Inigo Jones, posteriori di circa un secolo, possono darci una chiara idea di come gli spazi destinati agli spettacoli fossero il prodotto dell’evoluzione dei più rudimentali trestle stages, le piattaforme rialzate su cui erano state messe in scena, a partire dal ‘300, le prime rappresentazioni a carattere religioso. Se i teatri stabili erano complessivamente più articolati per la presenza della ripartizione del pubblico fra la platea e i tre ordini di gallerie sopraelevate, la concezione spaziale di fondo, che aspirava alla creazione di un ambiente simbolico, non era cambiata: la scena era allegoricamente divisa in uno spazio ascensionale-tridimensionale; all’under-stage corrispondeva l’oltretomba, una zona destinata agli spiriti o alle entità maligne, lo stage era invece pensato come il corrispettivo del mondo reale e, per concludere,

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l’upper-stage era il luogo delegato alle epifanie della divinità, una zona di appannaggio esclusivo delle creature ultraterrene19.

Tuttavia, il setting non rivestiva un aspetto di imprescindibile importanza per i drammaturghi elisabettiani: ciò che costituiva, invece, la vera peculiarità del teatro inglese di questo periodo era rappresentato, piuttosto, dalla cosiddetta “atmosphere of informality”, un senso di profonda vicinanza fra attori e spettatori, ottenuta non solo mediante l’assenza di barriere fittizie che separassero la zona del palco da quella della platea, ma anche dal coinvolgimento diretto del pubblico all’interno dello spazio drammaturgico: si rivolgevano, per esempio, dallo stage, battute dirette a coloro che occupavano lo spazio extrascenico, in tono ironico o monitorio. Fra gli altri meccanismi adibiti alla creazione del dialogo tra palco e platea, sono poi da annoverare le sollecitazioni esplicite indirizzate all’audience, vere e proprie exhortatio, o le richieste di aiuto, che chiamavano in causa i groundlings20 al fine di colmare mentalmente le numerose lacune presenti nel corso della performance; l’esempio più noto della messa in uso di questa particolare forma di compartecipazione è offerta dal prologo di Henry V di William Shakespeare:

O pardon, since a crookèd figure may Attest in little place a million,

And let us, ciphers to this great account On your imagery forces work […] Into a thousand parts divide one man, And make imaginary puissance21.

Questo frammento risulta emblematico per la comprensione dell’importanza attribuita all’uditorio dal teatro inglese: con fluidity22 si intendeva, infatti, l’intersezione viscerale tra stage e pit, unità interdipendenti tra loro per l’apporto che l’una forniva all’altra. La rappresentazione di epoca elisabettiana era infatti imperniata sulla sineddoche, in quanto sarebbe stata deficitaria senza il completamento fornito da uno sforzo immaginativo del

19 Cfr. Thomas W. Craik, The Tudor Interlude, Stage, Costume and Acting (Leicester: Leicester

University Press, 1967),p.12

20 Cfr. ibidem: con il termine “groundlings” o “understanders” si faceva ironicamente riferimento allo

“yard audience”, cioè il pubblico che occupava lo spazio della platea: la vicinanza al palcoscenico aveva fruttato a questi spettatori appellativi scherzosi, che giocavano appunto sul fatto che ci fosse una porzione dell’uditorio letteralmente collocata ai piedi degli attori.

21 Cfr. William Shakespeare, Henry V (London: Macmillan, 2011), I, i, 15-18 e 23-25. 22 Cfr. Craik, op. cit., p.15

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pubblico, esortato, per l’appunto, a sopperire gli evidenti gaps della rappresentazione. Il modello teatrale elisabettiano, infatti, non prevedeva uno spettacolo autonomo e auto-sussistente, come accade, invece, per la prassi drammaturgica contemporanea. Lo sfondamento meta-diegetico era una consuetudine a cui si faceva comunemente ricorso nell’Inghilterra a cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo: a differenza di quanto saremmo portati a pensare, la rigida separazione tra area destinata all’ascolto e spazio riservato all’azione è infatti una conquista relativamente recente, sviluppatasi a partire dall’ ‘800, nel teatro naturalistico, in cui assistiamo alla creazione della “quarta parete” (uno schermo fittizio che non tollera compenetrazioni tra le due dimensioni)23.

