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IL CONTESTO LETTERARIO: ALTRE TESTIMONIANZE DI “GUERRA IN DIVISA”

Nel documento Mario Tobino Il deserto della Libia (pagine 49-57)

Fra il 1940 e il 1945, con Vittorini, Pratolini e Moravia, vengono gettati i semi di una letteratura impegnata destinata a fiorire nel dopoguerra. Questi autori costituiscono dei punti di riferimento per tutta la comunità letteraria che opererà negli anni della ricostruzione. Contemporanea alla loro lezione si sviluppa una letteratura di memoria e documento, di verità e testimonianza: la memorialistica di guerra. Questa produzione, al di là di un giudizio di valore sulle singole opere e sull’ evoluzione degli autori, ha particolare importanza per capire l’ impatto drammatico ed innovatore sulla società civile italiana del conflitto mondiale, indipendentemente dall’ ideologia politica, che solo in un secondo tempo interviene a modificare il costume << conservando e potenziando quella mitologia di valori che la guerra, offendendoli, è riuscita a riconsacrare: come la vita umana, il rispetto dei propri simili, la solidarietà sociale, il diritto al benessere>>134. Giorgio Pullini, nel suo Il romanzo italiano del dopoguerra (1961), vede in questa spinta alla concretezza, dettata dalla necessità di raccontare con precisione documentaria le proprie vicende (sempre oltre il confine della comune drammaticità: fatti straordinari per la loro violenza che devono, categoricamente, essere salvati dalla dimenticanza e divenire monumento per il futuro) la scintilla che innesca il rinnovamento della letteratura italiana del dopoguerra, il nutrimento per far germogliare quei semi, già saldi, cosparsi dall’ opera di Vittorini, Pratolini, Moravia e Pavese.

Berto, Rigoni Stern, Tobino, sono nomi di alcuni autori di questa letteratura- documento, che attingeva ad una << esigenza personale di confessione prima che al proposito di fare opera d’ arte o di professione politica >> trovando << eco nelle conoscenze ed esperienze di tutti >>135.

L’ esigenza del racconto catapulta nel mondo letterario uomini mai stati scrittori e che dopo quell’ esperienza non lo saranno più, oppure intellettuali

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G. Pullini, Il romanzo italiano del dopoguerra, Schwarz editore, Milano, 1961, pag. 152.

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dediti ad altri generi, soliti a stili meno violenti, se non impegnati su altri fronti del pensiero.

Questi autori si concentrano sui fatti. Non c’è dialettica o ideologia oltre a quella, il più delle volte sottointesa, del rifiuto della guerra o di un sentimento di amore per la vita. Per Pullini ciò portò ad una letteratura che non poté fare a meno di quella lezione di concretezza, vuoi << per la fermezza snella, disadorna, concreta che il rifiuto delle argomentazioni ideologiche ha conferito alla nostra prosa, svecchiandola da quelle forme compiaciutamente letterarie da cui già Vittorini aveva cercato di liberarla >> vuoi << per il calore di un’ umanità violenta che ha introdotto nel distacco dalla cronaca la tematica della persona >>136.

Nella panoramica della letteratura di guerra che costituisce il contesto del

Deserto della Libia mi soffermerò sulle opere che riportano testimonianze

dai fronti esteri, tralasciando quelli interni fra partigiani e fascisti.

Il primo libro di questa breve rassegna è Guerra in camicia nera di Berto. Il fronte è il medesimo del Deserto della Libia e non è il solo punto su cui le due opere si trovano a convergere. Berto ebbe una storia personale antitetica a quella di Tobino. Volontario, fascista convinto, andò incontro alla guerra e, sebbene le critiche al regime non manchino, sono fatte al suo interno: il rinnovamento è necessario, ma viene inteso come modifica di alcuni aspetti del regime, per esempio il razzismo, e non il suo abbattimento. La guerra in Libia doveva essere combattuta da ogni italiano che avesse un qualche senso civico e dell’amor di patria. Verrebbe in mente quel primo capitolo, ad uso di premessa, del Deserto della Libia: La cartolina precetto; in realtà, in quel caso, il machiavellico rigore dell’ argomentazione porta a dimostrare come il rifiuto della guerra fosse un vigliacco abbandono del popolo da parte di coloro, gli intellettuali, che non seppero difenderlo da Mussolini. Inoltre riuscire ad evitare la leva significava essere raccomandati: essere dentro al fascismo, oppure avere un’ indole subdola al punto di riuscire ad ingannare i medici, attentissimi a comando, con una malattia fittizia. Tobino è lontano dall’ essere volontario.

