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STORIA DELLA CRITICA

Nel documento Mario Tobino Il deserto della Libia (pagine 57-76)

Il deserto della Libia è il primo testo di Tobino che suscitò un qualche

interesse nella critica. Al momento della sua uscita si contano diversi interventi che lo descrivono e presentano al pubblico. Al successo fanno da controcanto i giudizi di Togliatti, su << Rinascita >>147, che lo stroncò definendolo una << pinocchiata >>, << un libro che non serviva >>, poiché non era esplicita la divisione manichea tra “buoni e cattivi” come ci si aspettava dalla letteratura dell’ epoca; Togliatti, inoltre, non comprende l’ afflato di pietà che guidava Tobino nel non condannare apertamente nessuno e nell’ accogliere tutti come vittime di una fatalità onnipresente. Si è già ricordato come le amicizie dell’ autore con Cucchi e Magnani avessero influenzato la giuria del premio Viareggio, giuria che, probabilmente, non era insensibile al giudizio del segretario del Partito.

Ancora più duro fu Delio Cantimori, che scrive a Bollati: << Il libro di Tobino è schifoso, lasciamelo dire, son gente della mia generazione, più o meno >>148. Nel novembre del 1955, sul << Caffè >>, continua la polemica in seguito alla seconda edizione nella elegante collana dei <<Coralli>> Einaudi. Angelo Pauluzzi afferma che Tobino: << è in pericolo per quelle pagine de Il deserto della Libia nelle quali descrive fughe chilometriche di generali, ufficiali, sottoufficiali, camice nere, e per quelle altre dello stesso volume che parlano, con evidente canzonatura, della mentalità di alcuni ufficiali>>149.

Una prima consacrazione viene, invece, da Carlo Bo che afferma: << Uno dei libri più veri che siano nati dalla storia degli ultimi anni; dei più veri e quindi dei più belli>>150, separando il Deserto della Libia da certi testi di guerra e di memoria che già si faceva troppo “letteratura” e riconoscendone,

147

Il riferimento è contenuto in M. Grillandi, Invito alla lettura di Tobino, Milano, Mursia, 1975, pag. 65.

148

Cantimori a G. Bollati, in L. Mangoni, Pensare i libri, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pag. 667. Il giudizio di Cantimori è riportato anche in M. Tobino, Op. Cit., pag. 1769.

149

Il commento di A. Pauluzzi è riportato in M. Tobino, Op. Cit., pag. 1769.

150

C. Bo, Il deserto della Libia di Mario Tobino, << La Fiera Letteraria >>, a. VII, n. 6, 10 febbraio 1952, pag. 1. Contenuto anche in Felice Del Beccaro, Op. Cit., pag. 130.

pur nell’ artificiosità dell’ opera di genio, un fondo di verità, una denuncia morale: << Il peso morale della sua parola>>151; da questo punto di vista, infatti, Il deserto della Libia sa farsi, a tratti, inchiesta. Inscena il vero fascismo: scevro di retorica e inganno da gazzetta di partito, il fascismo della quotidianità: quello di Bandiera nera, in vero, il più terribile. Già prima, sul risvolto di copertina della prima edizione Einaudi, probabilmente attribuibile a Vittorini, si leggeva, dopo una sommaria presentazione biografica e artistica dell’ autore:

Ora egli [Tobino] è uscito, comunque, da ogni compiacimento di clandestino e noi possiamo pubblicarne un libro in cui la sua uva versa intero e schietto il proprio succo, non dolce ma anche inebriante, coi ricchi colori della memoria di tutti. […] Mario Tobino ha molte probabilità di dare, con il proprio nome, un senso letterario non fittizio all’ anno ’52.

Calvino, nella scheda bibliografica dell’ edizione ’55, riprende Vittorini, e consacra il testo alla letteratura maggiore:

Non solo tra i libri ispirati dall’ ultima guerra ma in senso assoluto, Il deserto

della Libia, […] è da considerarsi una delle opere più significative della

narrativa italiana degli ultimi anni.

Giuliano Manacorda, ricollegandosi alla moralità della parola sottolineata da Bo, parla, per la prima parte del libro di: <<Aspra satira non tanto contro l’ uomo quanto contro il sistema >>152.