Oltre a questo carattere immersivo-integrativo proprio dei plays del periodo elisabettiano, per dare una visione ancora più chiara dell’incidenza del teatro sulla società inglese occorre guardare anche al target a cui i drammi si rivolgevano e alla frequenza con cui queste forme di intrattenimento collettivo venivano proposte al pubblico. Per quanto riguarda il primo aspetto, sarà bene precisare che gli spettacoli non si rivolgevano esclusivamente a un’élite aristocratica o economicamente avvantaggiata, bensì a tutta quanta la popolazione inglese in maniera indifferenziata: il teatro diventava il principale luogo d’incontro e di raduno dei ceti di ogni estrazione sociale, con la sola differenza che, se agli spettatori più abbienti, dietro pagamento di una maggiore somma di denaro, era consentito occupare la zona delle gallerie, le classi popolari si riversavano invece nella platea, dove il costo del biglietto era poco più che irrisorio. Il teatro costituiva, dunque, il principale polo d’attrazione per tutto il popolo inglese, dagli indigenti ai ricchi signori, dai mercanti ai lavoratori professionisti, ed era avvertito come un evento fondamentale della vita collettiva.

Visto il successo sempre più diffuso che stava riscuotendo, si decise addirittura di ampliare il periodo delle rappresentazioni a tutto l’anno solare, inaugurando, accanto al classico edificio estivo, all’aperto, anche le prime strutture al chiuso, in grado offrire un riparo all’uditorio dal rigido clima invernale. I limiti imposti al teatro per quanto riguardava i periodi di chiusura vennero inoltre drasticamente ridotti ai giorni delle festività religiose previsti dal calendario liturgico, in cui le messinscene erano

23 Cfr. Andrew Gurr, Theatres and the Dramatic Profession, in: John F.Andrews, Charles Scribner’s sons,

William Shakespeare, His world, His Work, His Influence (Philadelphia, University of Pennsylvania

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severamente vietate, e a eventuali situazioni d’emergenza, in cui era meglio evitare di creare occasioni di grande affollamento, come per esempio casi di epidemie di peste o di altre malattie endemiche che spesso funestavano la popolazione inglese. In ultima analisi, alla luce dei fatti riportati, possiamo affermare che il teatro costituisse non soltanto un momento, quasi quotidiano, di grande rilevanza per la società inglese di qualsiasi status economico, ma anche un mezzo estremamente efficace per la costruzione di quel sentimento d’identità nazionale ancora flebile in Inghilterra, un Paese che non aveva ancora raggiunto lo stesso grado di maturità delle realtà territoriali e politiche con cui si trovava a confrontarsi.

Nel caos e nella drammaticità rappresentati dal drastico cambiamento dell’assetto della nazione, che da cattolica diventava protestante, era quanto mai necessario scongiurare il rischio di rivolte interne, che avrebbero avuto sicuramente conseguenze devastanti in un tale periodo di crisi. E il modo più diretto ed efficace per sviluppare un senso di unità nella popolazione era quello di assumere una posizione di difesa contro avversari esterni che avrebbero potuto costituire una pericolosa minaccia per l’armonia dell’isola. Questa demonizzazione dell’alien che ebbe le sue manifestazioni più evidenti soprattutto nel teatro, toccherà il suo culmine negli interludi, dove i vizi iniziaranno a perdere la loro natura astratta per diventare simbolo stigmatizzante con cui identificare gli stranieri: sulle diverse tipologie di alien characters venne così proiettata una vasta gamma di difetti. Solo per citare alcuni esempi, gli olandesi furono associati alla drunkness, cioè alla perenne condizione di ebbrezza alcolica; i francesi vennero riassorbiti nel personaggio del gallant, emblema dell’eccentrità e della vanità, ossessionato dalla cosmesi e dalle nuove mode, e gli italiani, che accusarono doppiamente la nomea negativa di Machiavelli e l’immagine deviata del cattolicesimo, assunsero il ruolo di doppiogiochisti malevoli, votati all’ipocrisia e alla frode24.