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Berto compone un diario, un resoconto giornaliero degli avvenimenti e dell’ evoluzione del proprio pensiero: da fervido combattente per la patria giunge ad odiare la guerra, a non poter sopportare il deserto e a riconoscere l’ inutilità della campagna. Questo svilimento dell’ ideale potrebbe dar vita ad un grande testo in cui il protagonista si macera nel dubbio man mano che il campo di battaglia rischiara la verità: l’ esercito italiano impreparato, male armato, immotivato, ingiustificata la guerra, ma l’ autore, si perde in resoconti di tattica militare, mancando di approfondire quest’ aspetto più “esistenziale” e più interessante; probabilmente Berto non sentì un gran dolore per la fine di un ideale che, come per molti, era più di comodo che di cuore.

Alle prime pagine la guerra imperialista è giustifica: ne fa una questione di spazio e di storia: l’ Italia << una nazione troppo popolosa in un territorio troppo piccolo e povero. Questo è il problema nelle sue linee essenziali>>137. Berto inoltre non dimentica come l’ antichità romana abbia impresso la propria impronta sull’ Africa mediterranea, fatto che candida gli italiani come i tradizionali e più accreditati gestori della civilizzazione di quei territori.

La sincera e coraggiosa (siamo nel ’55) professione di fede fascista, non dà vita ad un diario che testimoni il dolore per la sconfitta, non solo militare, ma, soprattutto, ideologica, del regime. Si intuisce come l’ autore fosse immunizzato dall’ indifferenza e che il suo arruolamento non avvenne per intimo senso del dovere, ma, piuttosto, dettato dal ragionamento e dal calcolo. A Tunisi, durante il ripiegamento, nasce il desiderio del rimpatrio, di un nuovo amore per la vita e la presa di coscienza della mancanza di virtù eroiche: << Ecco, non me ne importa niente della guerra, che gli inglesi abbiano rotto o no il fronte. Me ne importa del mio piccolo nucleo di dovere […] Ho sbagliato tutto >>138.

I sogni di grandezza e la volontà di partecipare in prima persona agli avvenimenti storici dell’ “impero” cedono il passo al dubbio sull’ inutilità della campagna libica, oramai palesemente immotivata.

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G. Berto, Guerra in camicia nera, Milano, Garzanti, 1955, pag. 33.

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Berto vuol lasciare la guerra non appena gli eventi si fanno drammatici. Quando la sconfitta è inevitabile, il combattimento diventa imposizione e lo scrittore si distacca dal fervore iniziale, rimpiangendo i passati sogni di gloria.

Iniziando a parlare di questo testo si erano rivelate delle analogie con Il

deserto della Libia che, però, non sono state evidenziate. In realtà, anche in

Berto il personaggio è abbandonato al deserto logorante, il percorso che lo porta dalla convinta adesione alla disillusione lo isolano di fronte agli eventi. La guerra è combattuta senza fede o ideali, senza bandiera dirà Tobino, anche se Berto manca della profondità, del cuore del viareggino. Tale caratteristica si riscontra anche negli altri documentaristi, come nota Pullini che riconosce in tutti:

uno stato di isolamento esistenziale dell’ uomo di fronte agli eventi […] avvertibile nelle testimonianze di una guerra combattuta senza fede, con il terrore di uno scatenamento forsennato di forze ormai autonome, o, nel caso della lotta interna, nelle testimonianze di una guerra fratricida, piena di trabocchetti e di inaudite crudeltà. […] L’ uomo è solo di fronte ad energie micidiali che non rispettano nessuna legge di umanità; anche le ragioni ideali, quando ci sono, si minimizzano di fronte al rischio e alla stanchezza.139