Intuisce l’ umanità del testo che mai è contro un singolo, mai è giudice nei confronti del prossimo, ma sempre attento ad indagare la natura profonda dei gesti, delle parole che lo circondano e a tentare di giustificarle, compatirle; Manacorda continuando asserendo che << è questo vigile giudizio a rendere il libro umano, vero, non mera registrazione dei fatti>>153 e conclude riferendosi a Bandiera nera e a quella pulsione morale che

151

Ibidem.

152

G. Manacorda, La narrativa italiana nel biennio 1950-52, <<Società>>, a. VII, n. 4, dicembre 1952, pag. 713.

153

spinge l’ autore a scrivere: << Tobino non ama la cronaca fine a se stessa ma chiara suscitatrice di giudizi morali, come appare anche dal racconto lungo Bandiera nera >>154.

Tra questi primi commenti si distingue quello di De Robertis, il quale vede lo stretto legame tra le opere precedenti e Il deserto della Libia, non solo per quanto riguarda quelle in prosa, ma anche per le poesie. In particolare, egli afferma:

La forza del libro è nella sua totalità, che significa, assai meglio, nella sua dinamica; come quando, smontata la gran macchina burocratica, che aveva per così dire, partorito il capitano medico effettivo Oscar Pilli [innalzata prima, come una solenne offesa, al semplice e augusto vero]; e riannodando le fila [con uno scrivere sensibile e netto che esalta ciò che tocca], a grado a grado precipita verso la fine [come i fatti e i dolori di cui è piena quella storia]. Senti allora il “deserto” della Libia in tutta la sua fatalità, le oscure morti, la solitudine destinata in cui si compie la grande tragedia; e dimesso il riso e la satira, le cose parlano per sé nel compianto di tante povere vite e sorti. 155

De Robertis coglie il senso più intimo del testo, descrivendo quel processo di sottrazione nella narrazione che porta il “diario” da affresco della mentalità fascista a testimonianza del dramma della guerra. Il Deserto della

Libia viene compiutamente inteso come unione di un’ istanza moralistica,

principalmente nella prima parte, e di un’ istanza, per così dire, “esistenziale”, più lirica, in cui l’ infinitezza della sabbia si fa simbolo dell’ indifferenza della natura, della solitudine dell’ “io” di fronte alla violenza e della morte ormai inevitabile ed incalzante. La discontinuità delle prose, allora, è apparente: ognuna si configura come tappa, snodo, dal quale procedere sempre più a fondo nel dolore.

Felice Del Beccaro, dopo aver ricordato l’ importanza di testi poetici come

Veleno e amore e ‘44-‘48, per comprendere il percorso che ha portato al Deserto della Libia, come già De Robertis, afferma:

154

Ibidem.

155

G. De Robertis, Gli eroi di Tobino, in << Tempo >>, 1 marzo 1952, pag. 57. Il giudizio di De Robertis è riferito anche da F. Del Beccaro, Op. Cit., pag. 130.

Novità senza dubbio per la raggiunta sicurezza di disciplinare la propria tensione, avviandosi a comporre armonicamente secondo un doppio registro: quello morale di cui si è vista la prova più valida in Bandiera nera e quello poetico, o più propriamente lirico.156

Ancora una volta viene sottolineata la duplice natura del testo, come in De Robertis, che suggeriva di dover leggere il libro secondo un doppio registro, per poterne capire a pieno la forza e la verità.

Adriano Seroni, dopo un breve preambolo, dove ricorda le altre pubblicazioni dell’ autore, afferma risolutamente: << Il deserto della Libia è un diario di guerra >>157, e sottolinea l’ importanza della dedica dell’ autore a << coloro che non marcarono visita >>158, cioè agli strati di popolazione che << con semplicità, spesso con senso di fatalismo, si trovarono coinvolti nella grande e spietata avventura >>159. Partendo da questa considerazione segnala ciò che ritiene il fondamento del testo: la sua coralità. Il protagonista non è individuato in un personaggio, ma nella moltitudine dei soldati:

i protagonisti non sono né uno né due né tre, ne tanto meno il suo autore, ma una folla di uomini, con le loro passioni e le loro sofferenze, e anche le loro gioie. 160

Seroni nota l’ immersione della comunità in un ambiente che isola e destabilizza la quotidianità:

[la folla di uomini è presa] nell’ atmosfera del deserto, una terra dissueta, fuori della loro quotidiane abitudini, delle loro gioie e sofferenze di ogni giorno.161