Da quanto è emerso, complessivamente, in questo riepilogo, è possibile comprendere come Machiavelli, nel giro di poco tempo, si fosse inimicato tanto la fazione protestante quanto quella cattolica, attirandosi, inoltre, le critiche dei dotti umanisti, altamente turbati dalle idee sull’equazione tra uomo e bestia, perorate all’interno della sua opera e ritenute all’epoca inconcepibili. Tuttavia, nonostante le

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durissime condanne d’immoralità emesse contro il Principe, che raggiunsero il culmine con l’inserimento della sua silloge di massime nell’indice dei libri proibiti, la fama del politologo fiorentino non smise mai di accrescersi. Attratti visceralmente dall’impianto aforistico del libro, dalla portata rivoluzionaria dei suoi assunti e dalla fama negativa che da essi promanava, gli intellettuali europei contribuirono alla propagazione virale di questo scritto, mentre, presso le grandi masse, soprattutto inglesi, il teatro sfruttava a suo vantaggio la popolarità sinistra del Machiavelli per creare lo stereotipo dell’italiano ambiguo che avrebbe poi finito con l’attecchire nell’immaginario comune: una figura per l’appunto doppia, opportunista, ipocrita, simulatrice.

Delle osservazioni iniziali del Machiavelli e delle solide fondamenta del suo metodo scientifico, che studiava l’uomo nel suo dinamismo, calato in uno spazio-tempo reale e pertanto soggetto a repentini e imprevedibili mutamenti, rimasero soltanto letture mutile, fondate sull’assunto che il manuale di massime fosse frutto del disprezzo congiunto verso la morale e l’etica comunemente praticate. Le riflessioni proposte dal Principe su un’umanità perennemente schierata in modo agonistico contro le forze cieche del caso, possibili da arginare solo in maniera provvisoria e mediante soluzioni pragmatiche, vennero così ridotte a concezioni ciniche di un intellettuale corrotto e senza scrupoli. L’atteggiamento adottato dall’Inghilterra elisabettiana nei confronti di Machiavelli può essere icasticamente riassuto nel concetto di Gerede formulato da Edmund Husserl, termine con cui il filosofo tedesco mira a spiegare la “ripetizione”, “diffusione” e “trasmissione” pedissequa di opinioni preformate: “le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera [sic] si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali l’incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza”.25

25 Cfr. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione

alla filosofia fenomenologica, a cura di E .Paci, trad. di Enrico Filippini (Milano: Il Saggiatore, 2008)

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Capitolo II

La diffusione del Principe in Europa: tra timida accoglienza e

chiusura delle frontiere

“vix coepi legere, quin Satanae digitum scriptum agnoscerem”.26

Grazie agli studi di Edward Meyer, possiamo stabilire con certezza che per il primo testo a stampa del Principe tradotto in lingua inglese dobbiamo aspettare fino al 164027: siamo circa a un secolo e mezzo di distanza rispetto alla prima apparizione dell’opera in Italia; ciò non significa, tuttavia, che il nome dello scrittore fiorentino fosse completamente sconosciuto in Inghilterra prima di questa data. Le numerose allusioni alla dottrina enucleata nel trattato e gli epigrammi sulla “statecraft” diffusamente disseminati nel pensiero elisabettiano dimostrano infatti l’esatto contrario: appaiono con una certa frequenza nella cultura inglese del ‘5-‘600 e in particolare nel teatro, dove diventano addirittura luoghi comuni (cosa che produce, inevitabilmente, la semplificazione complessiva dell’opera di partenza). Il fatto che il Principe fosse scritto in fiorentino, cioè in un italiano normativo, contribuiva non soltanto a renderlo già di per sé un classico (verrà definito in questo modo da Bernardo Giunta, nell’edizione fiorentina del 1532) ma era anche la principale caratteristica che ne favoriva la diffusione all’estero: nella sua versione del dizionario della lingua italiana del 1611, Queen Anna’s world of words28, John Florio, umanista e lessicografo durante il regno di

Edward VI, inserisce Machiavelli nella lista dei nomi di autori italiani confluiti all’interno della sua opera, insieme a poeti del calibro di Francesco Petrarca, Torquato Tasso e Francesco Bembo.