Un altro punto di contatto è lo stile, non solo perché Berto compone un diario, forma con la quale molti lettori classificano Il deserto della Libia, ma per la frammentarietà del dettato cronachistico, per la volontà espressiva di isolare i frammenti di un vissuto veloce e caotico, << quasi a voler immobilizzare nella morsa dell’ appunto la fulmineità degli avvenimenti sempre proiettati nello sfondo misterioso della morte ed esaltati dalla tensione del rischio >>.140

Nel 1952, l’ anno seguente all’ uscita del Deserto della Libia, venne pubblicato da Macchia un altro testo libico: Dalla Sirte a casa mia141, di Marcello Venturi. Ancora una volta con uno stile scarno ed essenziale, attraverso rapidi dialoghi, un autore tenta di descrivere quel processo che

139 Ivi, pag.157. 140 Ivi, pag. 158. 141

dalla disillusione porta alla fuga, fino alla cattura e alla prigionia. Venturi, più famoso come giornalista dell’ << Unità >> o come l’ autore di uno dei primi romanzi sulla strage di Cefalonia, dette non pochi dispiaceri a Tobino. Entrambi parteciparono al premio Viareggio e questo fu assegnato a Dalla

Sirte a casa mia. Nel diario inedito di Tobino i commenti non mancano. Al

premio Viareggio vigeva un certo ostracismo per le pubblicazioni Einaudi e Tobino, inoltre, dovette risentire della sua amicizia con Cucchi e Magnani: i primi onorevoli ad abbandonare il P.C.I. e a denunciare, in parlamento, le violenze del regime russo. A ciò va aggiunto che entrambi erano versiliesi e che le materie erano simili da qui il lapidario commento del 24 agosto: <<questo per indicare che sulla Libia è questo il libretto che conta e va letto, è da ignorare Il deserto di M. Tobino >>142.

Un altro tra i memorialisti è Mario Rigoni Stern con Il sergente nella neve. Il fronte, in questo caso, è quello russo. Rigoni Stern è un basso graduato, stanziato ad un presidio sul fiume Don. Il testo si apre con combattimenti di posizione in cui il nemico è più spesso intravisto e immaginato, piuttosto che direttamente combattuto, finché non inizia la ritirata verso OVEST. La marcia nel deserto freddo della steppa russa piega le volontà più ferree, gli uomini divengono animali elementari, i pensieri semplici. La guerra e le sofferenze sembrano quasi scivolare su un istinto primordiale alla sopravvivenza, la condanna della guerra si associa alla presa di coscienza di Rigoni dell’ esistenza di una fratellanza comune tra gli uomini, basata non sulla politica o la religione, ma sull’ istinto, l’ autoconservazione. Il nemico, prima maledetto, minacciato di sterminio, ucciso con freddezza nelle azioni militari, perde i suoi connotati e arriva a trasformarsi in fratello. Tutti sono uniti nella subordinatezza ad eventi incontrollabili ed indipendenti alle volontà individuali.

La scena centrale di questo racconto, costruito attraverso disordinate messe a fuoco che si armonizzano nell’ irruenza del “dover dire” (si è già detto che la frammentarietà è una caratteristica di questa produzione e in special modo

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M. Tobino, Diario, conservato al Fondo Alessandro Bonsanti di Firenze, pubblicato parzialmente in M. Tobino, Op. Cit., pag. CII.

di Tobino), è quella in cui Rigoni, giungendo in un piccolo paese, per una sosta, entra inavvertitamente in un’ isba piena di russi armati.