Individuati i due poli del testo, il deserto e i soldati che dentro vi si muovono, il critico collega Il deserto della Libia a L’ angelo del Liponard,

156

F. Del Beccaro, Op. Cit., pag, 61.

157

A. Seroni, “Il deserto della Libia” di Mario Tobino, <<L’ Approdo>>, a. I, n. 2, aprile- giugno, 1952, pag. 90. 158 Ibidem. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 Ibidem.

dopo aver opportunamente distinto la storicità incalzante del primo, legato all’ evento bellico, e l’ atemporalità mitica del secondo:

anche se nel racconto [ L’ angelo] l’ avventura è fuori del tempo e senza tempo, e nel diario invece i fatti vengono a collocarsi in un preciso e indimenticabile calendario. È la forza, la vitalità dell’ uomo il fulcro di Tobino, anche in questo suo libro recente: uomo e natura, uomo e avventura, e l’ uomo che si muove con le sue forze e l’ avventura che si trasforma continuamente, con lui e di fronte a lui.162

A proposito della vicinanza-complementarità ideale del Deserto della Libia e dell’ Angelo del Liponard, si può citare uno scambio epistolare che Tobino ebbe con Pavese, anni prima dei contatti con Einaudi per la pubblicazione del Deserto della Libia. Episodio che appartiene alla storia editoriale del testo, di cui si parlerà in seguito, ma che vale la pena anticipare adesso. Nel 1946, Tobino manda a Einaudi due dattiloscritti: L’ Angelo ( una prima stesura dell’ Angelo del Liponard) e La guerra ( una parte del futuro

Deserto della Libia pubblicata a puntate su <<Fiera Letteraria>> ). Pavese

risponde:

Caro Tobino,

ho letto l’ Angelo e la Guerra. Ottimo il secondo, che per certa sua forza sarcastica ricorda Jahier. Meno mi convince il linguaggio dell’ Angelo […] Comunque i due racconti sono tali che mi propongo senz’altro di consigliarli a Einaudi. Piuttosto non le pare che ne verrebbe un libro troppo smilzo? Non ha almeno un altro racconto della stessa lunghezza da aggiungere?

Tobino risponde, celando dietro l’ “understatement”, un’ evidente irritazione e giustificando criticamente il suo operato:

Caro Pavese,

le sono molto grato per la sua cortesia […] Se mi è lecito, se mi scusa, di parlare di me stesso, vorrei dire che quei due racconti, (al di fuori del valore che possono avere) mi paiono uniti e solidali, il passaggio da un mondo a un altro; è per questo che desidererei pubblicarli insieme, e senza aggiunta,

162

perché appunto mi sembra stiano a dimostrare qualcosa, e cioè l’ Angelo l’ evasione dalla realtà, la Guerra la realtà che si impone nascendo il primo chiarore della libertà.

O forse mi sbaglio.

Mi scusi se mi sono messo così a parlare.

E vi sono stato costretto per esprimere il desiderio che quei due scritti vengano pubblicati da soli.163

A quell’ altezza il Deserto della Libia era un testo molto più “politico- storico”, assimilabile a Bandiera nera. Non è inutile ricordare che Tobino pubblicò L’ angelo del Liponard e Bandiera nera, << da soli >>, nel 1951, per i tipi di Vallecchi, dimostrazione della coerenza dell’ autore, una volta presa una decisione, oltre che di un’ ulteriore prova della vicinanza dei libri. L’ istanza politica affievolita nel Deserto della Libia per una maggiore complessità del testo era ben evidente in Bandiera nera, da lui ritenuto ottimo sostituto del primo Deserto per adempire a quel “progetto editoriale”. Claudio Varese, per tornare agli interventi critici, in accordo con Seroni, individua il protagonista del libro non in uno o l’ altro personaggio, ma nel popolo italiano. Parla di Tobino come autore patriota:

Il patriottismo, se si può usare questa parola dell’ ottocento nel suo più semplice significato, è l’ ispirazione sentimentale di questo libro, un patriottismo riflesso con l’ aiuto dell’ abilità letteraria in una virile presa di coscienza della realtà e in un’ amara lucidità d’ italiano. 164

La definizione di Tobino come patriota trova una giustificazione nel viareggino come senso di amore per il proprio paese, inteso come comunità di umili. L’ Italia torna ad essere il suo popolo: abbandonata la retorica fascista, riemerge la vera nazione capace di eroismo e il testo si fa cronaca di quella rinascita attraverso l’ evento drammatico della guerra:

163

La lettera di Pavese a Tobino si trova presso il fondo Mario Tobino all’ archivio Alessandro Bonsanti di Firenze, coll. MTb.I.488.2, 22 marzo 1946. La risposta di Tobino si trovano presso l’ Archivio Einaudi a Torino, coll. AE 5-6. Oggi anche in Mario Tobino, Op.