L’iter attraversato dal lavoro più noto di Machiavelli, autore prolifico e poligrafo (oltre ai trattati realizza anche la Mandragola, riconducibile alla produzione comica per

26 ‘Apologia Reginaldi Poli ad Carolum V. Caesarem’, in Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E Cardinalis et

aliorum ad ipsum collectio. Pars I, ed. Angelo M. Quirini (Brixiae: Excudebat Joannes Maria Rizzardi,

1744),p.68

27 Cfr. Edward Meyer, Machiavelli and Elizabethan drama (Wiemer; Felber 1897), p.3

28 John Florio, Queen Anna’s New World of Words, necessary rules and short observation for the true

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il teatro), appare fin da subito tormentato: se ai primissimi inizi riscuote un enorme successo nella madrepatria, sarà condannato, successivamente, ad avere una sorte infausta. Dal 1513, anno d’uscita della prima versione manoscritta del trattato politico in questione, non intercorrono appena quattro decenni , che il libro di massime viene bandito. Il lavoro del fiorentino viene tacciato d’immoralità dalla Chiesa cattolica e il Papa allora in carica, Paolo IV, nonché capo del Tribunale dell’Inquisizione, decide di adottare misure drastiche per evitarne la diffusione su larga scala: il Principe si trova così ad essere inserito, nel 1557, all’interno della lista nera delle opere letterarie, l’Index Librorum Prohibitorum, elenco in cui si trovavano incluse anche altre opere di autori eminenti di prosa, saggistica e novellistica (fra i nomi più famosi spiccano Giovanni Boccaccio con il Decameron, ma anche gli scritti di Girolamo Savonarola e Rabelais).29 Se l’Italia quindi fa calare momentaneamente il silenzio sulla figura di Machiavelli, il resto d’Europa adotta atteggiamenti disparati nei confronti della suddetta opera: realtà geografiche fortemente cattoliche, come la Spagna, confermano la loro aderenza alla linea imposta dal pontefice; ma paesi come la Francia e l’Inghilterra, a maggioranza protestante, non vedono ragioni di adempiere al veto emanato dalla Santa Sede di Roma. All’indice, sentito come eccessivamente restrittivo, verranno in seguito apportate delle modifiche: Pio VI, il successore al soglio pontificio dell’ultra-conservatore Paolo IV, sceglie una strada più diplomatica, sfoltendo notevolmente il numero delle opere proibite; si tratta di un cambiamento radicale, quindi, che segna l’inizio di una nuova apertura del Vaticano nei confronti dei letterati. Fatto sta che il Principe non viene ancora graziato dalle nuove disposizioni.

Se da San Pietro non arrivano dunque accenni alla volontà di ritirare l’ordine di condanna emanato contro lo scritto di Machiavelli, c’è un unico polo culturale, nel Bel Paese, ad andare contro i precetti delle autorità religiose; la tipografia veneziana boicotta infatti il diktat papale: surrettiziamente, il libro del trattatista continua ad essere dato alle stampe, celando il nome anagrafico dell’autore dietro a uno pseudonimo. Nel resto del vecchio continente, sono invece tre le città in cui si prosegue a pubblicare l’opera del fiorentino in lingua originale o in latino, tutte situate nella zona

29 Cfr. Alessandra Petrina, Machiavelli in The British Isles, Two Early modern Translations of The Prince

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settentrionale: si tratta di Basilea, Londra e Ginevra, realtà svincolate dallo strapotere cattolico grazie alla distanza che le separava dalla sede centrale (e di conseguenza dal controllo diretto) del papato. Un caso a parte è rappresentato poi dalla Francia, che detiene il primato in materia di traduzione: è infatti il primo paese a cimentarsi nell’adattamento del Principe al corrente idioma nazionale. Qui, il favore con cui il libro di Machiavelli viene accolto è dovuto più a una ragione formale che contenutistica: la silloge aforistica non soltanto risultava di semplice comprensione per gli stranieri perché scritta in italiano purissimo, ma rappresentava anche una vera e propria miniera per gli aspiranti traslatori; Alessandra Petrina parla a tal proposito di “exquisite challenge for translators”30. Si tratta infatti di un’opera breve, in cui il tono gnomico si accompagna all’ipotassi; l’inanellarsi di una serie di massime permette una maggiore concentrazione sulla resa terminologica piuttosto che sulla restituzione nitida e puntuale di ampi concetti, che talvolta sacrificavano la brillantezza formale del testo per ragioni di chiarezza e di organicità. I caratteristici epigrammi machiavellici, data la loro natura succinta, consentono quindi di giocare su accostamenti verbali più arditi e simultaneamente su un uso più “drammatico” della retorica: il mediatore linguistico si trovava ora a “miscere utile dulci” in quanto, oltre a rendere disponibili nuovi contenuti, poteva anche operare veri e propri esercizi di stile, apportando finezze che rendevano più coinvolgente la narrazione e che si traducevano in un raffinato labor limae, minuti accorgimenti di carattere estetico che spesso andavano perduti con l’adattamento di opere più vaste31.

