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Osservazioni su alcune edizioni di The Little Black Princess

La O'Conor17 ricorda che The Little Black Princess è stata regolarmente ristampata

ogni decennio, fino agli ultimi anni del secolo XX, divenendo parte integrante del panorama letterario per successive generazioni. Qui sotto (vedi figura 3.1) sono riprodotte due delle numerose copertine delle edizioni del libro, uscite nel corso del Novecento.

Gunn”, Hecate: an Interdisciplinary Journal of Women's Liberation, cit., pp. 77-78.

17 Juliet O'CONOR, “Black Princesses or Domestic Servants: The Portrayal of Indigenous Australian Girlhood in Colonial Children's Literature”, in Colonial Girlhood in Literature,

Culture and History, 1840-1950, cit., p. 113.

Figura 3.1 Copertine di “The Little Black Princess”. London: Hodder & Stoughton, 191? (a sinistra) e Melbourne: Robertson & Mullens Ltd., 1922 (a destra) (Juliet O'CONOR, “Black

Princesses or Domestic Servants: The Portrayal of Indigenous Australian Girlhood in Colonial Children's Literature”, in Colonial Girlhood in Literature, Culture and History, 1840-1950, cit., p. 116).

In entrambe le immagini appare una bambina. Si era anticipato nel Capitolo 1, che non si tratta di disegni fatti a mano, in bianco e nero, come era consuetudine a quel tempo, ma piuttosto di due fotografie, al fine di potenziare l'effetto di realtà. Possiamo pertanto identificare questa giovane con Bett-Bett, fatta mettere in posa per l'occasione dal fotografo: l'australiano, originario del Northern Territory, Maurice William Holtze (1840-1923)18. Sebbene l'idea

originaria di Holtze prevedesse un soggetto aborigeno di sesso femminile, seduto sul prato con la tipica modificazione del naso perforato da un osso19 e la

caratteristica dilly bag, si può in realtà notare come, nell'immagine a sinistra, Bett- Bett venga rappresentata da sola e con il volto rivolto altrove, mentre in quella a destra la ragazzina figuri in compagnia della sua inseparabile cagnolina Sue20.

La bambina trasmette inoltre stati d'animo diversi: nel primo caso sembra completamente assorta e come proiettata verso un altro orizzonte, rivolta, usando le parole di Sarah Gaspari, “verso quello che i cineasti chiamano 'il fuori campo'”21. Nel secondo caso, pare come “ruotata” verso il lettore, con le gambe

non più incrociate, ma in ginocchio. Ambedue le raffigurazioni, tuttavia, richiamano alla memoria il motivo archetipico del buon selvaggio22, qui incarnato

18 La Gunn rivolge uno speciale ringraziamento a questo fotografo in un inciso inserito subito dopo la “List of Illustrations” e appena prima dell'inizio dell'opera. Cfr. il passo: “My thanks are due to Mr. W. Holtze, of Katherine River, Northern Territory, for the courteous and practical help he has given me, in posing and photographing groups of natives, for the purpose of assisting in the illustration of this book” (The Little Black Princess, cit., p. VIII).

19 Le tribù aborigene erano solite costruire, con le ossa dell'emù e del canguro, dei punteruoli per perforarsi il setto nasale e infilare poi nel foro asticciole d'osso e penne dai colori brillanti a scopo ornamentale.

20 La cagnolina di Bett-Bett è il dingo – chiamato anche warrigal – ovvero il tipico cane selvatico australiano. Presumibilmente la sua origine è asiatica, ma si pensa che esso si sia stabilito nell'isola circa 3500-4000 anni fa, al seguito degli insediamenti umani dall'Asia. Il dingo è stato per lungo tempo amico fedele delle popolazioni aborigene, dato che non solo veniva usato nella caccia e come cane da guardia, ma anche per tenersi al caldo durante la notte (si pensi, infatti, all'abbigliamento piuttosto carente degli aborigeni). Cfr. il passo: “While the supper was cooking, they [Bett-Bett and Sue] crouched close to the warmth, for they felt very cold” (The Little Black Princess, cit., p. 2).

21 Sarah GASPARI, “India Song”, in Anna Rosa Scrittori (a cura di), Margini e confini: studi

sulla cultura delle donne dell'età contemporanea, Cafoscarina, Venezia 2006, p. 392.

22 Il “buon selvaggio” rimanda all'idea rousseauiana basata sulla convinzione che l'uomo sia in origine una creatura buona, pacifica e solo successivamente divenga malvagio in quanto corrotto non solo dalla società, ma anche dal “progresso”. L'idea del buon selvaggio si sviluppò particolarmente nel tardo secolo XVIII, con la pubblicazione e la diffusione di numerose relazioni sui viaggi d'esplorazione nelle terre australi (fra le quali anche quelle di James Cook), che parvero presentare un'intatta cultura edenica conservatasi nei Mari del Sud – ovvero nell'Oceano Pacifico – dove né la civiltà, né la cristianizzazione erano ancora giunte.

da una ragazza indigena semi-nuda, che vive in armonia con la natura, specificamente un habitat costituito dall'outback australiano.

Un'altra differenza sostanziale si coglie nei titoli, che tendono ad essere snelliti rispetto all'originale. Nella copertina curata dalla casa editrice londinese Hodder & Stoughton, manca infatti una parte del sottotitolo: anziché The Little

Black Princess: a True Tale of Life in the Never-Never Land, si legge The Little Black Princess of the Never-Never. Si può ipotizzare che tale scelta sia legata alla

volontà di ridurre la dimensione storiografica e porre in primo piano la componente fiabesca nonché la “Never-Never Land”, che avrebbe richiamato chiari elementi esotici nella mente del pubblico inglese, facendo pensare subito al “Back of Beyond”, ovvero al luogo remoto e semi-desertico del continente australiano. Al contrario, nel titolo della versione pubblicata in Australia nel 1922 da Robertson & Mullens, non si ha nessuna traccia di rimando a questa terra (del resto ben nota, in quel contesto), a privilegio della protagonista, ossia la “Little Black Princess”.

Infine, è interessante notare – laddove è presente – la scelta riguardo all'esplicitazione del nome dell'autrice: nella copertina a sinistra, piuttosto che “Jeannie Gunn”, affiora lo pseudonimo maschile “Mrs. Aeneas Gunn”, il nome con cui sarebbe stata indotta dalla Hutchinson & Co. di Londra a firmare la sua seconda opera, We of the Never-Never. Forse tale precisa scelta era dovuta al fatto che, indossando un “male disguise” (almeno nell'Inghilterra del primo decennio del Novecento), un'autrice avrebbe avuto la possibilità di vendere molte più copie. Nella copertina dell'altra edizione il nome dell'autrice appare addirittura obliterato, forse perché ormai l'opera aveva raggiunto la notorietà.