Nel massimo silenzio, sia degli odii sia delle parole (il contesto parla per tutti) si svolge una messa laica: la condivisione del cibo, la nutrizione e l’ istinto alla vita impongono una tregua sacra. << Uno prende un piatto. Lo riempie di latte e di miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata >>143. L’ episodio porta il protagonista ad una riflessione che costituisce la chiave di lettura anche del Deserto della Libia: << Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere >>144. La convinzione dell’ inesistenza delle opposizioni tra uomini e della loro capacità di convivere in pace, la fiducia nell’ “amicizia” derivata dalla comunione della medesima umiltà, è presente anche in Tobino. In uno la fredda steppa, nell’ altro il deserto caldo; in Rigoni, lo sforzo di un passo nella neve, uno in meno verso casa, verso il suono delle campane ed un letto soffice con le lenzuola pulite; in Tobino la nostalgia del paese e dei suoi odori, della madre, della normalità senza violenza e con il movimento della vita, assopitasi nell’ afa del deserto; in entrambi, la quasi certezza della morte e la vastità degli spazi nei quali la natura si libera fino ai suoi estremi. Ugo Pirro con Soldatesse145 descrive il fronte greco. Un ufficiale raccoglie un gruppo di prostitute da distribuire ai suoi soldati. L’ umanità messa in scena è terribile, le persone si abbrutiscono nell’ animalità più totale: le donne hanno fame di pane e gli uomini di calore; l’ autoconservazione, come in Rigoni, mette in luce realtà prima insospettabili: l’ odio verso il corpo femminile svenduto si trasforma in un amore sadico e violento. I soldati devono disprezzare le prostitute, ma allo stesso tempo hanno necessità di una compagnia, di un affetto femminile e, allora, sfogano le

143

M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Torino, Einaudi, 1954, pag. 137.

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Ibidem.

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proprie contraddizioni nella violenza, fino a compiere le peggiori meschinità e a scendere nella volgarità animale.

Pirro scrive con una prosa scabra: è cronachista vero, lo stile cede il passo agli eventi che si commentano da soli. La polemica contro la guerra, vero motore dell’ azione, scorre sotto ad ogni frase, ma mai è liberamente espressa. La tensione che si genera trova sfogo nel turpiloquio e nella bestemmia necessaria a dire il nero della storia.

Per rimanere sul medesimo fronte si possono citare Biasion e Lunardi, quest’ ultimo in Iugoslavia, che, però, hanno un’ ottica opposta a Pirro. Entrambi furono soldati delle retrovie ed entrambi si distaccano dalla violenza disperata della cronaca di Soldatesse per descrivere un altro aspetto della guerra: l’ inattività minacciata dalla morte, il sopore dell’ attesa e dell’ inutilità del tempo sprecato. L’ immobilità dà adito alla nostalgia e al piacere inestimabile di piccoli gesti compiuti con la consapevolezza dell’ ultima volta. La guerra lontana e presente è tema protagonista anche nella prima parte del Deserto della Libia, e consente agli autori di soffermarsi sul paesaggio, sulle avventure amorose e sui costumi locali. Come in Diario di

un soldato semplice146 di Lunardi. La frequenza con i croati e gli sloveni fa nascere relazioni che contrastano con le leggi di odio imposte dal fascismo, facendo riaffiorare il tema dell’ accordo umano tra simili.

Questi libri sono usciti tutti dopo il Deserto della Libia ma in realtà sono stati composti prima o in contemporanea a questo. Ciò dimostra ancora di più come uomini con esperienze culturali variegate e lontane abbiano sentito la medesima esigenza al racconto, l’ uno indipendentemente dall’ altro: lo sterminio premette sulle coscienze, costringendole al documento.

L’ inquadramento del Deserto della Libia in una cornice di genere, quello cronachistico-documentario del secondo dopoguerra, per quanto sia possibile, presenta molti limiti e non inficia l’ autonomia di questo testo ma, anzi, ne rivela l’ estrema originalità, caratteristica della produzione tobiniana.

Tobino non smetterà mai di essere uguale a se stesso. Ciò non vuol dire che si ripete, poiché anzi, nella sua lunga bibliografia, come si è detto, appaiono

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i generi più disparati, oppure che non evolva, ma che non si allineerà mai in una corrente, non farà mai parte di un circolo, non sarà etichettabile insieme ad altri. L’ indipendenza di questo autore, che fece del ritiro monastico a Maggiano la sua forza, è una delle sue migliori qualità. Ritiro, che non vuol dire isolamento, ma selezione dei contatti, libertà di condurre un’ esistenza al riparo da conformismi e adulazioni nel riposo agonistico della scrittura.

Nel documento Mario Tobino Il deserto della Libia (pagine 49-57)

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