Se l’aspetto formale del Principe suscita generalmente consensi per la vivacità e la scorrevolezza della narrazione, occorre dire che le resistenze incontrate dal libro di Machiavelli oltre frontiera sono rappresentate principalmente da due fattori: il primo concerne il contenuto dell’ opera, ritenuto nella maggior parte dei casi immorale o sovversivo, il secondo ha invece a che fare con l’atteggiamento nicchiante ed “equilibrista” assunto dal suo scrittore, che dà l’impressione di non sbilanciarsi mentre si barcamena tra istanze opposte. La posizione oscillante assunta dall’autore nel trattato e complessivamente nell’opera omnia (se il Principe poteva essere interpretato sia come

30 Cfr. Alessandra Petrina, Machiavelli in The British Isles, Two Early modern Translations of The Prince

(London: Ashgate publishing company, 2009), p. 5

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una condanna contro i governatori dispotici sia come un pezzo di fervente propaganda repubblicana, con I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Machiavelli sembra invece appoggiare più scopertamente l’istanza della libertà del popolo) contribuì fin da subito a circondare il fiorentino di un alone di ambiguità: lo scrittore sembrava assumere un ruolo passivo ed estraniante rispetto alla materia trattata, come se non avesse, o meglio non volesse far intendere, quale fosse la sua reale opinione riguardo alle tematiche fondamentali che affrontava; per questo motivo, i suoi lavori vennero citati in causa nelle circostanze più disparate: per esempio all’interno delle controversie fra cattolici e protestanti che dividevano Inghilterra e Scozia e parallelamente vennero ripresi nel clima di disordine che stava sconvolgendo la Francia, scandalizzata dai fatti di sangue consumatisi nella notte di San Bartolomeo dell’agosto 1572 ai danni della minoranza ugonotta, che proiettava ora sulle sentenze machiavelliche il simbolo stesso della deviazione del potere cattolico. Il Principe alimentò dunque dibattiti da cui le originarie riflessioni politiche di Machiavelli erano completamente estranee: la natura pragmatica dei pensieri scritti dal fiorentino, articolati in forma schematica, poteva produrre, tra le sue conseguenze, lo svuotamento del contenuto ideologico dell’opera, specialmente per coloro che abitavano al di fuori della realtà italiana ; se i protestanti bollarono il Principe come il libro-manifesto della leggerezza con cui i cattolici vivevano la loro fede, i gesuiti, di contro, vedranno nel lavoro del fiorentino i peggiori risvolti della corruzione politica (si noti che alla base delle due condanne è situato il medesimo assunto, cioè la subordinazione della religione agli affari di stato) .

Ciò che garantisce l’accrescersi della fama smisurata di Machiavelli, paradossalmente, costituisce anche la ragione principale del sabotaggio della sua opera: il carattere “aperto” e quindi fluido della sua raccolta di sentenze, che veicolano contemporaneamente più significati, creano attorno al suo lavoro il fascino della doppiezza, caratteristica che, unita alla condizione della subalternità dell’etica rispetto all’azione pratica, basta a renderla un “succès de scandale”.

Per quanto riguarda lo studio della ricezione di Machiavelli in Inghilterra durante il sedicesimo secolo dobbiamo un notevole contributo all’apporto di Felix Raab, attivo soprattutto nella seconda metà del ‘900. Nel suo lavoro The English Face of Machiavelli: A Changing interpretation, il critico evidenzia come l’influenza esercitata

