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Il continuo scontro tra Medio Oriente e Occidente: la guerra dei Sei giorni e la questione

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A. Douglas, F. Malti-Douglas, op. cit., p. 3.

2

ibidem, p. 9.

3 M. Campanini, Storia del Medio Oriente Contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 149. 4 Jad, A brief History of Arabic Comics

Come si è visto, Nasser fu un personaggio fondamentale della politica egiziana e di quella internazionale per più di due decadi. Proprio la questione est-ovest fu una di quelle dove si avvertì di più la sua presenza: gli ufficiali liberi conquistarono il potere facendo leva sulla volontà di indipendenza da quell'occidente nei confronti del quale volevano tuttavia ridurre il gap di modernizzazione pur rimanendo all'interno delle prescrizioni dell'Islam. Proprio nei confronti dell'occidente Nasser mantenne una posizione intransigente, dalle questioni inerenti al patto di Baghdad alla costruzione della diga di Assuan, passando per il punto focale rappresentato dalla prestigiosa vittoria ottenuta con la nazionalizzazione del Canale di Suez.

Chiaramente un ruolo di primo piano sarebbe stato giocato da Israele, inevitabilmente al centro di ogni vicenda che riguardi i rapporti tra mondo arabo e occidente. La questione palestinese era percepita da Nasser come un annoso problema di tutto il mondo arabo del quale il leader egiziano si sentiva responsabile5. I segnali lanciati verso Israele a metà anni '60 lasciavano presagire una guerra che in realtà, sostengono gli studiosi, il leader arabo non cercava6: mentre da un lato si spendeva in bellicose minacce contro Israele, dall'altro rassicurava infatti gli americani che non ci sarebbero stati attacchi. Del resto, però, è stato ipotizzato che il leader arabo temesse l'esistenza di un'asse Stati Uniti-Israele il cui intento fosse di annullare la rivoluzione araba e socialista. Già dalla primavera del 1967, inoltre, la situazione internazionale era divenuta scottante, con attentati e rappresaglie tra guerriglia palestinese ed esercito israeliano sempre più frequenti, che Nasser sentiva di non poter ignorare portando egli sulle spalle il peso della leadership araba. Anche dalla Siria di Atassi continuavano a sopraggiungere minacce in chiave antisionista, mentre Nasser a maggio aveva chiuso alla navigazione israeliana lo stretto di Tiran, richiedendo poi alle Nazioni Unite di ritirare dal Sinai le proprie truppe. La politica di minacce perpetrata ai danni dello stato israeliano allertò le autorità di un paese che già malsoffriva il supporto egiziano ai fedayn palestinesi e che, per citare Campanini, «viveva un clima di isteria provocato dal timore dell'accerchiamento e di un nuovo olocausto»7. Anche a causa di una condotta sconsiderata da parte delle Nazioni Unite, che su ordine del segretario generale U Thant ritirarono le truppe dal Sinai, scoppiò quindi uno dei conflitti centrali della storia araba del Novecento. Guidata dal comandante Mordechai Hod, l'aviazione israeliana alle 07:45 della mattina del 5 giugno 1967 attaccò la base aeronautica egiziana distruggendo l'80% dei suoi mezzi, tra i quali tutti i bombardieri e ben 135 caccia. Seguì immediatamente l'attacco via terra contro Egitto, Siria e Giordania, che portò Israele nel giro di pochi giorni a occupare tutto il Sinai egiziano e Gaza, assestandosi sulla riva orientale del canale di

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Cfr. M. Campanini, Storia del Medio Oriente Contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 150.

6 Cfr. M. Campanini, Storia dell'Egitto Contemporaneo, Roma, Edizioni Lavoro, 2005, p. 186. 7 M. Campanini, Storia del Medio Oriente Contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 150.

Suez e conquistando le colline siriane del Golan a nord e la Cisgiordania e Gerusalemme a est. Quando, il 10 giugno, il conflitto si interruppe, tutto il mondo arabo – e ovviamente l'Egitto in primis – si ritrovò devastato da una pesante sconfitta politico-militare che permise a Israele di estendere il proprio territorio su un'importante fetta di territori arabi. Si trattò di una delle più pesanti sconfitte del mondo arabo, subita proprio da quel paese che del panarabismo era il simbolo e avallata dagli Stati Uniti, guidati da un Lyndon Johnson «profondamente ostile all'arabismo progressista di tipo nasseriano»8 e intenzionati a «gettare le basi di un loro rientro in grande stile nello scacchiere»9, come testimoniò nel 1968 la decisione del Congresso americano di autorizzare la vendita di cinquanta aerei a Israele affinché potesse sostituire i propri mezzi ormai obsoleti. Si trattò del primo passo verso quello che sarebbe poi stato lo storico, incondizionato schieramento degli Stati Uniti a favore di Israele10.