Cit, pag. 1766. 164

C. Varese, Mario Tobino, Bandiera nera, L’ angelo del Liponard e Il deserto della

una storia di guerra, umana, sincera, di un’ Italia vera, reale, di un’ Italia che ancora esisteva, nonostante la retorica, di un’ Italia capace nonostante tutto di eroismo.165

Molti degli scrittori che descrissero la propria esperienza di guerra erano dei dilettanti della letteratura, ma non Tobino, come ricorda lo stesso Varese:

Tobino che non appartiene alla categoria dei dilettanti della letteratura, gente spesso retorica, magari con la facile retorica del realismo, si vale della sua letteratura con l’ accorgimento di quel suo soldato Benedetto d’ Anghiari che, nei giudizi era sottile e insieme prudente e schivo, come se smorzasse quella luce che davano le sue parole e della quale non faceva alcun conto .166

Anche in questo articolo, come in quelli di Seroni, Il deserto della Libia è accostato e commentato insieme a Bandiera nera e L’ angelo del Liponard perché << l’ esperienza letteraria, la pronta finezza dello scrittore tendono sempre a scavare in una materia umana e attraverso i personaggi a ricreare un ambiente >>167.

<< Materia umana >> e << ambiente >>, ancora: ciò che salta all’ occhio del critico è la capacità dell’ autore di entrare in comunione con i suoi personaggi e i loro movimenti, che disegnano il mondo nel quale sono immersi. << I fatti parlano da soli >> per citare De Robertis.

Arnaldo Cherubini si ricollega a Cecchi e all’ idea di coralità delle opere di Tobino, per non attribuirla a Il deserto della Libia. Il critico, riferendosi alla frammentarietà del dettato tobiniano e alla sua incapacità di trovare un’ armonia compositiva esule da impennate di stile seguite a cadute, afferma:

Se volessimo circoscrivere con ancor più felice esattezza il Tobino, dovremmo porlo sotto il profilo della discontinuità – una discontinuità

165 Ivi, pag. 371 166 Ibidem. 167 Ibidem.

imprevedibile e incessante, che trattiene il giudizio quasi tra i due estremi, e lo rende necessario di continui ripiegamenti e cautele.168

Per spiegarsi paragona l’ autore ad un bambino che inanella frasi ben costruite e subito dopo errori grammaticali:

Succede non di rado, a leggere un componimento di fanciullo, di restare meravigliati per la incisività delle immagini, la scioltezza della parola, l’ efficacia delle costruzioni; e subito dopo, o appena voltata la pagina, la frase lambiccata, la descrizione impossibile, il vero e proprio errore.169

Cherubini inoltre, riconosce la volontà di Tobino di voler rappresentare, in qualche modo, il parlato, di volersi inserire in quel filone di autori che <<vogliono ottenere un effetto policromo e una efficacia documentaria […] da una parte insidiando la retorica del semplice, dello staccato, del fotografico […] e dall’ altra insidiando la ricerca del musicale, del vibrato, in una parola, di tutte quelle “essenze” che si considerano indispensabili a una pagina in cerca di interesse critico, cioè di modernità >>170. Non ne riconosce, però, il valore, non gli attribuisce le capacità necessarie per essere uno tra gli autori che << tendono al bello più che al piacevole171 >>. A suo giudizio Tobino, procedendo su questa strada difficile, è come se avanzasse sul filo del rasoio e si tagliasse senza accorgersene. Cherubini, nel suo commento, sebbene sembri negativo, non tralascia di ricordare come il deserto e la cultura araba, insomma l’ ambiente, uniscano le varie prose come un filo conduttore, e come siano la vera forza del testo: un’ indagine sulla natura umana, più che una cronaca di guerra:

Sabbia e arabi sono i due fili che tengono uniti i singoli episodi, con una aderenza ed una unità tali da farli apparire in fondo come i veri protagonisti, e da far sospettare nell’ autore di queste memorie uno scrittore colonialista,