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dal Principe nella cultura Tudor possa essere suddivisa in due fasi distinte32: se durante la prima, l’influsso esercitato da quest’opera incide soprattutto sul teatro, principale medium per la costruzione dell’opinione pubblica, nella seconda acquista invece una maggiore centralità l’aspetto “filologico-editoriale” (si prendono in considerazione le traduzioni manoscritte e a stampa del Principe): quest’ultima, tuttavia, si dimostra una strada difficile da ripercorrere per gli studiosi contemporanei, dato che il materiale pervenuto fino ai nostri giorni è estremamente esiguo (icastica è l’osservazione di Raab a tal proposito: “manuscripts and printed books are like snakes, for every one you see, there are a hundred hidden underground”33). Per quanto riguarda la ripercussione di Machiavelli sull’universo drammaturgico bisogna fare un ulteriore distinguo: spesso e volentieri infatti il contatto con l’autore del Principe da parte degli sceneggiatori inglesi avviene soltanto in maniera indiretta, apparendo così “mutilato”; si configura cioè più come il riflesso degli strascichi della fama negativa che aleggiava attorno alla figura del fiorentino, piuttosto che come il prodotto di una conoscenza chiara ed approfondita delle sue opere. Soltanto raramente i plays teatrali sviluppano un approccio critico e problematico rispetto alla dottrina politica elaborata da Machiavelli :un esempio è dato dai drammi di Marlowe, soprattutto Tamberlaine the Great e The Jew of Malta, in cui è riflessa non solo la “moral fluidity” tipica del Principe, ma viene dimostrata anche la lettura minuziosa di determinati capitoli, come quello inerente ai principati ecclesiastici; si noti inoltre l’aggiunta di personaggi non esplicitati nell’opera di partenza ma comunque pertinenti all’argomento come ulteriore elemento indicativo di un confronto diretto e aperto con Machiavelli (si veda l’inserimento del personaggio del severo legislatore ateniese Dracone menzionato ai versi 19-20 del prologo)34, per il resto, assistiamo invece all’affermarsi di un processo di astrazione generalizzante: non il trattato, ma la persona del trattatista viene messa al centro dell’attenzione drammaturgica, di cui si assimila non la reale biografia ma i tratti deformanti divenuti proverbiali: per ragioni di omofonia, il nome stesso del fiorentino, che pronunciato in

32 Cfr. Felix Raab, The English Face of Machiavelli: a changing interpretation, (Chicago:The University

of Chicago press, 1966), p.53

33 Ibidem, p.54

34 Enrico Stanic, “Machiavellianism in Cristopher Marlowe’s The Jew of Malta”, in: Alessandro Arienzo

e Alessandra Petrina, Machiavellian Encounters in Tudor and Stuart England, Literary and Political

Influences from the Reformation to the Restoration (London: Ashagate Publishing Company, 20139,

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inglese suonerebbe come “much evil” viene assorbito nel personaggio di Mitchell Wilye, evil character afferente alla massiccia lista dei Vices35, figura nota per la sua astuzia diabolica e la sua insuperabile capacità di raggiro. Neutralizzata la portata ideologica del pensiero machiavellico, vediamo come la sua nomea sinistra, carica di pregiudizi infondati, trionfi progressivamente sulla realtà dei fatti, ora scimmiottata e banalizzata. Tuttavia, la risposta inglese al Principe non è uniforme, bensì estremamente diversificata e talora contrastiva: se nell’ambito privato troviamo illustri poeti come Philippe Sidney che raccomandano la lettura del lavoro di Machiavelli ai componenti della cerchia familiare (studiosi come Vittoria Kahan si spingono oltre la semplice ammirazione da parte del letterato inglese e intravedono nella peculiare costruzione dell’Arcadia il riflesso delle idee del trattatista sulla costituzione mista36), nella sfera pubblica sono in particolare gli wits delle università più prestigiose e alcune figure aristocratiche appartenenti al circolo dell’intellighenzia a rivalorizzare l’opera bistratta, dimostrando fin dal principio verso di essa un grande apprezzamento di carattere culturale e pratico. Abbiamo diverse testimonianze che dimostrano come la presenza del lavoro del fiorentino si stesse sempre più diffondendo all’interno degli ambienti accademici non soltanto come materia di studio critico e di riflessione empirica, ma anche come oggetto d’imitazione; da una parte abbiamo l’esempio di Gabriel Harvey, che grazie ai suoi sforzi, riuscì ad introdurre il Principe nelle aule di Cambridge (lo studioso menziona spesso Machiavelli anche nelle sue corrispondenze private con Edmund Spenser), dall’altra abbiamo John Case, fisico aristotelico allievo al St. John’s college di Oxford, che si cimentò nella realizzazione di un trattato inerente alle ‘statecraft and politics’ (Sphaera Cuiuitatis), di chiara matrice machiavellica, ma potremmo anche citare i casi offerti dalla Princeton University Library che era in possesso delle edizioni del Blado del 1532, manoscritto contenente sia una copia del Principe sia una copia dei Discorsi Sopra la Prima Deca e infine la traduzione latina di Telius ‘De principatibus’ che compare nel catologo della Lumely Library, la più grande