La Guerra dei Sei giorni segnò la fine del nasserismo11, costringendo il mondo arabo a riconsiderare la propria identità e di conseguenza a rivalutare il rapporto con l'occidente, condannando definitivamente le ideologie degli anni Cinquanta e Sessanta, ponendo irrimediabilmente la parola fine al sogno panarabo e decretando di fatto la fine del regno di Nasser, che aveva ormai perso fiducia nei propri mezzi ed era arrivato persino a rassegnare le dimissioni, respinte a furor di popolo.

Sul piano internazionale il problema dei rifugiati divenne ancor più tragico, con i palestinesi che si trovarono a dover emigrare in massa verso la Giordania, dove re Hussein nel cosiddetto “Settembre nero” ordinò all'esercito di attaccare le roccaforti palestinesi, arrivando sull'orlo di una guerra tutta araba con la Siria, pronta a supportare i palestinesi. I rifugiati migrarono quindi in Libano, specchio di un mondo arabo ormai frammentato e disorientato. Neppure l'ultimo vertice tra i paesi arabi indetto da Nasser, in seguito al “Settembre nero”, ebbe alcun esito: il 28 settembre, Nasser si spense in seguito a un attacco cardiaco lasciando il paese nelle mani di Sadat.

Il fallimento degli ideali laici di Nasser diede una forte scossa all'estremismo Islamico degli anni Settanta, percepito dal popolo senza speranze e senza lavoro come unica, vera alternativa all'occidente una volta visti cadere i miti di liberalismo, socialismo e nazionalismo arabo. Proprio le proteste popolari e studentesche vennero indirizzate verso l'Islam militante, in un tentativo post- coloniale di far sentire la voce del Sud debole e povero all'occidente capitalista e secolarizzato. Era stato proprio il linguaggio euro-occidentale, del resto, a provocare lo sradicamento dei musulmani

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ivi, p. 151.

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G. Valabrega, Il Medio Oriente. Aspetti e problemi, Milano, Marzorati, 1980, pp. 86-87

10 M. Campanini, Storia del Medio Oriente Contemporaneo, p. 151. 11 ivi, p. 192.

dalla propria tradizione, che adesso doveva essere riconquistata attraverso un movimento partigiano sempre più propenso verso la lotta armata in Stati nei quali l'opposizione politica spesso non era neppure ammessa. Una strada che veniva comunque rifiutata dalle organizzazioni più moderate, come gli stessi Fratelli Musulmani in Egitto, che ambivano a un'Islamizzazione dal basso da ottenersi tramite una presenza capillare all'interno della società. Le storiche ingiustizie perpetrate dall'occidente nei confronti degli arabi musulmani sin dalla colonizzazione, che aveva trovato poi l'apice nel conflitto israelo-palestinese, risultarono fondamentali nel definire quel malcontento popolare che determinò nel tempo la crescita delle organizzazioni Islamiche radicali.

La Palestina si trovò così costretta a riconoscere la realtà di Israele, mentre quest'ultimo doveva a sua volta riconoscere il problema palestinese. Il conflitto tuttavia si ostracizzò e a vincere furono gli estremismi: da una parte la lotta armata promossa da Yasser Arafat, leader dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) il cui statuto del 1968 sanciva all'articolo 15 che

la liberazione della Palestina, da un punto di vista arabo, è un dovere nazionale che ha come scopo quello di respingere l'aggressione sionista e imperialista contro la patria araba e mirare all'eliminazione del sionismo in Palestina.12

Dall'altra un Israele guidato da Golda Meir che rifiutava di discutere i piani proposti dal mediatore americano William Rogers e che rispose ai palestinesi occupandone indiscriminatamente i territori. Gli arabi si sentirono, ancora una volta e definitivamente, traditi dalle potenze occidentali. Con la loro condotta queste ultime contribuirono al radicalizzarsi di una diffidenza con la quale dobbiamo fare i conti tutt'oggi e che si fece sentire nel corso delle due guerre del Golfo, spingendo gran parte dell'opinione pubblica araba a non schierarsi apertamente contro il terrorismo di Al Qaeda.

Insomma, a concludere riguardo all'importanza della guerra dei Sei giorni accorre in aiuto ancora una volta una definizione di Campanini:

[La guerra dei Sei giorni] è stata cruciale per la storia del Medio Oriente. Ha segnato contemporaneamente la fine del nasserismo e il definitivo consolidamento di Israele. Ha determinato uno dei più problemi di più difficile soluzione della storia delle relazioni internazionali del XX secolo: quello dell'indipendenza e dell'identità del popolo palestinese, problema la cui apparente irrisolvibilità è tutt'oggi ben nota. Ha indirettamente alimentato lo sviluppo del radicalismo Islamico, sia nei territori occupati da Israele sia, più globalmente, in tutto il mondo arabo13.