168

A. Cherubini, Mario Tobino, Il deserto della Libia, << Il Ponte >>, luglio 1952, pagg. 1038-1040. 169 Ibidem. 170 Ibidem. 171 Ibidem.

vinto cioè nel profondo dal mal d’ Africa; lui, medico, ed abituato a guardare ben addentro alla natura degli uomini e delle cose.172

Anche Gilberto Finzi, nella sua introduzione all’ edizione del 1977, riconosce nel deserto il personaggio principale:

Il protagonista principale e vero dominatore del libro è il deserto, le sue mutazioni, il suo colore […] Il deserto è insieme simbolo e realtà: realtà dell’ attesa morbosa, poi drammatico teatro di guerra; simbolo dell’ infinito, vita nascosta, lotta e vita e morte indissolubili. 173

Grillandi, descrivendo lo stile del Deserto della Libia, parla di un melange tra giambico ed elegiaco, riprendendo una definizione di Cesare Garboli. Legge in Tobino quell’ alternanza tra satira corrosiva del regime, quello slancio moralistico di cui si è detto, nutrito dell’ esperienza del reale, e la riflessione lirica sul destino umano stretto nella morsa tra deserto e guerra; la capacità tobiniana di far fruttificare il vissuto con la fantasia che, da un evento o un oggetto, è capace di scorgere una verità più alta di quella dei fatti:

Una prosa che scatta continuamente tra due registri: quello della notazione precisa, di cosa vissuta e sofferta e quella della fantasia estravagante che si diverte ad indovinare dietro il risvolto dei fatti una mozione più segreta e più alta, qualcosa che sfugge ai sensi ma non ai sentimenti, uno spiritello ilare e accorato che trae le proprie ragioni di vita dalla disperazione e dalla speranza, senza che mai si intenda quale delle due sia chiamata a prevalere o da che parte sia la simpatia, la consentaneità dello scrittore.174

E aggiunge, rimarcando la duplice natura del testo tra diario di guerra ancorato alla storia e descrizione del percorso di un uomo che cerca, nella profonda sventura, il diritto alla felicità, trovando solo la morte:

172

Ibidem.

173

G. Finzi, Introduzione al Deserto della Libia, Milano, Mondadori, 1977, pagg. XIV-XV.

174

[Il Deserto della Libia è, piuttosto che un diario, una] proiezione, in chiave o tragica o grottesca, o ironica o tremenda, di una nostalgia esistenziale, il grido della giovinezza, lo slancio di un corpo e di una mente sani, liberi di rivendicare la propria briciola di felicità anche dal fondo del baratro, nei confini rossi della morte.175

Felicità che Del Beccaro faceva scaturire dalla fratellanza dei soldati, dalla loro capacità di stringersi in gruppo, prima contro Pilli e poi contro la morte. Il terrore forza il singolo e lo spinge nella comunità:

Attraverso il terrore istintivo per le manifestazioni del dolore e della morte […] si accede ad un più stretto senso di solidarietà, di amore ai propri simili. Dallo smarrimento ad un nuovo ordine. Quell’ amore, affidato all’ istinto e alla meccanica dei sensi, che è come un leit-motiv della prima parte, e che pur vale come un dato di ferma realtà di fronte alla stoltezza, si carica in seguito di ben altri attributi, risolvendosi interamente nell’ ambito di un’ umanità suo malgrado sofferente nella materia e più nello spirito.176

Spesso, scorrendo i vari interventi critici, è stato nominato il forte senso di comunione dell’ autore con i propri compagni, l’ importanza dell’ ambiente e della comunità dei soldati (non ultimo nell’ appena citato Del Beccaro ); il critico che, però, si è concentrato maggiormente sul ruolo della comunità nell’ opera di Tobino, e nel Deserto della Libia, è Giacomo Magrini. Magrini dà una prima definizione della differenza tra società e comunità citando Gemeinschaft und Gesellschaft (1887) di Ferdinand Tonnies, tedesco della seconda metà dell’ ‘800, uno dei padri della sociologia; e si legge:

Secondo la teoria della società, questa è un gruppo di uomini che, vivendo e stando, come nella comunità, in maniera pacifica gli uni accanto agli altri, non sono legati organicamente ma organicamente separati; mentre nella comunità

Nel documento Mario Tobino Il deserto della Libia (pagine 57-76)

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