35 Cfr. Alessandro Arienzo e Alessandra Petrina, Machiavellian Encounters in Tudor and Stuart

England, Literary and Political Influences from the Reformation to the Restoration (London: Ashagate

Publishing Company, 2013), p.4

36 Cfr. Victoria Kahan, Machiavellian Rhetoric: from the Counter-Reformation to Milton (Princeton:

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biblioteca privata dell’Inghilterra elisabettiana, poi spostata al St. James’ Palace37 (quest’ultima versione conobbe un grande successo: risultato dell’azione combinata di due italiani emigrati a Basilea, il traduttore Sylvester Telius e lo stampatore Pietro Perna, presentava il vantaggio del latino, allora ‘lingua universale’ in quanto conosciuta da tutta la comunità culturale europea). Secondo Felix Raab, tuttavia, il significato generale che viene attribuito all’opera di Machiavelli in Inghilterra è il prodotto di un misreading: all’affermazione di questa lettura mis-interpretante concorre tutta una serie di dati che viene erroneamente ritenuta macroscopica. Il titolo stesso dell’opuscolo si presenta infatti fuorviante per gli elisabettiani, che lo associano immediatamente a un genere estremamente diffuso nell’ Europa medievale, lo “speculum principis”, un elenco consistente nella summa delle virtù mondane del “principe perfetto”, corredato da esempi di sovranità tratti dal mondo greco e latino, che si presentava nella forma di un’enumerazione meta temporale di regole, elevandosi a guida morale e ideologica per chi avrebbe rivestito alte funzioni di stato. Il lavoro del fiorentino si situa però al di fuori di questa produzione trattatistica, da cui prende le distanze sotto diversi punti di vista: la scelta operata da Machiavelli in favore di un modello tradizionale di cui riflette soltanto alcune caratteristiche di superficie, risponde in realtà a un’esigenza strategica; le analogie con gli specula si limitano infatti a pochi particolari (seppur messi ben in evidenza) come l’intestazione del frontespizio, i nomi dei singoli capitoli rigorosamente in latino e l’organizzazione complessiva dell’opera, che si apre con una lista delle forme del governo per proseguire poi con le qualità che un principe dovrebbe possedere. Il critico francese Felix Gilbert vede infatti in questa riproposizione del canone collaudato un escamotage finemente impiegato da Machiavelli che si prestava a una duplice finalità: serviva in parte per attenuare la portata eterodossa della sua opera e gli consentiva, in parallelo, di evidenziare la novità assoluta del suo lavoro; l’ habitus esteriore conformato alle norme sarebbe stato utilizzato non tanto per evitare richiami o censure, ma per arrogarsi il merito di aver rinnovato un genere ormai necrotizzato: “la somiglianza con gli esempi tradizionali contribuiva a dare vigore al suo messaggio: Machiavelli capiva che le sue proposte anticonformistiche avrebbero avuto anche

37 Cfr. Alessandra Petrina, Machiavelli in The British Isles, Two Early Translations of The Prince,

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maggior risalto se presentate in modo convenzionale”38. Se l’associazione tra il Principe ed il succitato genere dello “speculum” domina in tutta Europa, abbiamo però un’unica interpretazione pionieristica che si discosta dall’uniformità del coro: nel 1533, lo studioso Gaspard Dauvergne riporta a James Hamilton, Duca di Arron e governatore di Scozia, la sua prospettiva innovativa sull’opera di Machiavelli, in cui riconosce soprattutto un manuale di politica pratica, di grande utilità specialmente per le riflessioni che sviluppa riguardo al tema bellico- militare (le osservazioni sulle milizie mercenarie e le milizie proprie); anche se la lettura del francese costituisce una riduzione rispetto alla sottile complessità con cui si evolve il pensiero dello scrittore, dobbiamo in ogni caso riconoscergli il merito di aver provato a formulare un altro tipo di lettura rispetto a quella che si era prevalentemente attestata.

