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The Little Black Princess è quel che in inglese si definirebbe una narrazione

“unputdownable”, un libro cioè che si legge tutto d'un fiato, grazie anche alla sua brevità. La storia è ambientata nel 1902 alla Elsey Station e si concentra sul rapporto intercorrente tra la “Little Missus” (Jeannie Gunn), moglie del nuovo

manager della proprietà, e una giovane bambina nera di otto anni chiamata Bett-

Bett, alla quale la scrittrice riconosce il regale appellativo di “Princess”. Come si può notare quindi fin dal titolo, tutta l'attenzione è da rivolgersi su quella che Franca Bernabei definirebbe la “bambina coloniale”23, sulla sua infanzia da orfana

condotta alla station. Come viene riportato all'inizio dell'opera, il legame tra Bett- Bett e la “Mistress” inizia a instaurarsi quando un giorno alla Gunn, che si trovava fuori dal bush in compagnia di suo marito e qualche stockmen, capitò di imbattersi in una piccola bambina aborigena con un cucciolo di cane, da sola, sulle rive del Roper River24. Moglie e marito decisero allora unanimemente di portarla nella

proprietà. Bett-Bett, da quel giorno, visse qui con la sua padrona, insieme alla quale trascorreva il suo tempo, anche unitamente alle altre piccaninnies25 della

tribù: Rosey, Judy e Biddy.

L'opera ha una trama che ruota soprattutto intorno a descrizioni di varie attività ed episodi di interesse culturale e antropologico, raccontati in modo piuttosto dettagliato: prima fra tutte, la scena del “washing-day”. Come anticipato nel precedente capitolo, fintanto che le attività domestiche vengono ben svolte, alle bambine è permesso di giocare quanto vogliono, cosicché esse sono disposte a lavorare per la loro signora “without a murmur”26. Questo è il tipico trattamento

che veniva riservato agli aborigeni, dato che, come registra la O'Conor, le ragazze indigene venivano di solito impiegate soprattutto in qualità di “domestic servants”, mentre i ragazzi come “pastoral workers”27. Inoltre, la studiosa nota

come “children were often separated from their family and were part of a colonial

23 Franca BERNABEI, “La vecchiaia caraibica tra dono e abbandono”, in Margini e confini:

studi sulla cultura delle donne nell'età contemporanea, cit., p. 105.

24 Cfr. il passo: “And were [Bett-Bett and Sue] just settling down to enjoy their supper, when a dreadful thing happened – somebody grabbed Bett-Bett from behind and shouted out, 'Hallo! What name you?' Did you ever see a terribly frightened little black princess? I did, for I saw one then. I was 'the Missus' from the homestead, and with the Boss, or 'Maluka' (as the blacks always called him), was 'out bush,' camping near the river” (The Little Black Princess, cit., pp. 2-3).

25 Piccaninny – usato anche nelle grafie di picaninna, picaninny, piccanin e pickaninny – è un termine tendenzialmente dispregiativo impiegato per riferirsi, in questo caso, alle bambine aborigene.

26 The Little Black Princess, cit., p. 30.

27 Juliet O'CONOR, “Black Princesses or Domestic Servants: The Portrayal of Indigenous Australian Girlhood in Colonial Children's Literature”, in Colonial Girlhood in Literature,

labour force vulnerable to exploitation and abuse”28. Le ragioni per cui si preferiva

impiegare dei giovani erano principalmente due: l'economicità della loro “forza lavoro”, e il fatto che essi non avevano i mezzi per denunciare eventuali abusi e violenze perpetrati dai settlers. A questo punto è facile convenire con Bertinetti quando afferma che “[c]iò che in Australia e sull'Australia fu scritto e pubblicato nel Novecento è quasi tutto documento storico, anche quando vuole essere opera letteraria”29. Entrambi i testi della Gunn, infatti, registrano nel complesso

avvenimenti realmente accaduti nella “Never-Never Land”, anche se talvolta essi vengono sottoposti a filtri e revisioni.

The Little Black Princess presenta inoltre informazioni etnologiche, ad

esempio dettagli sul re della tribù, Ebimel Wooloomool, che, come già accennato, viene soprannominato dai colonizzatori “Goggle Eye”. La sua posizione altolocata è tuttavia messa in discussione dal “Man-in-Charge”30, il “Maluka”, epiteti usati

dagli indigeni per riferirsi ad Aeneas, ossia il master bianco.

Goggle Eye, anche se non indossa nessuna corona31 (fatto considerato

insolito dagli europei, trattandosi di un sovrano)32, è il re dei Dullinarrinarr e,

nonostante iniziali riserve nei suoi confronti da parte dei coniugi, diventa poi il loro “preferito” in quanto, come spiega la Larbalestier: “He is 'cute and clever' […] Wulumul [Wooloomool] manages to manipulate the colonial order. He plays the station jester and like others of his ilk manages to step outside the boundary of rank, but also knows when to step back into line”33. Tutti gli abitanti della

proprietà riconoscono la sua posizione privilegiata e per tale ragione lo rispettano.

28 Ibidem.

29 Paolo BERTINETTI, “Le letterature in inglese”, in Paolo Bertinetti (a cura di), Breve storia

della letteratura in inglese, Einaudi, Torino 2004, p. 335.

30 We of the Never-Never, cit., p. 8.

31 Cfr. il passo: “The first time I met Goggle Eye, he was weeding my garden, and I didn't know he was a King; I thought he was just an ordinary blackfellow. You see he didn't have a crown, and as he was only wearing a tassel and a belt made from his mother-in-law's hair, it was no wonder I made the mistake” (The Little Black Princess, cit., p. 13).

32 Cfr. il passo: “I showed him a picture of King Edward VII, and told him that he wore a crown to show that he was the King” (Ivi, p. 23).

33 Jan LARBALESTIER, “AMITY AND KINDNESS IN THE NEVER-NEVER: Ideology and Aboriginal-European Relations in the Northern Territory”, Social Analysis: The International

Inoltre, Goggle Eye non è solo lo zio di Bett-Bett (poiché figlia di Katie, la sua sorella più giovane), ma è anche depositario della cultura propria dei nativi: da lui è possibile apprendere molti aspetti delle loro tradizioni, usanze e superstizioni. La storia include, infatti, racconti non solo relativi ai costumi, ma anche alla “social life and material culture, all of which is described in a jargon that can be considered racist, at least how we understand the term today”34. In

altre parole, la Gunn si avvicina al folklore e alle tradizioni religiose dei nativi con interventi critici e commenti da cui traspare una certa condiscendenza, più percepibile dal lettore contemporaneo che non da quello primo-novecentesco.

Quindi, nell'opera affiorano da un lato episodi caratterizzati da una certa empatia nei confronti degli indigeni, mentre dall'altro “[it] describes Aboriginal people as awkward, childish and intellectually inferior to white people”35.