Altro dettaglio fondamentale trascurato dagli Inglesi era il fatto che il discorso contenuto nel Principe non fosse in realtà una riflessione a sé stante, bensì la prosecuzione di un ragionamento già avviato, il continuum di un filo logico inaugurato nell’opera precedente, I Discorsi Sopra la Prima Deca di Tito Livio: se il pubblico elisabettiano coglieva soltanto un aspetto parziale dell’opuscolo (l’indottrinamento della figura reale da parte del precettore, poiché l’Inghilterra vedeva nella scienza politica una materia fondamentale nella formazione dello studente, specie se apparteneva all’alta nobiltà), tralasciava invece l’elemento più importante, ossia che il Principe costituisse un approfondimento della teoria dell’anaciclosi, ripresa dallo storico greco Polibio (secondo questa dottrina, che pensa alle istituzioni come organismi soggetti a processi biologici, la monarchia tende a degenerare nella sua forma peggiorativa, la tirannide, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia in anarchia): secondo Sasso, infatti, è la crisi della repubblica a far nascere l’idea del principato, il quale può svilupparsi soltanto quando la forma di governo precedente ha ormai toccato il fondo39. Estrapolato dal suo contesto d’origine e fatto rientrare a forza nei parametri di un genere con cui aveva affinità soltanto alla lontana, il Principe venne così sottoposto a un processo di semplificazione generalizzante : una volta sbarcato sulle coste inglesi, delle idee

38 Felix Gilbert, Machiavelli e Guicciardini, (Torino: Einaudi, 1960), p.142

39 Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Storia del suo pensiero politico(Bologna: Il Mulino, 1980), pp.308

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polibiane alla base di questo manuale e della sua relazione profonda con il testo che l’aveva preceduto non rimasero tracce.

Come precedentemente accennato, il nome di Machiavelli trovò larga eco soprattutto nell’universo teatrale, dove però, salvo rare eccezioni, se ne dette un ritratto diffamante e poco rispondente al vero, mentre, per il resto, l’analisi più approfondita della sua opera rimase comunque prerogativa di una ristretta coterie di intellettuali: ovvio che, nelle credenze comuni inglesi, l’immagine che finì per trionfare fosse inevitabilmente la prima; il teatro costituiva infatti l’intrattenimento principale per tutte le classi sociali e il fatto che per lungo tempo non fossero stati realizzati volgarizzamenti in inglese degli scritti di Machiavelli, fece sì che l’immagine distorta offerta dalla finzione scenica, in mancanza di controparti che la smentissero, si sedimentasse profondamente nella coscienza dei cittadini inglesi.

Oltre a questo, c’è da aggiungere che la fama negativa di Machiavelli è legata anche al nome di un altro autore suo connazionale e a lui contemporaneo, celebre per la sua condotta scostumata e per i suoi componimenti a sfondo erotico: si tratta di Pietro Aretino, la cui vita fu volta all’affermazione di un anarchico individualismo e alla soddisfazione dei piaceri terreni, ideali che si riflettono fedelmente nella sua opera. Scrittore ferocemente anticlassicista, concepì i libri come una merce, per ricattare o adulare i potenti a seconda delle sue esigenze pratiche, ma anche come strumenti atti a fomentare scandali (perfino oltre i confini italiani era conosciuto come l’autore dei Sonetti Lussuriosi e dei Ragionamenti, trattato sul comportamento delle prostituite e delle ruffiane)40: la congiuntura all’interno della quale Machiavelli fece il suo ingresso in scena nella realtà inglese non era quindi delle più favorevoli; Londra ebbe modo di conoscere entrambi gli scrittori italiani grazie all’attività di John Wolfe, stampatore più importante della metropoli e attivo dal 1579 al 1601, che era riuscito ad entrare in possesso delle copie di entrambi gli autori durante gli anni del suo praticantato in Italia presso la famiglia Giunta a Firenze. Il fatto che lavori così rivoluzionari rispetto alle norme letterarie imperanti venissero pubblicati simultaneamente e fossero stati prodotti da ingegni italiani, comportò il loro avvicinamento se non addirittura la loro

40 Cfr. Romano Luperini, La Scrittura e l’Interpretazione, Storia e antologia della letteratura italiana nel

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